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Narciso o
dell’alibi estetico
Natalia Ginzburg nel titolo di un suo libro diceva che “è difficile parlare
di sé”. Io devo riconoscere che per me è invece la cosa più naturale (non dico
“più facile” perché non sono sicura di saperlo fare bene). In uno dei tentativi
di bilancio, sempre più frequenti in questo tempo conclusivo, si è fatta più
chiara la coscienza che io, ammesso che sappia scrivere, so scrivere solo di me.
Non ho mai saputo descrivere paesaggi o persone o cose (all’opposto, in questo,
della mia Dolores Prato). Il mio sguardo è tutto rivolto all’interno: di me
stessa e degli scrittori che amo e attraverso i quali mi pare di arrivare a
conoscermi meglio. Basta leggere i titoli di due libretti, piccoli ma non privi
di pretese. Il primo è Luoghi, tempi e oltre. Divagazioni di una
egotista. Il secondo si intitola addirittura E io? Avverto
subito che anche la mia autoironia è sincera ma al tempo stesso sarà esibita
come arma di autodifesa preventiva.
La mia difesa delle ragioni dell’io nell’espressione letteraria e in genere
artistica, cioè la difesa del diritto di essere autobiografici è cominciata in
tempi in cui da parti diverse arrivava una moralistica censura
dell’autobiografismo. Oggi in realtà tutti scrivono tranquillamente di sé e le
armi della mia polemica si sono un po’ spuntate ma qualche residuo di quella
condanna si avverte qua e là. Anche io, che pure sono abbastanza timida e
insicura, parlerò solo, direttamente o indirettamente, di quello che mi sembra
il mio io.
Leggo dal primo libretto che risale al 1994 (in un capitolo che si intitola
Escatologia minima):
Forse devo concludere che sono la persona meno
adatta a parlare di Dio, la più refrattaria al sacro, – e me ne dispiace
– [aggiungo che
questo non è del tutto vero ma su questo torneremo]. Se non fosse per qualche
momento di rapimento estetico e soprattutto musicale che – forse
abusivamente – interpreto come apertura al divino. Sono più adatta a
parlare dell’io, di questo io gigante (o, piuttosto, gonfiato) che sobbalza
tutte le volte che sente dire che bisogna finirla con l’io e ne sente proclamare
la fine. L’altro giorno a Radio Tre sentivo dire che la crisi dell’io si deve
all’influenza delle filosofie orientali e alla psicanalisi (che, secondo me, ha
invece cercato di salvarlo anche se ha finito con l’ingabbiarlo in nuovi
schemi). Non si faceva cenno a quel fiero nemico dell’individuo e delle sue
libere scelte intellettuali ed esistenziali, in quanto solo aperto alle ragioni
collettive, che è stato il marxismo (così come, più o meno, ogni religione
confessionale).
Sorprenderà vedere che nei miei scritti autobiografici l’io è presentato
attraverso divagazioni prevalentemente teoriche e generali, dal problema
religioso al problema estetico, che ha una posizione di rilievo, Resta marginale
la cronaca.
Ma questa prospettiva che sembra comportare una apertura di orizzonti e un
trascendimento dell’ego – prospettiva concepita ed espressa per lo più in
termini piuttosto ingenui e sbrigativi – ha, in fondo, motivazioni molto
personali.
Fin dall’infanzia avevo avvertito che le occasioni esistenziali che mi
sembravano più alte e anche qualificanti per l’io, per la sua singolarità, erano
le epifanie estetiche, l’incantamento di fronte alla bellezza o a quello che
allora mi pareva bello (la differenza non conta molto per me che guardo
all’esperienza interiore perché le corde che vibrano sono le stesse). Musiche o
immagini o parole che suscitavano tali emozioni erano assunte
nel sacrario della memoria. Ma occorreva una sublimazione, un riconoscimento
obiettivo e impersonale della qualità di quelle esperienze e, soprattutto,
dell’io che era capace di provarle e che anzi in esse identificava la sua
quintessenza.
Di qui, già nell’adolescenza, il bisogno di trovare autorevoli argomenti per
riconoscere alla facoltà estetica un autonomo e alto valore conoscitivo.
Leggo dal secondo libretto, E io? Farà sorridere l’uso personale del nome
di grandi filosofi da parte di una presuntuosa adolescente.
Posso parlare di particolari epifanie, di
illuminazioni improvvise sulla via della mia formazione letteraria? Solo
nell’estate del ’44, quando, nella lunga vacanza dovuta all’arrivo degli
alleati, sul terrazzo condominiale studiai accanitamente per “saltare” la seconda
liceale, potei dar libero corso, senza esterne intrusioni, alle mie personali
impressioni di lettura. Detestavo la scuola che, a mio parere, inquinava, con
l’antiestetica impronta dell’istituzione pubblica, la dimensione, per me solo
privata, anche se al tempo stesso universale, della bellezza. Così il terrazzo
del condominio che guardava solo il cielo e le rondini in volo e mi concedeva la
vista di struggenti tramonti fu luogo privilegiato per vivere in pienezza la
profonda, l’indimenticabile emozione suscitata dalla prima alba purgatoriale.
“Dolce colore d’orïental zaffiro” è una musica che ancora, e per sempre, “dentro
mi suona”: Musica, malinconia, nostalgia: la dimensione elegiaca era quella a me
più congeniale e per questo continuo ad amare tanto il Purgatorio dantesco .
L’altro luogo deputato per le mie letture
solitarie era il Palatino, che ho sempre sentito come una seconda casa, cioè
come un rifugio privato, finché l’introduzione del biglietto d’ingresso me lo
fece sentire espropriato.
Tra quelle letture c’era il cartesiano
Discorso sul metodo
scelto per il prossimo esame come testo ritenuto
chiaro e non difficile. Pur apprezzando la limpidezza di quell’argomentare, mi
ribellai alle pretese totalizzanti di un razionalista convinto di poter
dimostrare l’esistenza di Dio, di esaurire il problema con una logica
argomentazione. Già mi piaceva poco la soddisfatta tranquillità con cui
quell’intransigente indagatore analitico si era accontentato delle
indimostrabili “idee chiare e distinte”. Eppure in quello stesso periodo mi ero
rivolta alla logica, alla univoca razionalità ma solo come arma di difesa di una
conversatrice timida e insicura (non avrei mai lasciato questa indotta forma
mentale di razionalista accanita al limite del sofisma). Nell’intimo sentivo
però, anche se confusamente, che non tutta la verità si concede all’ indagine
scientifica e razionale. A motivare questa convinzione più che lo stesso
sentimento religioso contava la mia esperienza (forse essa stessa non lontana
dalla religiosità) della poesia e dell’arte che avvertivo come un linguaggio
autonomo e intraducibile, un linguaggio non chiuso e univoco ma in certo senso
aperto all’infinito, nato da un inesauribile fervore, un’inesauribile tensione e
capace di attivare questi stati d’animo nello stesso fruitore (allora non
esisteva questa parola che uso con un certo disagio). Questo aspetto dinamico
convive per me nell’arte con il dono dell’armonia. Non mi sarei espressa allora
in questi termini ma mi sembrò che parlasse per me Giambattista Vico che
incontrai nello stesso periodo nel testo di storia della filosofia e
nell’antologia letteraria. Vico era per me l’ “Anticartesio”. Mi pare, per
inciso, di poter dire che già allora le mie scelte appassionate si manifestarono
come l’altra faccia di una mia avversione: era il segno di quella disposizione
polemica che non ho mai più tenuta a freno. E aggiungo già ora che il primo
dissidio agisce in me, nella mia interiorità, nella mia vitale ricerca di senso.
Sono scissa tra la mia mente sofistica e la mia aspirazione spiritualistica, il
mio insopprimibile bisogno di sperare in un senso ultimo che trascenda la
materiale contingenza. L’ agnizione
vichiana intendeva fondare le mie acritiche intuizioni e aspirazioni su un
terreno filosofico. Attribuendo alla storia il valore di sostanziale e intimo
divenire dell’esperienza conoscitiva ed esistenziale umana Vico assegnava alla
poesia un non secondario valore di conoscenza, affrancandola dalla soggezione
alla astratta razionalità come dalla definizione di puro ornato più o meno
sovrapposto a un contenuto morale. Le veniva finalmente riconosciuto lo
specifico e autonomo carattere di iniziazione al Vero che ormai, nella mia
confusa percezione, anch’io pretendevo di sentire come grande promessa dell’arte
in genere. Non rinnegavo l’iniziale approccio alla poesia come seduzione
musicale perché proprio attraverso il potere della musica avveniva, secondo me,
questa misteriosa iniziazione. Che perciò il Vero poetico (mi concedo la
maiuscola) fosse diverso dal reale cui tende la ricerca che si limita alla
contingenza, e dalla stessa teoresi filosofica, lo sentivo profondamente prima
di conoscere Croce. Era fatale che la successiva lettura del Breviario di
estetica mi associasse alla schiera, allora assai numerosa, dei crociani.
Croce poi soddisfaceva l’esigenza di superare la formula vichiana di poesia come
espressione corale e popolare affermandone il valore marcatamente individuale.
