In un
capitolo che ritengo centrale nella struttura del mio
libro
avevo già avuto occasione di prendere le distanze da
questa
posizione critica. Allora costituiva la chiave ideologica
del
saggio di Lavagetto intitolato L’impiegato
Schmitz e altri saggi su Svevo (Einaudi,
Torino 1975) e
non aveva
ancora avuto l’occasione di imporsi perentoriamente
nella
cura dei romanzi di Svevo, prima per l’edizione
Einaudi-Gallimard (Torino 1993), poi, nel 2003, per il
volume
Romanzi e ‘continuazioni’ dei “Meridiani” mondadoriani
(sedi che
avrebbero richiesto, penso, la responsabilità
di un
curatore che, più che concedere spazio a soggettive
ipotesi
piuttosto spericolate, offrisse, se mai, un
obiettivo
panorama della ricezione critica del romanzo).
Ma su
questo tema tornerò dopo aver scoperto le mie carte.
riproponendo la mia originale interpretazione della Coscienzadi Zeno
nei
termini in cui apparve nel mio primo libro sveviano in un capitolo intitolato
Una rimozione contagiosa.
La
ricerca prendeva le mosse da un dialogo tra Guido e Zeno nel
quale ho
sempre individuato un nodo centrale del romanzo. Ecco il
passo trascritto dalle pagine 1006-7 dell’edizione
mondadoriana. (Avverto subito che in questo caso del
tutto
inattendibile è l’ipotesi di una distrazione di Zeno per
il
lettore consapevole che Zeno nei suoi frequenti colloqui
con il
suo rivale Guido è sempre spasmodicamente attento
e teso come un duellante a colpire e a parare i colpi dell’avversario).
Guido improvvisamente domandò: –
Tu che sei chimico
sapresti dirmi se sia più
efficace il veronal puro o il
veronal al sodio? – . Io
veramente non sapevo neppure che
ci fosse un veronal al sodio.
Non si può mica pretendere
che un chimico sappia il mondo a
mente. Io di chimica so
tanto da poter trovare subito
nei miei libri qualsiasi informazione
e inoltre da poter discutere –
come si vede in quel
caso – anche delle cose che
ignoro. Al sodio? Ma se era
saputo da tutti che le
combinazioni al sodio erano quelle
che più facilmente si
assimilavano. Anzi a proposito del
sodio ricordai – e riprodussi
più o meno esattamente – un
inno a quell’elemento elevato da
un mio professore
all’unica sua prelezione cui
avessi assistito. Il sodio era un
veicolo sul quale gli elementi
montavano per moversi più
rapidi. E il professore aveva
ricordato come il cloruro di
sodio passava da organismo ad
organismo e come andava
adunandosi per la sola gravità
nel buco più profondo della
terra, il mare. Io non so se
riproducessi esattamente il pensiero
del mio professore, ma in quel
momento, dinanzi a
quell’enorme distesa di cloruro
di sodio, parlai del sodio.
Dopo un’esitazione, Guido
domandò ancora: – Sicché
chi volesse morire dovrebbe
prendere il veronal al sodio? –
– Sì – risposi. Poi ricordando
che ci sono dei casi in cui si
può voler simulare un suicidio e
non accorgendomi subito
che ricordavo a Guido un
episodio spiacevole della sua
vita, aggiunsi: – E chi non
vuole morire deve prendere del
veronal puro – [il
corsivo è mio]. Gli studi di Guido sul
veronal avrebbero potuto darmi
da pensare. Invece io non
compresi nulla, preoccupato
com’ero dal sodio, con un rispetto infinito.
Fin dalle
prime letture della Coscienza a questo punto mi si affacciava uno strano
problema, che sembrerebbe più adatto a impegnare un lettore di romanzi gialli
che un interprete letterario: Zeno è o non è assassino?
