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Per altre misurePer altre misure: l’inquietante vaghezza del titolo, quasi un ossimoro che sfuma nell’indefinito la stessa idea di misura, di definizione, prepara il lettore a un mobilissimo itinerario del pensiero e dei sentimenti nell’inseguire la “minima storia” narrata in questo testo. “Minima” è definita la storia dallo stesso autore perché riguardante la vita ordinaria e non eroica di due ordinari protagonisti; e non vale a conferirle prestigio il fatto che sia al tempo stesso storia di ognuno o, meglio, del signor Ognuno (la maiuscola è certamente ironica) perché la prospettiva in cui è vista quella che Leopardi definirebbe “prole dell’uomo” è leopardianamente, e modernamente, cosmica.
Ma ci sembra di avvertire che in quest’opera, più lirica che narrativa o drammatica (benché non sia mancato un iniziale progetto teatrale), l’autore, più scopertamente e primariamente nella figura del Testimone ma non solo in questa, si manifesta come parte in causa, coinvolto e vibrante e anche operante nel condurre il discorso verso conclusioni che sembrano a lui congeniali (ma, a dire il vero, più che di conclusioni si può parlare qui di attese e di trepide e incerte speranze). Si può notare che, se la sua entrata in scena è definita impromptu, è forse, questo, segno di un rapporto immediato e mosso con l’azione narrata. Il Testimone è il poeta, è l’artista che, pur non immune, nel vivere, dalla comune sorte, dalle comuni passioni e contraddizioni e dallo stesso comune “farneticare”, può forse trovare parole diverse da quelle “torme”, da quegli “sciami di parole” che, nate dal rumore, sono esse stesse indistinto rumore e non “dicono”, non “risolvono” (diverse nella loro dolce musica, e perciò segnalate in corsivo, sono anche le parole, nate dalla memoria, di una cantilena infantile evocata dalla Donna per un consolatorio ritorno al felice Eden dell’infanzia). La timida fiducia che il poeta nutre nelle sue parole forse nasce dal sentirle nate dal silenzio. Al silenzio aspirano i protagonisti nella loro inquietudine senza sosta, a un riposo che rassomiglia all’inerzia, all’annullamento, una pace negativa dunque anche se una volta prende forma il sogno di una sosta contemplativa, forse un approdo definitivo, nella pace della natura: “Un albero per appoggiarvi la schiena. | Stare là senza pensieri, senza possessi. | Il mondo davanti, dietro, intorno.| Uguale al ramo, alla foglia. Che importa | la tegola rotta, la stanza stretta?” Una pace orizzontale, potremmo dire, pascolianamente cercata nelle piccole, prossime presenze naturali. Perché è vano spingere lo sguardo in lontananza: “Una sera Lui ha portato un binocolo, | per guardare lontano, | al di là dei muri e dei terrazzi. | Ma altri muri vanno crescendo | e sparisce ogni giorno un poco | il viale degli eucalipti” (qui il senso mi pare trascenda la pura valenza ecologica). Il testimone-poeta, anche se dice di non sapere, di non potere inoltrare “lo sguardo, per quanto s’interni, al di là di quel che gli si manifesta”, riesce, a momenti, a guardare dall’alto il “teatrino” del mondo, questo assurdo formicolare di terrestri tra cui lui stesso si muove. Infine, deposta, sembrerebbe, la veste di personaggio del trittico, l’autore, nella sua testimonianza, si libra in una prosa più poetica della stessa poesia in versi: una grande pagina dove è all’inizio ripreso, in prospettiva più alta e liberata dai riferimenti più contingenti e datati, il grande tema dell’umana impotenza e cecità e inconsistenza di fronte al mistero della vita e della morte; ma a poco a poco si fa strada una imprevista consolazione. Dapprima si parla solo di “un’allegria sempre riaffiorante” nell’“orrore del vuoto” e potremmo pensare che si alluda ancora alle solite false consolazioni di cui è costellato il racconto precedente e che ne determinano l’interna dialettica. Ma questa volta a motivare quella “allegria” è, ungarettianamente, la poesia stessa: è la poesia che nasce dal “bisogno di definirlo, quel vuoto, fino al terrore, allo spasimo: nella negazione affermarsi”. Ancora però non siamo fuori dall’ossessiva alternanza. Sembra prevalere il senso di vanitas vanitatum. Inquietante è “l’assalto” di memorie, di voci che chiedono di essere fissate. Voci di vivi e di morti. “Voci alte e fioche”. Ma quasi a sorpresa il libro si chiude offrendoci una di quelle epifanie che nella alta poesia, sempre lirica anche se narrativa, spesso compensano delle più sofferte discese agli inferi: “ - Dal pianoforte, leva simmetrie, muove estasi. Nella finestra il sole del mattino, lontani gli alberi le case. Il capo lievemente chino. Assorta, non ai suoni suscitati dalle dita, ma al suono, inudibile, da cui scaturiscono quei suoni.” Torna la meditazione, confortata dalla miracolosa apertura a un possibile approdo: “Possibile la misura, se urge trovarla. Forse solo una ragione più ampia di questa bastata finora: un fiammifero nel buio”. Pensiamo che questa nuova misura sia diversa da quella proposta a pagina 29 “per seguitare” rinunciando alla “salvezza e alla “uscita”. Il quadro che chiude il libro è un’immagine di non impossibile salvezza: “Un giardino da concimare, annaffiare. Dove sapersi uguale allo sterpo, alla rosa. Nella stagione che muta. Qui la pena è un vorticare di acque. Qui l’allegria è un vento tiepido e lieve”. Non ho potuto rinunciare a sostare più a lungo nell’ascolto di queste parole pacate, pausate, evidentemente nate dal silenzio della contemplazione e della poesia. |
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