Era quanto si attendeva il mio spiccato individualismo.
Ho concesso tanto spazio a Vico perché, dopo Leopardi, è stato uno dei miei
primi autori e a lui, spericolatamente, ho poi scelto di dedicare la mia tesi di
laurea. Quanto a Croce aggiungo che mi appagava il suo ricondurre l’esperienza
estetica all’interiorità dello spirito che la vive, indipendentemente dalla
realizzazione in opera esterna, conferendo cittadinanza nel paese dell’arte,
grazie alla associazione di “genio” e “gusto”, anche a chi, come me, si limitava
a sentire non partecipando all’operare palesemente creativo, al poiein
che qualifica il poeta. Questa concezione mi ha portata sempre a diffidare, se
non delle opere definite “realistiche”, delle intransigenti poetiche
realistiche.
Può sembrare strano che, così interessata a salvare l’unicità dell’individuo,
poi cercassi autori in cui rispecchiarmi. (Ma il campo dell’arte è quello in cui
trovano legittimazione tante contraddizioni logiche: cosa in fondo molto
comoda).
Questa tendenza si è manifestata prima nella lettura, molto più tardi
nell’interpretazione scritta di testi letterari. Vale anzitutto per me la
definizione di “recensore autobiografico” che ho coniata per Svevo, una formula
assai compromettente.
La strana simbiosi con il mio Svevo si può cogliere in questo passo del primo
libretto autobiografico. Primo approccio scritto con uno dei miei autori – pochi
– a cui avrei dedicato il mio primo, tardivo, libro.
Ho capito la sottile crudeltà vendicativa con cui
talvolta costringo mia madre, che pure amo indicibilmente e perciò vorrei
felice, a servirsi di me, del mio aiuto. Questa mattina per tagliare il pane ed
aprire la scatola della marmellata. Non c’è dubbio: voglio creare in lei un
senso di dipendenza da me e quindi di inferiorità. In lei che, per amore,
s’intende, assume sempre il ruolo della guida, della consigliera. È tempo di
riflessioni sulle “figlie cattive”. C’è il romanzo della Cerati, c’era, qualche
anno fa, il romanzo di una pugliese su una figlia che si vergognava della madre
prefica. Ma c’è ora alla mie spalle soprattutto Svevo di cui ho ripreso la
lettura integrale. Svevo che, come nessun altro sa scoprire altarini e far
scoppiare bolle di sapone. Non si tratta di una pura chiarificazione
intellettuale di verità difficili da capire. Si tratta di una disposizione,
indotta, a guardarsi come dal di fuori accettando di vedere e di riconoscere
anche le verità che, benché ovvie, di solito si preferisce rimuovere. Per
raggiungere tale disposizione, tale stadio, è però necessario un compenso. E
questo, per alcune personalità poco portate all’esame di coscienza veramente
salvifico, che ha il fine e il compenso del perfezionamento etico o comunque
della trasformazione interiore, non può essere che quello, in certo senso
opposto, che può dare la scrittura. Questa mattina, infatti, meditavo di
cominciare a scrivere una confessione dei miei torti e delle mie cattive
intenzioni, più o meno riposte, nei confronti di mia madre. Secondario il
discorso sulle mie giustificazioni e sui miei meriti, ben noti e scontati,
credo, alla mia coscienza. Il semplice proposito mi è servito a capire molte
cose e, anzitutto, a rendermi conto che il mio intento era triplice: da una
parte, naturalmente, conoscermi meglio, dall’altra raggiungere una sorta di
pacificazione, di placamento di sotterranee inquietudini e, in appendice, con un
bel salto metalinguistico, capire, attraverso una personale verifica, che cosa
poteva capitare a Svevo, di cui sostengo l’estremo e radicale autobiografismo
spesso, a torto, sottovalutato dagli interpreti. Come potesse accadere cioè che
Svevo scrittore vedesse molto oltre l’orizzonte di Svevo personaggio. Mi è
sembrato di capire subito che è il piano della scrittura, il piano della
intenzionalità estetica, indipendentemente dal valore oggettivo del prodotto,
che può consentire questa migliore veduta, che può vincere certe inibizioni e
rimozioni compensando il trauma della scoperta negativa e avvilente con un dono
“alto” anche se ambiguo: un tipo di coscienza che sembra riscattare le carenze
del vivere nel momento stesso in cui ne prende atto, e ciò per il suo potere di
portare, o almeno promettere, una sorta di ordine, di armonia, di purezza nel
più confuso, disarmonico e degradato dei mondi possibili. Questa, si sa, è
un’idea risaputa, e oggi forse superata, del carisma estetico, la vecchia idea
di “catarsi”. Basterà prenderla non come una vera e propria definizione estetica
ma come una pura osservazione psicologica (questo discorso non riguarda infatti
il risultato estetico: non oserei certo, se così non fosse, associarmi a Svevo).
La personale esperienza mi fa supporre comunque che, se nelle opere di Svevo
vediamo il personaggio vivere in azione e in pensiero, più in pensiero che in
azione, a un livello di coscienza in genere più offuscato e mistificante di
quello dell’autore – che pure non
ha minimamente in mano, né pretende minimamente di averla, la chiave per
decifrare il “guazzabuglio” del cuore umano –, ciò non implica una
distinzione vera e propria del soggetto scrittore dal soggetto personaggio ma,
per così dire, una funzione diversa del pensiero-linguaggio. La funzione della
scrittura artistico-letteraria si presta all’estremo degli alibi, quello del
soggetto che tutto può ammettere e svelare di sé perché sul piano in cui si
muove non interessa né agli altri né a lui stesso se lui sia buono o cattivo ma
solo se sia bravo a leggere e a dire le interiori verità che si è proposto di
leggere e dire. E saperle dire esteticamente non significa di necessità –
ormai lo sappiamo – sublimarle con una forma alta o preziosa. Anche lo
scarno, e spoglio, e inameno scrittore che è Italo Svevo non si pone, come è
spesso sembrato per il suo tenace impegno di demistificazione, in netta
opposizione con l’estetismo decadentistico, se è vero che, come i suoi
personaggi, trova in definitiva nella consapevolezza e nella contemplazione di
se stesso la scusa per non cambiare (so bene di che si tratta). Perché sempre di
contemplazione e, in fondo, di compiacimento, si tratta, nonostante l’amaro,
ironico, dissacrante smascheramento. E perciò l’ambiguo dono della coscienza
estetica è anche una via di fuga dalla soluzione morale, un modo di esorcizzare
l’ombra di Banco non respingendola ma evocandola e dandole parola. Questa
rilevanza dell’“uomo estetico” nel senso più moderno della definizione, non
esclude però – Svevo è al massimo grado il luogo delle contraddizioni e
degli ossimori risolti in unità estetica – che nella globalità dell’io e
nella sua proiezione letteraria si possa trovare una componente etica
rilevantissima. E non solo rappresentata nel contesto dalla costante e primaria
presenza di una eloquente ombra di Banco, ma dal carattere stesso della
confessione. E la confessione, per quanto non finalizzata a una reale
rigenerazione, sia per il primario senso di colpa, di una colpa originale e
individuale che presuppone, sia per l’esigenza di verità che esprime, non può
non recare un contrassegno di umana ed etica pietas. Ciò, naturalmente,
in un caso come questo in cui, nonostante il sorriso ironico e scettico che
spesso l’accompagna, nonostante la perdita di un riferimento etico trascendente
o trascendentale, la confessione è ben lontana dalla professione di diabolico
cinismo di uno Jago o anche dal compiaciuto superomismo – neppure esso
privo di trasalimenti etici – di uno Stelio Èffrena o di un Giorgio
Aurispa.
Svevo, in fondo, potrebbe forse definirsi “un
moralista senza etica” .
Anche nel mio recente libretto su Dolores Prato non ho mancato di ripetere, in
termini più dimessi, che“non sono d’accordo con chi ha creduto di leggere,
con l’ammirazione del moralista, nei testi autobiografici di questa scrittrice,
soprattutto una coraggiosa e spietata confessione. Anche perché, perfino nei
casi in cui l’autore che parla di sé rinuncia a qualsiasi velo – tra i quali
non rientra il caso in questione –, la confessione
di un letterato, a meno che in lui prevalga,
come in Sant’Agostino, l’interesse etico, non tende a suscitare la “giusta”
condanna e riprovazione nel lettore ma cerca il riscatto e l’assoluzione da
parte della sua stessa coscienza in grazia della trasfigurazione estetica della
verità esistenziale. So bene di che si tratta”..
Questo perché desidero far sapere che anche io quando scrivo di me non celando
debolezze e magagne sono molto lontana da Sant’Agostino al quale mi avvicina
abusivamente ogni lettore che poi mi dice: “Come sei stata coraggiosa a
confessare tutte quelle cose!”. Io, un po’ mortificata, non oso rispondere: “Ma
io le ho rivelate sperando che fossero accettate, non giudicate. Sperando, cioè
di parlare ad artisti, non a censori” (a parte il fatto che non mi sembravano
già in sé cose gravi e infamanti).