Mi è
sembrato di dover rispondere senza alcuna esitazione
che Zeno
è, sì, assassino, e la risposta mi sarebbe sembrata
ovvia se
non avessi dovuto riconoscere, con vero
turbamento, che per la critica sveviana non lo è affatto.
Il
dialogo sul veronal, da me già citato, è per lo più
ignorato
nonostante la battuta finale («E chi non
vuole
morire deve prendere del veronal
puro»),
che a me sembra micidiale come un ordigno a
orologeria. Là dove nasce il sospetto che Zeno non amasse Guido, gli indizi si
individuano nel mancato funerale o nella, presunta, “omissione di soccorso”.
Nei
riepiloghi dell’intreccio della Coscienza, che capita
di
leggere in testi diversi, non si parla mai di veronal.
Ma, quel
che è più strano, la stessa critica psicanalitica,
che
avrebbe strumenti adeguati e prospettive mirate per
dare il
giusto rilievo a questo episodio, all’ultimo momento
scantona.
Edoardo Saccone sostiene che «Zeno non
uccide il
rivale; lavorerà invece per lui, suo padrone, e
aspetterà. La morte arriverà per Guido» 2). E Franco
Petroni,
che cita il veronal, parla però di distrazione «ai
danni di
Guido» di uno Zeno neppure «messo in sospetto
dal fatto
che [a Guido] interessi il veronal». Petroni sostiene,
in
generale, che «a un giudizio sulla colpevolezza di
Zeno non
si arriva non solo per l’ambiguità della situazione
ma anche
perché manca la morale in base alla quale
giudicare» 3).L’elusione sorprende particolarmente in un saggio
come
quello di Elio Gioanola che si intitola proprio Un killer
dolcissimo. L’autore,
capace di cogliere con fine
acume e
sapienza psicanalitica tutte le occasioni in cui
emerge
nel Soggetto sveviano il primario desiderio di
uccidere
il rivale, manca poi la sua migliore occasione
quando
considera l’uccisione di Guido un delitto fantasticato
a livello
inconscio più che effettivamente perpetrato
e insiste
sulla colpa di «non intervento», di pura omissione
di
soccorso 4).
Potremmo
pensare a un caso curioso di rimozione contagiosa,
di «zenizzazione»
degli svevisti (e poi c’e chi dice
che il
Soggetto sveviano non suscita l’identificazione del
lettore!). Ma forse, sapendo che lo studioso attuale è più
spesso
disposto a elucubrazioni intellettualistiche che a
suggestioni emotive, possiamo supporre che abbia operato
sugli
interpreti il cliché dell’«inetto» a tutti i
costi,
che per essere tale deve essere del tutto incapace di
agire,
anche attraverso la parola. Sentiamo infatti ripetere,
da Guido
Guglielmi e da altri, che «le parole non sono per
l’appunto
azioni» 5). E anche Saccone ha bisogno di verificare
e veder
confermato a tutti i costi il suo schema interpretativo
fondato
sull’idea di un regolare rinvio, in Zeno,
della
soddisfazione dei desideri, per cui il personaggio
non
potrebbe voler soddisfare il suo desiderio di uccidere
Guido.
Bisogna
ammettere che qualche occhio più attento a
cogliere
questo punto nodale – ma non a trarne le necessarie
conseguenze – si può trovare in uno degli interpreti sveviani.
Sembra
che Zeno sia finalmente smascherato proprio da Mario
Lavagetto
il quale, nell’Impiegato Schmitz, sostiene che Ada,
«come il
lettore del romanzo, vede in Zeno un ingegnoso,
abilissimo criminale che aiuta Guido e gli consiglia il veleno più adatto».
Ma, a
parte il fatto che Ada non vede niente di tutto ciò,
ma solo
l’odio di Zeno verso Guido, da lei per altro condiviso,
per
Lavagetto, come per altri, nel testo sveviano
confessare è mentire e nessuna conseguenza si può trarre
dall’episodio (l’unica confessione di Zeno a cui si presta
fede è
dunque l’affermazione che «una confessione in
iscritto
è sempre menzognera»). Lavagetto anzi porta alle
estreme
conseguenze l’idea, sempre più invalsa negli esegeti
più
recenti, di una disintegrazione del personaggio e
della
realtà stessa nel romanzo, sostenendo «il carattere
fittizio», a fondo «bucato», del testo in cui «i referenti
risultano
azzerati» 6).