Nella conclusione del passo letto si può tuttavia notare che, in rapporto a
Svevo, si tenta un recupero della dimensione etica, una conciliazione con quella
estetica.
E
nel capitolo seguente del libretto (estratto da un più lungo testo),
interrogandomi, su richiesta, intorno a un possibile “logos della poesia”, in
una sorta di escalation, tento timidamente un recupero addirittura della
dimensione religiosa: “l’icona, la metafora, il simbolo sono al tempo stesso
concentrazione e dilatazione. Dilatazione, direi romanticamente, all’infinito.
Non saremmo dunque lontani dall’esperienza religiosa”.
A
proposito del mio rapporto con la religione avevo scritto, nella mia
Escatologia minima:
Per quanto mi riguarda, ben lontana dalla
razionalizzazione teologica come dall’astrazione ascetica, non so concepire un
Dio da contemplare e da amare se non attraverso ciò che umanamente amo ed
ammiro e che promuovo al ruolo di tramite al divino e all’eterno. Ho già detto
degli affetti da immortalare ma devo dire dell’amore per ciò che considero bello
e alto. Penso alla misteriosa formula affiorata in un sogno di Emerico: “Via musica ad...”, formula che desiderio e fantasia completano con la
parola “Deum” nell’accezione che è a me più congeniale e, perciò stesso,
forse meno congeniale al Vero.
Questo tema deve operare nel profondo se giorni fa, all’alba (dettaglio non
insignificante), ascoltando alla radio il Quintetto d’archi di Schubert, io –
che solo alla morte di mio padre ho sentito il desiderio di ritmare e placare in
pochi versi la mia pena – ho pensato questi semplici versi che non pretendono di
essere poesia ma che valgono come testimonianza: “Forse è vero che c’è / un
Dio persona. / E se c’è è molto più su / del Quintetto di Schubert. / Ma certo
non lo ignora, / lo conosce e lo ama, / e forse mi parla proprio / con quei
suoni d’ombra e di luce, / e forse anche lì risplende / la sua suprema bellezza.
/ Solo così posso amarlo / e sperare d’incontrarlo / per parlare con Lui di
Schubert / e della bellezza del mondo”.
Molto probabilmente, almeno in questi termini consapevolmente ingenui, non si
tratta che di un bel sogno: per questo concludevo che l’idea di un possibile Dio
“umano” quanto più è congeniale al mio io, quanto più sembra rispondere a un
umano, personale desiderio, tanto meno sembra, a rifletterci spassionatamente,
“congeniale al Vero”.
E
anche il mio, non secondario, bisogno di fede in un senso spirituale e
finalistico, è strettamente legato al bisogno di questo io così invadente di
eternare se stesso oltre la morte fisica.
È
il momento di evocare l’altro mio autore in cui mi sono rispecchiata benché
tanto lontano dal primo (ma qui confesso che anche in Svevo ho cercato di
individuare qualche luce metafisica che balenerebbe “a sprazzi e a istanti”, per
usare una sua espressione).
Si tratta di Ungaretti, altro oggetto di lungo studio e grande amore.
In Ungaretti ho ritrovato un appassionato, intenso amore per la dimensione
temporale, in cui si scandisce una, insieme mobile e coerente, vicenda al tempo
stesso individuale e universale, vissuta ed espressa in una ininterrotta
tensione per sublimare l’umana esperienza attraverso la poesia. Anche per lui la
poesia vorrebbe essere una via per misurarsi con l’Eterno, per conciliare
“misura e mistero”.
La sfida conosce momenti drammatici specialmente quando L’Assoluto è pensato e
sentito come assoluta estraneità nei confronti dell’umano, e anche quando
l’esperienza del limite e del dolore o il pensiero della morte che si approssima
non trovano riscatto o conforto. Ma proprio nel dolore affiora la speranza che
torni a correre ”un patto” “tra ciò che dura e ciò che passa”. Questo
prometterebbe la fede cristiana ma la sua luce non dura. Così come non dura la
luce di quell’iperuranio platonico in cui i “nomi”, e con essi i referenti
umani, vorrebbero risplendere come “emblemi eterni”. È un universo poetico in
cui mi sono, per così dire, calata appropriandomi di quella rassicurazione che,
pur nel testimoniare il dubbio o la sfiducia, sa offrire la trasfigurazione
poetica. Nella quale la coincidentia oppositorum, non può essere
elusa dall’interprete in una riduzione a razionale univocità (l’ossimoro poetico
è una delle mie fissazioni: ad esso ho dedicato la raccolta di saggi intitolata
Il volto bivalente).
Di recente riflettendo su certe letture critiche di Montale (un altro dei miei
autori a cui però ho dedicato minor tempo), letture che volevano isolare il
Montale non credente considerando solo ironico ogni riferimento metafisico,
pensavo che nel discorso poetico, a differenza del discorso filosofico o
scientifico, anche là dove si denuncia una impossibilità di credere, se questa
impossibilità è dolorosa, l’oggetto desiderato e assente impregna legittimamente
del suo fascino e della sua aura la parola che nega. Il lettore ne deve tener
conto con proprio arricchimento.
A
questo punto, per introdurre una confessione mediata da alcuni miei scritti
ermeneutici, posso ricorrere ancora al libretto spudoratamente intitolato E
io?
Solo il mio tardivo e miracoloso matrimonio in
un’età in cui mai avrei pensato di cambiare stato mi offrì, oltre al compimento
dei miei sogni primari, la possibilità della necessaria evoluzione della mia
formazione letteraria mettendo a mia disposizione strumenti materiali e
intellettuali mai prima posseduti, ma soprattutto il sostegno di una profonda
comprensione e sintonia intellettuale (sintonia è una delle parole-chiave di
Emerico che richiama tra l’altro la dimensione musicale che tutti e due amiamo).
Incoraggiata da lui a scrivere, sono riuscita, dopo qualche anno, anche a
pubblicare qualche mio studio. Prima qualche articolo e qualche recensione (da
recensore subdolamente autobiografico).
Il primo libro, (Italo Svevo. Il superuomo dissimulato, Studium, Roma 1993)
fu dedicato a un amore non condiviso da Emerico: il
troppo asciutto Svevo, nel cui “oscuro universo” però, come ho detto, mi sforzai
di cogliere i pochi ma per me significativi “sprazzi e istanti” di luce, i segni
cioè di un bisogno, solitamente frustrato, di aprire la sua visione del mondo a
un senso alto e misterioso. Solo così potevo assimilarmelo non bastandomi per
sentirlo fratello il generico riconoscimento in lui di un “superuomo
dissimulato”. Anche quel libro nasceva dal bisogno di parlare di me attraverso
un autore che ritenevo in certo senso psicologicamente affine e dalla solita
voglia di contestare giudizi che non potevo accettare. Non riuscivo a vedere uno
Svevo scrittore interessato anzitutto a denunciare, con mutria
politico-moralistica, i difetti della società borghese; o, al contrario, a
ridere con cinica allegria di questi difetti e della vita in genere; o a
mostrare una predilezione per “l’uomo comune”; o a disintegrare
pirandellianamente l’identità individuale; o a rifiutare il cosiddetto “grande
stile” per disprezzo e non per coscienza di una fatale cacciata dall’Eden: uno
Svevo che, immune dalla “malattia” romantica, avrebbe sposato con entusiasmo i
principi del naturalismo francese aderendo a quel modello antindividualistico
fin dalle sue giovanili recensioni.
Come era invece Svevo? Non sto qui a dirvelo
ma forse mi sono già scoperta abbastanza.
Ma a questo punto devo riconoscere sinceramente
che questo scritto, nato come colloquio con me stessa per conoscermi meglio, è
fin dall’inizio uscito dal chiuso della mia stanza per cercare altri
ascoltatori. Quel che dico in queste pubblicazioni lo so già molto meglio di
come posso qui riassumerlo. A mia scusa (ecco affacciarsi l’ombra del mio alter
ego Zeno sempre in cerca di alibi) dirò che specialmente le memorie più remote
potranno offrire un campione di quel tipo di aspirante letterato che apparteneva
alla generazione anteguerra: con i suoi modelli ormai in disuso – e non tutti per reale decrepitezza
–,
con i suoi sogni neoromantici, con le sue ingenuità, e anche con qualche
finezza; un aspirante letterato ancora oggi fedele a un sogno spiritualistico
ormai considerato dalla cultura ufficiale come acritica affezione a un mito
insostenibile (non si può negare, del resto, che le conquiste della scienza
mettano oggi in crisi questa prospettiva).
Tornando al mio libro, nella rivista sveviana
“Aghios” l’estensore di una nota bibliografica notava che l’autrice polemizzava
“nel corso dell’intero libro con molta critica sveviana”. Leggendo queste parole
ricordo che entrai in crisi. Mi domandavo allarmata: la mia vis
polemica allora è una malattia, una strana
anomalia, una sorta di presuntuosa e immotivata pretesa? (L’educazione del mio
tempo alimentava un senso di colpa che i più spensierati riuscivano a
esorcizzare e i più deboli, o i più sensibili, coltivavano intimamente per tutta
la vita vedendolo insorgere all’improvviso alla minima occasione).
Ora riflettendo mi domando: non sarebbe compito
di chi fa la critica della critica, soffermarsi proprio su quelle che sembrano
proposte inedite per liquidarle con un argomentato giudizio negativo o per
segnalarne l’eventuale apporto positivo? Questo però di solito oggi non succede.
Le interpretazioni ritenute nuove o rivoluzionarie raggiungono il vaglio critico
di rado e per lo più quando chi le propone ha già un nome affermato.
Così, poco séguito ha avuto, nonostante le molte
recensioni e nonostante il nome Giachery, il libro marcatamente polemico
intitolato Ungaretti “verticale”
e pubblicato a Roma da Bulzoni nel 2000, scritto a quattro mani da me e da
Emerico per rivendicare la rilevanza, nell’opera del nostro poeta, di quella
tensione religiosa sottovalutata come pura retorica da molti critici in auge di
diversa tendenza. Ci sembrava particolarmente frainteso il momento di
religiosità apofatica espresso negli Inni. La “bella biografia” di cui parla il
poeta connettendo l’opera alla sua vita interiore ha, a nostro parere, come
lievito costante quel bisogno, non veramente appagato, di sperare che “tra ciò
che dura e ciò che passa [...] torni a correre un patto”. A questo libro che
testimonia la singolare sintonia anche intellettuale della coppia Giachery
siamo, naturalmente, molto affezionati.
C’era stata, nel ’97, una raccolta di saggi sui
grandi autori italiani degli ultimi due secoli, che già dal titolo, Il volto bivalente
(Vecchiarelli, Manziana),
si presentava come un omaggio all’amato ossimoro poetico. Il primo saggio
risaliva alla Commedia
dantesca per supporre, dietro l’ambigua valenza del volto umano, una sorta di
percorso iniziatico: la percezione della figura umana come solida e corposa
nella sfera della materia corrotta, l’Inferno; l’apparizione di “ombre vane,
fuor che ne l’aspetto”, nel Purgatorio; poi, nel Paradiso, il graduale
dissolversi dell’immagine corporea e individuale in pura luce –
la latenza – fino alla suprema
riapparizione del corpo glorioso e dei “visi a carità suadi”, e al sublime
paradosso della “nostra effige” che, al culmine dell’itinerario
in Deum,
appare al tempo stesso riconoscibile e indistinta: “È l’epifania del mistero
dell’Incarnazione, in cui si compie il riscatto e la sublimazione dell’uomo
attraverso l’assunzione, da parte di Dio stesso, del volto umano. È la meta
ultima cui tendeva l’ascetismo umanistico del poeta”.
Una meta a cui anch’io tenderei con tutta
l’anima, se avessi il dono di una vera fede. Ma in mancanza di questo dono
[come osservavo a proposito di
Montale] anche il solo desiderio o rimpianto di una fede umanistica,
spirituale e finalistica colorisce di sé tutto il discorso, ne costituisce tema
essenziale. È appunto da questa nostalgia che nasce il mio amore per l’ossimoro
che sfida l’implacabile determinismo della logica, il mio interesse per i
percorsi iniziatici, che, contrariamente alla parabola del percorso
naturalistico (nascita maturazione decadenza morte) promettono dopo la latenza
una rinascita di secondo grado, una consacrazione dell’ individuale io salvato
per sempre dalla morte. Al solito al centro del mio interesse è l’io, quell’ io
egotistico che emerge anche da questo discorso che, inizialmente chiuso in sé,
ha poi cercato, come notavo, un ascolto esterno (certamente anche un consenso).
Allora la mia interpretazione dei poeti è viziata da questo prepotente
soggettivismo? Il bisogno di riflettermi in loro può portarmi a non vedere la
loro reale fisionomia? Debbo dire a mia parziale discolpa che il mio Svevo non
somiglia al mio Ungaretti e il mio Leopardi è ben diverso dai due scrittori
posteriori (e non solo per una questione di cronologia). E che, naturalmente,
non cercherei una soggettiva affinità in Boccaccio, in Goldoni, che pure amo, o
in Brecht che non amo particolarmante ma che so apprezzare.
Ancora un omaggio ai miei autori nella solita
chiave appassionatamente polemica trova spazio nel libro, uscito nel 2003
(Stango, Roma) col titolo In cerca
della “pianta uomo”. In una
provocante copertina gialla si inquadra il tarocco dell’eremita, un Diogene con
la lanterna (ci piacciono i tarocchi, segni remoti di destino). Da questa
immagine parte la tirata della quarta di copertina che ho deciso di trascrivere
qui letteralmente perché mi pare possa rappresentare in una sintesi
significativa il mio rapporto con la poesia e con la letteratura.
“Diogene ha lasciato la sua botte per una comoda
poltrona e ha sostituito la lanterna con un paio di occhiali che gli servono per
leggere pagine e pagine. Ormai più letterato che filosofo, cerca l’uomo nelle
opere di poesia in versi e in prosa. Non ha gradito che per decenni lettori
ufficialmente deputati all’interpretazione e al giudizio abbiano impoverito
l’immagine umana limitandosi a cercare nelle stesse pagine da una parte schemi
formali intesi come frutto di un puro gioco verbale, dall’altra testimonianze di
un “vero” ridotto all’esteriore “certo” –
di fatto molto incerto – della
cronaca politica. Nelle due opposte tendenze riconosce i segni di un incalzante
nichilismo. Nichilismo più scoperto e dichiarato negli eccessi relativistici di
un altro indirizzo critico oggi vigente, l’ermeneutica decostruzionistica. Con
approcci diversi, che sempre coinvolgono, più o meno direttamente, la personale
umanità, il nostro Diogene cerca in autori italiani tra cui d’Annunzio, Svevo,
Ungaretti, Montale, la tensione primaria, teoretica e non utilitaria, ad
attingere attraverso l’esperienza interiore, esteticamente espressa, una forma
di conoscenza ‘totale’ non sostituibile dalle più canoniche modalità conoscitive
che sono quelle, per altro fondamentali, della ragione scientifica e
filosofica”.
A questo punto mi accorgo, cercando il filo o i
fili che legano i vari momenti della mia perlustrazione,, che non ho fatto altro
che insistere ossessivamente sugli stessi motivi. Eppure in questi ultimi tempi
si è fatta in me ancora più intollerante la solita avversione per le
interpretazioni ideologiche e aprioristiche che rinunciano al docile ascolto,
alla “presa diretta” con il testo e con la sua singolarità: da cui, per me, il
lettore non può prescindere se vuol cogliere di quello stesso testo la possibile
esemplarità. Più che mai mi accanisco contro il diktat ideologico che impone di
leggere non solo tutta la poesia del Novecento da Pascoli a Ungaretti, ma anche
la prosa, a cominciare da Svevo, come dissoluzione, “atomizzazione”, o
addirittura vanificazione del significato.
Ma non sarà anche questa mia “una fissazione Ma
continuo a dissociarmi, nonostante la mia personale simpatia per la ricerca
dell’unità (o, meglio, dell’Uno con la
NARCISO o dell’alibi estetico
Natalia Ginzburg nel titolo di un suo libro diceva che “è difficile parlare
di sé”. Io devo riconoscere che per me è invece la cosa più naturale (non dico
“più facile” perché non sono sicura di saperlo fare bene). In uno dei tentativi
di bilancio, sempre più frequenti in questo tempo conclusivo, si è fatta più
chiara la coscienza che io, ammesso che sappia scrivere, so scrivere solo di me.
Non ho mai saputo descrivere paesaggi o persone o cose (all’opposto, in questo,
della mia Dolores Prato). Il mio sguardo è tutto rivolto all’interno: di me
stessa e degli scrittori che amo e attraverso i quali mi pare di arrivare a
conoscermi meglio. Basta leggere i titoli di due libretti, piccoli ma non privi
di pretese. Il primo è Luoghi, tempi e oltre. Divagazioni di una
egotista. Il secondo si intitola addirittura E io? Avverto
subito che anche la mia autoironia è sincera ma al tempo stesso sarà esibita
come arma di autodifesa preventiva.
La mia difesa delle ragioni dell’io nell’espressione letteraria e in genere
artistica, cioè la difesa del diritto di essere autobiografici è cominciata in
tempi in cui da parti diverse arrivava una moralistica censura
dell’autobiografismo. Oggi in realtà tutti scrivono tranquillamente di sé e le
armi della mia polemica si sono un po’ spuntate ma qualche residuo di quella
condanna si avverte qua e là. Anche io, che pure sono abbastanza timida e
insicura, parlerò solo, direttamente o indirettamente, di quello che mi sembra
il mio io.
Leggo dal primo libretto che risale al 1994 (in un capitolo che si intitola
Escatologia minima):
Forse devo concludere che sono la persona meno adatta a parlare di Dio, la più
refrattaria al sacro, – e me ne dispiace –
[aggiungo che questo non è del tutto vero ma su questo torneremo]. Se non fosse
per qualche momento di rapimento estetico e soprattutto musicale che
– forse abusivamente
– interpreto come apertura al divino. Sono più adatta a parlare
dell’io, di questo io gigante (o, piuttosto, gonfiato) che sobbalza tutte le
volte che sente dire che bisogna finirla con l’io e ne sente proclamare la fine.