Dopo il
lungo equivoco realistico la critica sveviana ha
giustamente rivendicato la soggettiva ambiguità, la polisemia
della
scrittura di Svevo, che non era sfuggita neppure
ai primi
interpreti. Ma ha forse peccato di ipercorrettismo
quando,
supponendo nell’autore una deliberata scelta del
«non
senso» 7), ha cominciato a parlare di una scomparsa
del
personaggio, di uno «sfaldamento della personalità» 8),
di un
soggetto «visto come incerta e provvisoria molteplicità
di nuclei
psichici» 9), di un «personaggio “aperto”,
non
definibile entro un unico carattere, ma capace di accogliere
in sé uno
spettro vastissimo di motivazioni tali da elidersi anche a vicenda» (il corsivo è mio). Così
conclude Barilli 10),
suscitando il sospetto che all’origine del suo giudizio
operi un
condizionamento razionalistico e – direi – aristotelico,
dal quale
non sembrano immuni quegli interpreti di
uno
scrittore che, mentre si mostrano disposti, in teoria, a
prendere
atto del carattere ossimorico specifico del messaggio
poetico-letterario, concludono però che l’ossimoro
comporta
l’azzeramento del senso e perciò il messaggio
del poeta
è che non esiste alcun senso nella realtà. Un
poeta,
per esempio, che dice «odi et amo» ha diritto, in
quanto
poeta, di essere contraddittorio, ma noi lettori dovremmo
concludere che non odia e non ama e nulla di quanto
dice può
essere vero.
Anche di
Svevo si è detto che la contraddittorietà, la
poca
attendibilità del personaggio-filtro sarebbe segno
dell’idea
di una totale inconsistenza del reale.
Questa
idea non è certo estranea alla riflessione di
Svevo, ma
non gli impedisce di aderire dall’interno alla
situazione narrata. Narrata pesando ogni parola proprio
perché
deve dire qualcosa di complesso, di mobile, di
ambiguo,
ma non di inconsistente. E il personaggio,
come
tutti i protagonisti sveviani, è riconoscibile
come
pochi personaggi della letteratura mondiale
e dunque
vuol dire che non è disintegrato. E il suo
discorso
fornisce non solo messaggi ambigui e polivalenti,
ma anche
dati univoci e indiscutibili all’interno del contesto
11). E
questa ricostruzione dell’evento letale mi pare
proprio
un dato certo e quanto mai significativo.
Nella
Coscienza la rilevanza della responsabilità di Zeno
nella
morte di Guido si comprende anche solo in un’interpretazione
letterale
dell’episodio citato, ma si può confermare
in una
lettura integrale attenta all’uso mirato, da
parte
dell’autore, di varie spie disseminate nel testo e di
vari
strumenti specifici del discorso letterario. E a questa
analisi
concederò qualche spazio anche se può sembrare
superfluo
andare in cerca di indizi in un caso di flagranza.
Anzitutto
mi sembra significativo che il discorso sulla
parola,
il metadiscorso che non manca mai negli scritti
sveviani,
nella Coscienza si appunti sul problema del rapporto
tra
parola e azione, termini ora dissociati, ora –
meno
vistosamente – associati. Momento culminante di
questa
vicenda tematica è il passo in cui, in termini eccettuativi
cioè
volutamente marginali – ma non per questo
meno
significativi se conosciamo il vezzo sveviano,
accentuato quando a parlare è Zeno, di dissimulare ed
emarginare l’essenziale –, Zeno accenna alla possibilità di
«parole-azioni», «parole di Jago».