L’altro giorno a Radio Tre sentivo dire che la crisi dell’io si deve
all’influenza delle filosofie orientali e alla psicanalisi (che, secondo me, ha
invece cercato di salvarlo anche se ha finito con l’ingabbiarlo in nuovi
schemi). Non si faceva cenno a quel fiero nemico dell’individuo e delle sue
libere scelte intellettuali ed esistenziali, in quanto solo aperto alle ragioni
collettive, che è stato il marxismo (così come, più o meno, ogni religione
confessionale).
Sorprenderà vedere che nei miei scritti autobiografici l’io è presentato
attraverso divagazioni prevalentemente teoriche e generali, dal problema
religioso al problema estetico, che ha una posizione di rilievo, Resta marginale
la cronaca.
Ma questa prospettiva che sembra comportare una apertura di orizzonti e un
trascendimento dell’ego – prospettiva concepita ed espressa per lo più in
termini piuttosto ingenui e sbrigativi – ha, in fondo, motivazioni molto
personali.
Fin dall’infanzia avevo avvertito che le occasioni esistenziali che mi
sembravano più alte e anche qualificanti per l’io, per la sua singolarità, erano
le epifanie estetiche, l’incantamento di fronte alla bellezza o a quello che
allora mi pareva bello (la differenza non conta molto per me che guardo
all’esperienza interiore perché le corde che vibrano sono le stesse). Musiche o
immagini o parole che suscitavano tali emozioni erano assunte
nel sacrario della memoria. Ma occorreva una sublimazione, un riconoscimento
obiettivo e impersonale della qualità di quelle esperienze e, soprattutto,
dell’io che era capace di provarle e che anzi in esse identificava la sua
quintessenza.
Di qui, già nell’adolescenza, il bisogno di trovare autorevoli argomenti per
riconoscere alla facoltà estetica un autonomo e alto valore conoscitivo.
Leggo dal secondo libretto, E io? Farà sorridere l’uso personale del nome
di grandi filosofi da parte di una presuntuosa adolescente.
Posso parlare di particolari epifanie, di illuminazioni improvvise sulla via
della mia formazione letteraria? Solo nell’estate del ’44, quando, nella lunga
vacanza dovuta all’arrivo degli alleati, sul terrazzo condominiale studiai
accanitament per “saltare” la seconda liceale, potei dar libero corso, senza
esterne intrusioni, alle mie personali impressioni di lettura. Detestavo la
scuola che, a mio parere, inquinava, con l’antiestetica impronta
dell’istituzione pubblica, la dimensione, per me solo privata, anche se al tempo
stesso universale, della bellezza. Così il terrazzo del condominio che guardava
solo il cielo e le rondini in volo e mi concedeva la vista di struggenti
tramonti fu luogo privilegiato per vivere in pienezza la profonda,
l’indimenticabile emozione suscitata dalla prima alba purgatoriale. “Dolce
colore d’oriental zaffiro” è una musica che ancora, e per sempre, “dentro mi
suona”: Musica, malinconia, nostalgia: la dimensione elegiaca era quella a me
più congeniale e per questo continuo ad amare tanto il Purgatorio dantesco .
L’altro luogo deputato per le mie letture solitarie era il Palatino, che ho
sempre sentito come una seconda casa, cioè come un rifugio privato, finché
l’introduzione del biglietto d’ingresso me lo fece sentire espropriato.
Tra quelle letture c’era il cartesiano Discorso
sul metodo scelto per il prossimo esame come testo ritenuto chiaro e non
difficile. Pur apprezzando la limpidezza di quell’argomentare, mi ribellai alle
pretese totalizzanti di un razionalista convinto di poter dimostrare l’esistenza
di Dio, di esaurire il problema con una logica argomentazione. Già mi piaceva
poco la soddisfatta tranquillità con cui quell’intransigente indagatore
analitico si era accontentato delle indimostrabili “idee chiare e distinte”.
Eppure in quello stesso periodo mi ero rivolta alla logica, alla univoca
razionalità ma solo come arma di difesa di una conversatrice timida e insicura
(non avrei mai lasciato questa indotta forma mentale di razionalista accanita al
limite del sofisma). Nell’intimo sentivo però, anche se confusamente, che non
tutta la verità si concede all’ indagine scientifica e razionale. A motivare
questa convinzione più che lo stesso sentimento religioso contava la mia
esperienza (forse essa stessa non lontana dalla religiosità) della poesia e
dell’arte che avvertivo come un linguaggio autonomo e intraducibile, un
linguaggio non chiuso e univoco ma in certo senso aperto all’infinito, nato da
un inesauribile fervore, un’inesauribile tensione e capace di attivare questi
stati d’animo nello stesso fruitore (allora non esisteva questa parola che uso
con un certo disagio). Questo aspetto dinamico convive per me nell’arte con il
dono dell’armonia. Non mi sarei espressa allora in questi termini ma mi sembrò
che parlasse per me Giambattista Vico che incontrai nello stesso periodo nel
testo di storia della filosofia e nell’antologia letteraria. Vico era per me l’
“Anticartesio”. Mi pare, per inciso, di poter dire che già allora le mie scelte
appassionate si manifestarono come l’altra faccia di una mia avversione: era il
segno di quella disposizione polemica che non ho mai più tenuta a freno. E
aggiungo già ora che il primo dissidio agisce in me, nella mia interiorità,
nella mia vitale ricerca di senso. Sono scissa tra la mia mente sofistica e la
mia aspirazione spiritualistica, il mio insopprimibile bisogno di sperare in un
senso ultimo che trascenda la materiale contingenza.
L’ agnizione vichiana intendeva fondare le mie acritiche intuizioni e
aspirazioni su un terreno filosofico. Attribuendo alla storia il valore di
sostanziale e intimo divenire dell’esperienza conoscitiva ed esistenziale umana
Vico assegnava alla poesia un non secondario valore di conoscenza, affrancandola
dalla soggezione alla astratta razionalità come dalla definizione di puro ornato
più o meno sovrapposto a un contenuto morale. Le veniva finalmente riconosciuto
lo specifico e autonomo carattere di iniziazione al Vero che ormai, nella mia
confusa percezione, anch’io pretendevo di sentire come grande promessa dell’arte
in genere. Non rinnegavo l’iniziale approccio alla poesia come seduzione
musicale perché proprio attraverso il potere della musica avveniva, secondo me,
questa misteriosa iniziazione. Che perciò il Vero poetico (mi concedo la
maiuscola) fosse diverso dal reale cui tende la ricerca che si limita alla
contingenza, e dalla stessa teoresi filosofica, lo sentivo profondamente prima
di conoscere Croce. Era fatale che la successiva lettura del
Breviario di estetica
mi associasse alla schiera, allora assai numerosa, dei crociani. Croce
poi soddisfaceva l’esigenza di superare la formula vichiana di poesia come
espressione corale e popolare affermandone il valore marcatamente individuale.
Era quanto si attendeva il mio spiccato individualismo.
Ho concesso tanto spazio a Vico perché, dopo Leopardi, è stato uno dei miei
primi autori e a lui, spericolatamente, ho poi scelto di dedicare la mia tesi di
laurea. Quanto a Croce aggiungo che mi appagava il suo ricondurre l’esperienza
estetica all’interiorità dello spirito che la vive, indipendentemente dalla
realizzazione in opera esterna, conferendo cittadinanza nel paese dell’arte,
grazie alla associazione di “genio” e “gusto”, anche a chi, come me, si limitava
a sentire non partecipando all’operare palesemente creativo, al poiein
che qualifica il poeta. Questa concezione mi ha portata sempre a diffidare, se
non delle opere definite “realistiche”, delle intransigenti poetiche
realistiche.
Può sembrare strano che, così interessata a salvare l’unicità dell’individuo,
poi cercassi autori in cui rispecchiarmi. (Ma il campo dell’arte è quello in cui
trovano legittimazione tante contraddizioni logiche: cosa in fondo molto
comoda).
Questa tendenza si è manifestata prima nella lettura, molto più tardi
nell’interpretazione scritta di testi letterari. Vale anzitutto per me la
definizione di “recensore autobiografico” che ho coniata per Svevo, una formula
assai compromettente.
La strana simbiosi con il mio Svevo si può cogliere in questo passo del primo
libretto autobiografico. Primo approccio scritto con uno dei miei autori – pochi
– a cui avrei dedicato il mio primo, tardivo, libro.
Ho capito la sottile crudeltà vendicativa con cui talvolta costringo mia madre,
che pure amo indicibilmente e perciò vorrei felice, a servirsi di me, del mio
aiuto. Questa mattina per tagliare il pane ed aprire la scatola della
marmellata. Non c’è dubbio: voglio creare in lei un senso di dipendenza da me e
quindi di inferiorità. In lei che, per amore, s’intende, assume sempre il ruolo
della guida, della consigliera. È tempo di riflessioni sulle “figlie cattive”.