Osservando poi la struttura dell’opera (che non è, come sentiamo
ripetere,
informale e priva di cronologia e di trama)
si nota
che i quattro capitoli centrali, che si
succedono
secondo un ordine, sia pur approssimativamente,
cronologico, iniziando con la morte del padre di Zeno,
culminano
proprio, quasi in un climax, o piuttosto in una parabola,
nella
morte di Guido (evento che, a leggere bene il testo, a posteriori naturalmente, può risultare anche variamente prefigurato e
atteso).
Si può notare anzi, in questa parte centrale del
libro,
una certa ciclicità. Il primo di questi capitoli, sulla
morte del
padre, mostra più di una corrispondenza col
quarto, e
in particolare con la fine del quarto, dove muore
Guido: la
scena notturna, la pioggia, lì una «pioggerella»,
qui anche
una «pioggerella» ma che diventa presto «pioggia
abbondante» e, infine, «diluvio», l’intervento ritardato
del
medico. In effetti l’uccisione di Guido – e qui la psicanalisi
ha voce
in capitolo – è il soddisfacimento per
interposta persona del desiderio di uccidere il padre, il
primo
vero rivale che si incarna ogni volta nei rivali successivi
(secondaria mi sembra la distinzione proposta da
Teresa de
Lauretis tra antagonisti e rivali) 12). Non per
niente
nel capitolo successivo intitolato Psico-analisi, che
conclude
il libro in forma di diario, ricompare con particolare
insistenza il tema del rapporto col padre attraverso
sogni
della cui significanza Zeno, in malafede, cerca di
farci
dubitare per depistarci. E la manovra gli riesce
abbastanza, dal momento che alcuni critici non riconoscono
alcun
nesso tra le immagini evocate e la vicenda
che
precede (non ricordando che anche il depistaggio
iniziale
sul tema della locomotiva era poi stato clamorosamente
vanificato).
Mi
soffermerò anche sul racconto della morte di Guido
per
notare la significativa evasività del narrante. La prima
volta
l’evento è comunicato in posizione secondaria
(almeno
cronologicamente e sintatticamente): «Dapprima
apprendemmo che la pioggia aveva finito col provocare in
varie
parti della città delle inondazioni, poi che Guido era
morto.
Molto più tardi seppi come poté accadere una cosa
simile».
E nel resoconto del «come» e stata rilevata da
Guido
Lucchini, in quanto anomala rispetto alle normali
modalità
del racconto della Coscienza, «l’eclissi
temporanea del dominio [del narratore] sui fatti raccontati».
Potrebbe
essere uno dei rari casi in cui la critica
narratologica fornisce strumenti utili anche per capire meglio
un autore
come Svevo. Il critico però, tutto preso dalla sua
problematica di tipo formale e in definitiva intesa a mettere
etichette, si domanda se questa «eclissi» sia un «sintomo
della
crisi della prospettiva naturalistica del romanzo
oppure un
segno della sua persistenza nel romanzo, malgrado
tutto»
13).
Non sarà
invece che Svevo vuole che il suo personaggio
racconti
prendendo le distanze in modo che si
possa
cogliere la sua volontà di far capire che lui lì non
c’era,
quasi cercando istintivamente un alibi, e forse
anche la
sua volontà di eludere una realtà che, voluta da
una parte
di lui, è per un altro verso angosciosa e perturbante?
Tanto da
metterlo in crisi e fargli perdere «il dominio
sui
fatti»?
Un altro
spunto da interpretare può forse offrire l’analisi
narratologica di Carlo Pacini che nota grandi «ellissi»
nel
racconto di Zeno, il quale limita la narrazione cronologica
e
analitica al tempo che va dalla morte del padre
alla
morte di Guido. Secondo Pacini queste ellissi vorrebbero
istituire
«una dimensione temporale dal tessuto delicato
(gravemente lacunosa e “mista”)» 14). A me sembra,
al
contrario, che esse delimitino un ciclo temporale che
vuole
presentarsi compatto e con un suo preciso e significativo
sviluppo,
in quanto costituisce il campo su cui deve
incentrarsi lo sforzo di interpretare un destino.