C’è il romanzo della Cerati, c’era, qualche anno fa, il romanzo di una pugliese
su una figlia che si vergognava della madre prefica. Ma c’è ora alla mie spalle
soprattutto Svevo di cui ho ripreso la lettura integrale. Svevo che, come nessun
altro sa scoprire altarini e far scoppiare bolle di sapone. Non si tratta di una
pura chiarificazione intellettuale di verità difficili da capire. Si tratta di
una disposizione, indotta, a guardarsi come dal di fuori accettando di vedere e
di riconoscere anche le verità che, benché ovvie, di solito si preferisce
rimuovere. Per raggiungere tale disposizione, tale stadio, è però necessario un
compenso. E questo, per alcune personalità poco portate all’esame di coscienza
veramente salvifico, che ha il fine e il compenso del perfezionamento etico o
comunque della trasformazione interiore, non può essere che quello, in certo
senso opposto, che può dare la scrittura. Questa mattina, infatti, meditavo di
cominciare a scrivere una confessione dei miei torti e delle mie cattive
intenzioni, più o meno riposte, nei confronti di mia madre. Secondario il
discorso sulle mie giustificazioni e sui miei meriti, ben noti e scontati,
credo, alla mia coscienza. Il semplice proposito mi è servito a capire molte
cose e, anzitutto, a rendermi conto che il mio intento era triplice: da una
parte, naturalmente, conoscermi meglio, dall’altra raggiungere una sorta di
pacificazione, di placamento di sotterranee inquietudini e, in appendice, con un
bel salto metalinguistico, capire, attraverso una personale verifica, che cosa
poteva capitare a Svevo, di cui sostengo l’estremo e radicale autobiografismo
spesso, a torto, sottovalutato dagli interpreti. Come potesse accadere cioè che
Svevo scrittore vedesse molto oltre l’orizzonte di Svevo personaggio. Mi è
sembrato di capire subito che è il piano della scrittura, il piano della
intenzionalità estetica, indipendentemente dal valore oggettivo del prodotto,
che può consentire questa migliore veduta, che può vincere certe inibizioni e
rimozioni compensando il trauma della scoperta negativa e avvilente con un dono
“alto” anche se ambiguo: un tipo di coscienza che sembra riscattare le carenze
del vivere nel momento stesso in cui ne prende atto, e ciò per il suo potere di
portare, o almeno promettere, una sorta di ordine, di armonia, di purezza nel
più confuso, disarmonico e degradato dei mondi possibili. Questa, si sa, è
un’idea risaputa, e oggi forse superata, del carisma estetico, la vecchia idea
di “catarsi”. Basterà prenderla non come una vera e propria definizione estetica
ma come una pura osservazione psicologica (questo discorso non riguarda infatti
il risultato estetico: non oserei certo, se così non fosse, associarmi a Svevo).
La personale esperienza mi fa supporre comunque che, se nelle opere di Svevo
vediamo il personaggio vivere in azione e in pensiero, più in pensiero che in
azione, a un livello di coscienza in genere più offuscato e mistificante di
quello dell’autore – che pure non ha minimamente in mano, né pretende minimamente di
averla, la chiave per decifrare il “guazzabuglio” del cuore umano
–, ciò non implica una distinzione vera
e propria del soggetto scrittore dal soggetto personaggio ma, per così dire, una
funzione diversa del pensiero-linguaggio. La funzione della scrittura
artistico-letteraria si presta all’estremo degli alibi, quello del soggetto che
tutto può ammettere e svelare di sé perché sul piano in cui si muove non
interessa né agli altri né a lui stesso se lui sia buono o cattivo ma solo se
sia bravo a leggere e a dire le interiori verità che si è proposto di leggere e
dire. E saperle dire esteticamente non significa di necessità
– ormai lo sappiamo
– sublimarle con una forma alta o
preziosa. Anche lo scarno, e spoglio, e inameno scrittore che è Italo Svevo non
si pone, come è spesso sembrato per il suo tenace impegno di demistificazione,
in netta opposizione con l’estetismo decadentistico, se è vero che, come i suoi
personaggi, trova in definitiva nella consapevolezza e nella contemplazione di
se stesso la scusa per non cambiare (so bene di che si tratta). Perché sempre di
contemplazione e, in fondo, di compiacimento, si tratta, nonostante l’amaro,
ironico, dissacrante smascheramento. E perciò l’ambiguo dono della coscienza
estetica è anche una via di fuga dalla soluzione morale, un modo di esorcizzare
l’ombra di Banco non respingendola ma evocandola e dandole parola. Questa
rilevanza dell’“uomo estetico” nel senso più moderno della definizione, non
esclude però – Svevo è al massimo grado
il luogo delle contraddizioni e degli ossimori risolti in unità estetica
– che nella globalità dell’io e nella sua
proiezione letteraria si possa trovare una componente etica rilevantissima. E
non solo rappresentata nel contesto dalla costante e primaria presenza di una
eloquente ombra di Banco, ma dal carattere stesso della confessione. E la
confessione, per quanto non finalizzata a una reale rigenerazione, sia per il
primario senso di colpa, di una colpa originale e individuale che presuppone,
sia per l’esigenza di verità che esprime, non può non recare un contrassegno di
umana ed etica pietas. Ciò, naturalmente,
in un caso come questo in cui, nonostante il sorriso ironico e scettico che
spesso l’accompagna, nonostante la perdita di un riferimento etico trascendente
o trascendentale, la confessione è ben lontana dalla professione di diabolico
cinismo di uno Jago o anche dal compiaciuto superomismo
– neppure esso privo di trasalimenti
etici – di uno Stelio Èffrena o di un
Giorgio Aurispa.
Svevo, in fondo, potrebbe forse definirsi “un moralista senza etica” .
Anche nel mio recente libretto su Dolores Prato non ho mancato di ripetere, in
termini più dimessi, che“non sono d’accordo con chi ha creduto di leggere,
con l’ammirazione del moralista, nei testi autobiografici di questa scrittrice,
soprattutto una coraggiosa e spietata confessione. Anche perché, perfino nei
casi in cui l’autore che parla di sé rinuncia a qualsiasi velo – tra i quali
non rientra il caso in questione –, la confessione
di un letterato, a meno che in lui prevalga, come in Sant’Agostino, l’interesse
etico, non tende a suscitare la “giusta” condanna e riprovazione nel lettore ma
cerca il riscatto e l’assoluzione da parte della sua stessa coscienza in grazia
della trasfigurazione estetica della verità esistenziale. So bene di che si
tratta”..
Questo perché desidero far sapere che anche io quando scrivo di me non celando
debolezze e magagne sono molto lontana da Sant’Agostino al quale mi avvicina
abusivamente ogni lettore che poi mi dice: “Come sei stata coraggiosa a
confessare tutte quelle cose!”. Io, un po’ mortificata, non oso rispondere: “Ma
io le ho rivelate sperando che fossero accettate, non giudicate. Sperando, cioè
di parlare ad artisti, non a censori” (a parte il fatto che non mi sembravano
già in sé cose gravi e infamanti).
Nella conclusione del passo letto si può tuttavia notare che, in rapporto a
Svevo, si tenta un recupero della dimensione etica, una conciliazione con quella
estetica.
E nel capitolo seguente del libretto (estratto da un più lungo testo),
interrogandomi, su richiesta, intorno a un possibile “logos della poesia”, in
una sorta di escalation, tento timidamente un recupero addirittura della
dimensione religiosa: “l’icona, la metafora, il simbolo sono al tempo stesso
concentrazione e dilatazione. Dilatazione, direi romanticamente, all’infinito.
Non saremmo dunque lontani dall’esperienza religiosa”.
A proposito del mio rapporto con la religione avevo scritto, nella mia
Escatologia minima:
Per quanto mi riguarda, ben lontana dalla razionalizzazione teologica come
dall’astrazione ascetica, non so concepire un Dio da contemplare e da amare se
non attraverso ciò che umanamente amo ed ammiro e che promuovo al ruolo di
tramite al divino e all’eterno. Ho già detto degli affetti da immortalare ma
devo dire dell’amore per ciò che considero bello e alto. Penso alla misteriosa
formula affiorata in un sogno di Emerico: “Via
musica ad...”, formula che desiderio e fantasia completano con la parola
“Deum” nell’accezione che è a me più
congeniale e, perciò stesso, forse meno congeniale al Vero.
Questo tema deve operare nel profondo se giorni fa, all’alba (dettaglio non
insignificante), ascoltando alla radio il Quintetto d’archi di Schubert, io –
che solo alla morte di mio padre ho sentito il desiderio di ritmare e placare in
pochi versi la mia pena – ho pensato questi semplici versi che non pretendono di
essere poesia ma che valgono come testimonianza: “Forse è vero che c’è / un
Dio persona. / E se c’è è molto più su / del Quintetto di Schubert. / Ma certo
non lo ignora, / lo conosce e lo ama, / e forse mi parla proprio / con quei
suoni d’ombra e di luce, / e forse anche lì risplende / la sua suprema bellezza.
/ Solo così posso amarlo / e sperare d’incontrarlo / per parlare con Lui di
Schubert / e della bellezza del mondo”.