I
capitoli cronologicamente e semanticamente dispersivi,
posti
prima e dopo questo corpo centrale, presentano a
loro
volta una corrispondenza tematica per le immagini
infantili
connesse al tema paterno e materno che, balenate
fugacemente nell’ incipit, sembrano farsi più frequenti e
più
chiaramente allusive – benché Zeno non voglia riconoscerlo –
nella
parte finale. Dove assistiamo veramente
allo
sforzo drammatico del protagonista per celare, forse
anche a
se stesso, il suo tremendo segreto, così intollerabile
che ogni
allusione, pur vaga e indiretta, ai suoi sentimenti
ostili
per Guido provoca reazioni parossistiche.
Così Zeno
commenta evocando il momento in cui Ada
gli aveva
rivelato, dimostrandogli al tempo stesso affetto
e stima,
di conoscere il suo odio per Guido. «Enorme che
mi si
potesse dire una cosa simile alterando in tale modo
la
verità. Io protestai, ma essa non mi sentì. Credo di aver
urlato o
almeno ne sentii lo sforzo nella strozza: – Ma è un
errore,
una menzogna, una calunnia. Come fai a credere
una cosa
simile? –». Una situazione da incubo. E anche nel
rapporto
con lo psicanalista ammette che gli «fu anche più
difficile
di sopportare quello ch’egli credette di poter dire
dei suoi
rapporti con Guido». Zeno infatti si difende evitando
«i sogni
ed i ricordi» e dando ormai libero sfogo alle
invenzioni, alle menzogne, come ammette nel diario. E
forse per
questo interrompe la cura, che in ogni caso, di
fronte a
una resistenza così tenace a superare la rimozione,
non
avrebbe potuto mai avere un esito positivo. (Ma
Svevo
nella terapia psicanalitica non crede).
Se Zeno
fosse stato solo distratto non avrebbe dovuto
almeno
rammaricarsi di quella fatale distrazione? Ma
l’ostinato silenzio, anche con se stesso, sul senso di colpa
relativo
alla morte del cognato dimostra che non si trattò
di pura
distrazione. E dimostra anche che Zeno è ben lungi
dall’assolversi in ragione del fatto che, come dice Petroni,
«manca
una morale in base alla quale giudicare». Non c’e
scetticismo o relativismo etico che possa liberare Zeno dal
suo
oscuro rimorso.
Questo
mio pervicace proposito di smascherare Zeno,
di
dichiararlo colpevole di assassinio, non opera contro la
mia idea,
più volte ribadita, di un radicale autobiografismo
della
scrittura di un autore che, a quanto sappiamo,
non ha
mai ammazzato padri né rivali? Ma l’autobiografismo
di Svevo
riguarda nella sua sostanza più l’io interiore
che
quello esteriormente biografico, se pure nell’opera
lo
scrittore ha trasferito tutto un suo bagaglio di reali esperienze
anche
oggettive annotate con scrupolo nel suo scribacchiare
quotidiano, oltre che i tratti essenziali del suo
esistere.
Alla
esatta messa a fuoco di questo problema ha certamente
contribuito la critica psicanalitica che ha il merito
di aver
confermato l’impostazione prepotentemente soggettiva
di tutta
la costruzione letteraria sveviana – in contrasto
con
letture che ne spostavano il baricentro – con
l’attribuire il valore di motore primo a un io che si misura
conflittualmente con l’alterità; e soprattutto ha il merito di
aver
liberato con la sua lettura simbolica il concetto di
autobiografismo, guardato tuttora con diffidenza da alcuni
settori
della critica, dall’idea di pura identificazione con
la
cronaca realistica. L’attenzione alla dimensione onirica
e mentale
permette ad esempio di considerare autobiografico
in
termini simbolici il racconto di un assassinio nel
testo di
un autore che di fatto non ha mai ammazzato
nessuno o
lo strabismo di una moglie che nella realtà ha occhi
perfetti.