Molto probabilmente, almeno in questi termini consapevolmente ingenui, non si
tratta che di un bel sogno: per questo concludevo che l’idea di un possibile Dio
“umano” quanto più è congeniale al mio io, quanto più sembra rispondere a un
umano, personale desiderio, tanto meno sembra, a rifletterci spassionatamente,
“congeniale al Vero”.
E anche il mio, non secondario, bisogno di fede in un senso spirituale e
finalistico, è strettamente legato al bisogno di questo io così invadente di
eternare se stesso oltre la morte fisica.
È il momento di evocare l’altro mio autore in cui mi sono rispecchiata benché
tanto lontano dal primo (ma qui confesso che anche in Svevo ho cercato di
individuare qualche luce metafisica che balenerebbe “a sprazzi e a istanti”, per
usare una sua espressione).
Si tratta di Ungaretti, altro oggetto di lungo studio e grande amore.
In Ungaretti ho ritrovato un appassionato, intenso amore per la dimensione
temporale, in cui si scandisce una, insieme mobile e coerente, vicenda al tempo
stesso individuale e universale, vissuta ed espressa in una ininterrotta
tensione per sublimare l’umana esperienza attraverso la poesia. Anche per lui la
poesia vorrebbe essere una via per misurarsi con l’Eterno, per conciliare
“misura e mistero”.
La sfida conosce momenti drammatici specialmente quando L’Assoluto è pensato e
sentito come assoluta estraneità nei confronti dell’umano, e anche quando
l’esperienza del limite e del dolore o il pensiero della morte che si approssima
non trovano riscatto o conforto. Ma proprio nel dolore affiora la speranza che
torni a correre ”un patto” “tra ciò che dura e ciò che passa”. Questo
prometterebbe la fede cristiana ma la sua luce non dura. Così come non dura la
luce di quell’iperuranio platonico in cui i “nomi”, e con essi i referenti
umani, vorrebbero risplendere come “emblemi eterni”. È un universo poetico in
cui mi sono, per così dire, calata appropriandomi di quella rassicurazione che,
pur nel testimoniare il dubbio o la sfiducia, sa offrire la trasfigurazione
poetica. Nella quale la coincidentia oppositorum, non può essere
elusa dall’interprete in una riduzione a razionale univocità (l’ossimoro poetico
è una delle mie fissazioni: ad esso ho dedicato la raccolta di saggi intitolata
Il volto bivalente).
Di recente riflettendo su certe letture critiche di Montale (un altro dei miei
autori a cui però ho dedicato minor tempo), letture che volevano isolare il
Montale non credente considerando solo ironico ogni riferimento metafisico,
pensavo che nel discorso poetico, a differenza del discorso filosofico o
scientifico, anche là dove si denuncia una impossibilità di credere, se questa
impossibilità è dolorosa, l’oggetto desiderato e assente impregna legittimamente
del suo fascino e della sua aura la parola che nega. Il lettore ne deve tener
conto con proprio arricchimento.
A questo punto, per introdurre una confessione mediata da alcuni miei scritti
ermeneutici, posso ricorrere ancora al libretto spudoratamente intitolato E
io?
Solo il mio tardivo e miracoloso matrimonio in un’età in cui mai avrei pensato
di cambiare stato mi offrì, oltre al compimento dei miei sogni primari, la
possibilità della necessaria evoluzione della mia formazione letteraria mettendo
a mia disposizione strumenti materiali e intellettuali mai prima posseduti, ma
soprattutto il sostegno di una profonda comprensione e sintonia intellettuale
(sintonia è una delle parole-chiave di Emerico che richiama tra l’altro la
dimensione musicale che tutti e due amiamo). Incoraggiata da lui a scrivere,
sono riuscita, dopo qualche anno, anche a pubblicare qualche mio studio. Prima
qualche articolo e qualche recensione (da recensore subdolamente
autobiografico).
Il primo libro, (Italo Svevo. Il superuomo
dissimulato, Studium, Roma 1993)
fu dedicato a un amore non condiviso da Emerico: il troppo asciutto Svevo, nel
cui “oscuro universo” però, come ho detto, mi sforzai di cogliere i pochi ma per
me significativi “sprazzi e istanti” di luce, i segni cioè di un bisogno,
solitamente frustrato, di aprire la sua visione del mondo a un senso alto e
misterioso. Solo così potevo assimilarmelo non bastandomi per sentirlo fratello
il generico riconoscimento in lui di un “superuomo dissimulato”. Anche quel
libro nasceva dal bisogno di parlare di me attraverso un autore che ritenevo in
certo senso psicologicamente affine e dalla solita voglia di contestare giudizi
che non potevo accettare. Non riuscivo a vedere uno Svevo scrittore interessato
anzitutto a denunciare, con mutria politico-moralistica, i difetti della società
borghese; o, al contrario, a ridere con cinica allegria di questi difetti e
della vita in genere; o a mostrare una predilezione per “l’uomo comune”; o a
disintegrare pirandellianamente l’identità individuale; o a rifiutare il
cosiddetto “grande stile” per disprezzo e non per coscienza di una fatale
cacciata dall’Eden: uno Svevo che, immune dalla “malattia” romantica, avrebbe
sposato con entusiasmo i principi del naturalismo francese aderendo a quel
modello antindividualistico fin dalle sue giovanili recensioni.
Come era invece Svevo? Non sto qui a dirvelo ma
forse mi sono già scoperta abbastanza.
Ma a questo punto devo riconoscere sinceramente che questo scritto, nato come
colloquio con me stessa per conoscermi meglio, è fin dall’inizio uscito dal
chiuso della mia stanza per cercare altri ascoltatori. Quel che dico in queste
pubblicazioni lo so già molto meglio di come posso qui riassumerlo. A mia scusa
(ecco affacciarsi l’ombra del mio alter ego Zeno sempre in cerca di alibi) dirò
che specialmente le memorie più remote potranno offrire un campione di quel tipo
di aspirante letterato che apparteneva alla generazione anteguerra: con i suoi
modelli ormai in disuso – e non tutti per
reale decrepitezza –, con i suoi sogni
neoromantici, con le sue ingenuità, e anche con qualche finezza; un aspirante
letterato ancora oggi fedele a un sogno spiritualistico ormai considerato dalla
cultura ufficiale come acritica affezione a un mito insostenibile (non si può
negare, del resto, che le conquiste della scienza mettano oggi in crisi questa
prospettiva).
Tornando al mio libro, nella rivista sveviana “Aghios” l’estensore di una nota
bibliografica notava che l’autrice polemizzava “nel corso dell’intero libro con
molta critica sveviana”. Leggendo queste parole ricordo che entrai in crisi. Mi
domandavo allarmata: la mia vis polemica
allora è una malattia, una strana anomalia, una sorta di presuntuosa e
immotivata pretesa? (L’educazione del mio tempo alimentava un senso di colpa che
i più spensierati riuscivano a esorcizzare e i più deboli, o i più sensibili,
coltivavano intimamente per tutta la vita vedendolo insorgere all’improvviso
alla minima occasione).
Ora riflettendo mi domando: non sarebbe compito di chi fa la critica della
critica, soffermarsi proprio su quelle che sembrano proposte inedite per
liquidarle con un argomentato giudizio negativo o per segnalarne l’eventuale
apporto positivo? Questo però di solito oggi non succede. Le interpretazioni
ritenute nuove o rivoluzionarie raggiungono il vaglio critico di rado e per lo
più quando chi le propone ha già un nome affermato.
Così, poco séguito ha avuto, nonostante le molte recensioni e nonostante il nome
Giachery, il libro marcatamente polemico intitolato
Ungaretti “verticale” e pubblicato a
Roma da Bulzoni nel 2000, scritto a quattro mani da me e da Emerico per
rivendicare la rilevanza, nell’opera del nostro poeta, di quella tensione
religiosa sottovalutata come pura retorica da molti critici in auge di diversa
tendenza. Ci sembrava particolarmente frainteso il momento di religiosità apofatica espresso negli Inni. La “bella biografia” di cui parla il poeta
connettendo l’opera alla sua vita interiore ha, a nostro parere, come lievito
costante quel bisogno, non veramente appagato, di sperare che “tra ciò che dura
e ciò che passa [...] torni a correre un patto”. A questo libro che testimonia
la singolare sintonia anche intellettuale della coppia Giachery siamo,
naturalmente, molto affezionati.
C’era stata, nel ’97, una raccolta di saggi sui grandi autori italiani degli
ultimi due secoli, che già dal titolo, Il
volto bivalente (Vecchiarelli, Manziana), si presentava come un omaggio
all’amato ossimoro poetico. Il primo saggio risaliva alla
Commedia dantesca per supporre, dietro
l’ambigua valenza del volto umano, una sorta di percorso iniziatico: la
percezione della figura umana come solida e corposa nella sfera della materia
corrotta, l’Inferno; l’apparizione di “ombre vane, fuor che ne l’aspetto”, nel
Purgatorio; poi, nel Paradiso, il graduale dissolversi dell’immagine corporea e
individuale in pura luce – la latenza
– fino alla suprema riapparizione del
corpo glorioso e dei “visi a carità suadi”, e al sublime paradosso della “nostra
effige” che, al culmine dell’itinerario in Deum,
appare al tempo stesso riconoscibile e indistinta: “È l’epifania del mistero
dell’Incarnazione, in cui si compie il riscatto e la sublimazione dell’uomo
attraverso l’assunzione, da parte di Dio stesso, del volto umano. È la meta
ultima cui tendeva l’ascetismo umanistico del poeta”.