Il nostro
autore sul tema dell’assassinio – e in questa
perlustrazione Gioanola ci accompagna per mano – ha
esordito
molto presto, creando il suo primo «inetto» assassino
(i due
termini non sono poi inconciliabili), il protagonista
dell’Assassinio
di via Belpoggio, e il suo interesse
per il
tema del crimine, un interesse non asettico né semplicemente
conoscitivo («io sentivo l’ansia ora del detective
ora
dell’assassino»), è dichiarato in Soggiorno londinese, dove
l’autore parla della sua attenzione alla cronaca
nera
(«materia grezza per la mia cara letteratura»). E
proprio
in quel testo mi sembra degno di considerazione il
ricordo
di un assassino che, condannato a morte, scrive
nobili
parole alla fidanzata. Dalla sua parte si schiera
Svevo
quando dice: «E a me parve un delitto di distruggere
un uomo
che aveva saputo dire così e che poi aveva
emesso
sul proprio conto una condanna ben più aspra».
Svevo
avrebbe proposto una sottoscrizione a suo favore.
Ma il
giudice non era un letterato.
Anche
Mario Samigli in Una burla riuscita, quando
temeva di
essere incriminato dalla censura austriaca, sperava
però che
«dopo letto il romanzo la vita gli sarebbe
stata
risparmiata». Affiora anche qui (se sappiamo cogliere
lo spunto
serio oltre l’occasione ironica del contesto)
l’idea di
un potere salvifico della scrittura, della parola.
Cui già
riconosceva una funzione liberatoria il protagonista
del
giovanile racconto che, dopo il suo delitto, «credeva
che
avrebbe mutato natura il suo terrore se avesse potuto
metterlo
in parole [...]. Si ragionava tanto male con quelle
idee mobili che passavano nella mente senza
lasciarvi
traccia, inafferrabili pochi istanti dopo nate».
Anche
Svevo affida alla parola, alla letteratura, il suo
riscatto,
in questo caso attraverso la confessione di un
delitto
che, per quanto lo riguarda, è veramente un delitto
perpetrato solo nella fantasia, attraverso il suo alter ego immaginario.
Il
racconto è invece visto da Renato Barilli come un
tentativo
di Svevo di «“fingere” situazioni lontane dalle
sue
solite cioè di trovare antidoti all’a priori di “malattia”
e di
incapacità all’azione profondamente radicata in
lui»15).
Lo stesso interesse per «sensazioni inedite» al
fine di
una «letteraturizzazione sistematica del vissuto»
porterebbe, altrove, anche a cercar di «rivivere in prima
persona
empaticamente la morte d’un parente». In realtà
Svevo è
intimamente e personalmente ossessionato dal
pensiero
della propria morte e, probabilmente, anche dal
pensiero
dell’omicidio. Emilio «aveva sognato perfino il
furto,
l’omicidio, lo stupro». Nella variante n. 5 di Corto
viaggio Aghios,
come lo stesso Svevo secondo Soggiorno
londinese, dopo aver
letto, a Londra, la cronaca dell’assassinio di una ragazza avvenuto in treno, «sognava lui
d’essere
l’assassino» e «allora dovette prendere una dose
maggiore
d’assenzio per addormentare il rimorso d’essere
stato
capace, lui che non aveva mai ammazzato neppure
una
bestia, di prendere per il collo una povera giovinetta
per
impedirle di gridare, ferirla e gettarla fuori della vettura
ad
agonizzare nella notte della galleria». Nella stesura
lunga del
racconto l’argomento è escluso anche se «nel
pensiero
solitario non c’era nulla di compromettente».