Una meta a cui anch’io tenderei con tutta l’anima, se avessi il dono di una vera
fede. Ma in mancanza di questo dono [come
osservavo a proposito di Montale] anche il solo desiderio o rimpianto di
una fede umanistica, spirituale e finalistica colorisce di sé tutto il discorso,
ne costituisce tema essenziale. È appunto da questa nostalgia che nasce il mio
amore per l’ossimoro che sfida l’implacabile determinismo della logica, il mio
interesse per i percorsi iniziatici, che, contrariamente alla parabola del
percorso naturalistico (nascita maturazione decadenza morte) promettono dopo la
latenza una rinascita di secondo grado, una consacrazione dell’ individuale io
salvato per sempre dalla morte. Al solito al centro del mio interesse è l’io,
quell’ io egotistico che emerge anche da questo discorso che, inizialmente
chiuso in sé, ha poi cercato, come notavo, un ascolto esterno (certamente anche
un consenso). Allora la mia interpretazione dei poeti è viziata da questo
prepotente soggettivismo? Il bisogno di riflettermi in loro può portarmi a non
vedere la loro reale fisionomia? Debbo dire a mia parziale discolpa che il mio
Svevo non somiglia al mio Ungaretti e il mio Leopardi è ben diverso dai due
scrittori posteriori (e non solo per una questione di cronologia). E che,
naturalmente, non cercherei una soggettiva affinità in Boccaccio, in Goldoni,
che pure amo, o in Brecht che non amo particolarmente ma che so apprezzare.
Ancora un omaggio ai miei autori nella solita chiave appassionatamente polemica
trova spazio nel libro, uscito nel 2003 (Stango, Roma) col titolo
In cerca della “pianta uomo”. In una
provocante copertina gialla si inquadra il tarocco dell’eremita, un Diogene con
la lanterna (ci piacciono i tarocchi, segni remoti di destino). Da questa
immagine parte la tirata della quarta di copertina che ho deciso di trascrivere
qui letteralmente perché mi pare possa rappresentare in una sintesi
significativa il mio rapporto cin la poeia e con la letteratura.
“Diogene ha lasciato la sua botte per una comoda poltrona e ha sostituito la
lanterna con un paio di occhiali che gli servono per leggere pagine e pagine.
Ormai più letterato che filosofo, cerca l’uomo nelle opere di poesia in versi e
in prosa. Non ha gradito che per decenni lettori ufficialmente deputati
all’interpretazione e al giudizio abbiano impoverito l’immagine umana
limitandosi a cercare nelle stesse pagine da una parte schemi formali intesi
come frutto di un puro gioco verbale, dall’altra testimonianze di un “vero”
ridotto all’esteriore “certo” – di fatto
molto incerto – della cronaca politica.
Nelle due opposte tendenze riconosce i segni di un incalzante nichilismo.
Nichilismo più scoperto e dichiarato negli eccessi relativistici di un altro
indirizzo critico oggi vigente, l’ermeneutica decostruzionistica. Con approcci
diversi, che sempre coinvolgono, più o meno direttamente, la personale umanità,
il nostro Diogene cerca in autori italiani tra cui d’Annunzio, Svevo, Ungaretti,
Montale, la tensione primaria, teoretica e non utilitaria, ad attingere
attraverso l’esperienza interiore, esteticamente espressa, una forma di
conoscenza ‘totale’ non sostituibile dalle più canoniche modalità conoscitive
che sono quelle, per altro fondamentali, della ragione scientifica e
filosofica”.
A questo punto mi accorgo, cercando il filo o i fili che legano i vari momenti
della mia perlustrazione,, che non ho fatto altro che insistere ossessivamente
sugli stessi motivi. Eppure in questi ultimi tempi si è fatta in me ancora più
intollerante la solita avversione per le interpretazioni ideologiche e
aprioristiche che rinunciano al docile ascolto, alla “presa diretta” con il
testo e con la sua singolarità: da cui, per me, il lettore non può prescindere
se vuol cogliere di quello stesso testo la possibile esemplarità. Più che mai mi
accanisco contro il diktat ideologico che impone di leggere non solo tutta la
poesia del Novecento da Pascoli a Ungaretti, ma anche la prosa, a cominciare da
Svevo, come dissoluzione, “atomizzazione”, o addirittura vanificazione del
significato.
Ma continuo a dissociarmi, nonostante la mia personale simpatia per la ricerca
dell’unità (o, meglio, dell’Uno con la maiuscola), anche dall’applicazione
incondizionata e aprioristica, cioè ideologica, di formule contrarie, come
quella, per Pascoli, dell’ “omofonia”, della monotonia che non consente di
cogliere, quando c’è, anche sul piano fonico e ritmico, quella frizione dei
contrari che rende più viva e vera la stessa unità poetica.
Ma non sarà anche questa mia “una fissazione”, –
come diceva Pirandello –, una
fissazione ideologica – come temo io
–?
Devo ora accennare al mio, più recente, incontro con la grande Dolores Prato,
seguita da me con amore in tutte le sue opere edite, e anche portata, con amore,
alla conoscenza del pubblico nel suo primo romanzo, felicemente proposto per la
pubblicazione ad Avagliano Editore (Roma), che lo ha dato alle stampe nel 2009
col titolo Campane a Sangiocondo.
Da questa amorosa frequentazione è nato un mio libretto, pubblicato nel 1998 da
Graphisoft (Roma) col titolo Le “mani tese” di Dolores. I romanzi di Dolores
Prato. Rispecchiandomi in questo alter ego letterario (anche questo
amore è nutrito di sintonia) ho riconosciuto che anche io, questa egotista
concentrata su se stessa, tendo in realtà le mani verso gli altri ma forse solo
perché ne ho bisogno (in questo momento infatti sento un gran bisogno di essere
capita, di non sembrare una fatua esibizionista e neppure una egoista). Ieri ho
assistito alla presentazione di un libro di memorie della cara Giovanna
Napolitano, Cara a me e cara a tutti, come è apparso dal caldo, affettuoso
stringersi intorno a lei degli amici presenti. Perché Giovanna ama gli altri e
nel suo scritto parla degli altri, degli amici che hanno dato gioia alla sua
vita e a cui ha dato gioia. Parla di loro e delle loro case, case con l’anima. E
ha detto che non bisogna scrivere “guardandosi l’ombelico”. E io, che so solo
guardarmi l’ombelico, mi sono un po’ vergognata. E sto qui a domandarmi se, come
mi sembra, sono capace di amare veramente, disinteressatamente gli altri. Non
vorrei essere solo un Narciso insicuro.
... anche dall’applicazione incondizionata e
aprioristica, cioè ideologica, di formule contrarie, come quella, per Pascoli,
dell’ “omofonia”, della monotonia che non consente di cogliere, quando c’è,
anche sul piano fonico e ritmico, quella frizione dei contrari che rende più
viva e vera la stessa unità poetica.”, – come diceva Pirandello
–, una fissazione ideologica – come temo io –?
Devo ora accennare al mio, più recente, incontro
con la grande Dolores Prato, seguita da me con amore in tutte le sue opere
edite, e anche portata, con amore, alla conoscenza del pubblico nel suo primo
romanzo, felicemente proposto per la pubblicazione ad Avagliano Editore (Roma),
che lo ha dato alle stampe nel 2009 col titolo Campane a Sangiocondo.
Da questa amorosa frequentazione è nato un mio
libretto, pubblicato nel 1998 da Graphisoft (Roma) col titolo Le “mani tese”
di Dolores. I romanzi di Dolores Prato. Rispecchiandomi in questo alter
ego letterario (anche questo amore è nutrito di sintonia) ho riconosciuto
che anche io, questa egotista concentrata su se stessa, tendo in realtà le mani
verso gli altri ma forse solo perché ne ho bisogno (in questo momento infatti
sento un gran bisogno di essere capita, di non sembrare una fatua esibizionista
e neppure una egoista). Ieri ho assistito alla presentazione di un libro di
memorie della cara Giovanna Napolitano, Cara a me e cara a tutti, come è apparso
dal caldo, affettuoso stringersi intorno a lei degli amici presenti. Perché
Giovanna ama gli altri e nel suo scritto parla degli altri, degli amici che
hanno dato gioia alla sua vita e a cui ha dato gioia. Parla di loro e delle loro
case, case con l’anima. E ha detto che non bisogna scrivere “guardandosi
l’ombelico”. E io, che so solo guardarmi l’ombelico, mi sono un po’ vergognata.
E sto qui a domandarmi se, come mi sembra, sono capace di amare veramente,
disinteressatamente gli altri. Non vorrei essere solo un povero Narciso
insicuro.
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