Comunque
ancor meno compromettente è l’episodio che
compare
in quella stesura, come memoria evocata dal
signor
Aghios, della giovinetta che si era gettata da una
nave su
cui viaggiava – e dormiva tranquillo – il
protagonista, che di quel suo involontario «mancato
soccorso»
si senti poi sempre colpevole (l’episodio appartiene
alla vita
dell’autore).
Dopo
la pubblicazione del libro in cui avevo raccolto
i
risultati della mia indagine, ho naturalmente continuato
a seguire
l’esegesi sveviana. Per accorgermi, purtroppo
in
ritardo, che anche Mario Fusco aveva tenuto
conto
dell’episodio del veronal nel suo fondamentale saggio
di
impostazione psicoanalitica, saggio ignorato dalla
successiva critica di indirizzo formalistico-linguistico ai
limiti
del nichilismo. Ma, anche nel suo caso, il condizionamento
ideologico e metodologico che tendeva a fare di
Zeno il
paziente perfetto, portava a non vedere l’acuta
capacità
di autoanalisi che nella coscienza del protagonista, alter
ego
di Svevo,
convive fin dall’inizio della scrittura
con il
bisogno di falsi alibi e ne costituisce contrassegno
primario.
L’interprete può così alleggerire il peso di
quelle
parole che io identifico con le «parole di Jago»
considerandole inconsapevoli per Zeno fino al momento in
cui Ada
lo costringe a prendere atto del suo odio per
Guido. E
il romanzo, per Fusco – in accordo con la
critica
che continua a considerare Zeno l’unico “inetto”
“vincente” tra i protagonisti di Svevo – si concluderebbe
con una
«sorprendente e positiva presa di contatto con il
reale,
ottenuta grazie alla liberazione dall’ambiente
familiare» (e dunque dal rimorso, come vuole la terapia
psicanalitica canonica), e alla attività commerciale che «lo
arricchisce» 16).
E la
catastrofica fine prevista per l’umanità tutta malata?
Mi sembra
difficile eluderla anche se Lavagetto la considera
non una
profezia ma un topos letterario: «una fine
da
commedia buffa». E poi: era a questo tipo di affermazione,
quella di
un cinico speculatore liberato da ogni sussulto
etico
dalla sua materialistica e deterministica concezione
del
mondo, che il “superuomo dissimulato” Zeno-Svevo
aspirava? O è vero che, come risulta dalle stesse
pagine
finali, considerava «malata» e destinata perciò alla
rovina l’
umanità contemporanea ormai priva anche di
quella
«salute e nobiltà» che, ancora riconoscibile in chi
inventò
gli «ordigni», «quasi sempre manca in chi li usa»
e
soprattutto in quel «possessore del maggior numero di
ordigni»
che avrebbe portato il mondo alla deflagrazione?
Alla
sviata evoluzione della società tecnologica al servizio
della
cupidigia mercantile mostra qui di preferire l’elementare
e in
certo senso eroica “lotta per la vita”.
Ma la
“lotta per la vita” veramente corrispondente ai
suoi
ideali più seri e personali («la mia dolorosa lotta» la
chiama
Zeno-Svevo) mirava non al successo del gretto
utilitarista, nei confronti del quale, dalle prime alle ultime
testimonianze dirette e indirette del suo pensiero, Svevo
ha sempre
dimostrato un intimo distacco ai limiti del
disprezzo
(anche se nella realtà aveva dovuto adattarsi a
un’attività mercantile e a una vita borghese, come ricorda
sempre
Claudio Magris), ma all’affermazione di quei
valori
sentiti come più alti che prendono forma nella scrittura,
in cui
sensibilità estetica, intelligenza e creatività collaborano
per un
alto fine conoscitivo.
Di fatto
però la “lotta” di Zeno nel suo vivere quotidiano
resta
confinata su un piano basso e, prima dell’evento
letale,
si riduce a meschine schermaglie verbali col suo
rivale, o
piuttosto con i suoi rivali, che impegnano
spasmodicamente e degradano l’interiorità del personaggio.
E
l’autore – che certamente si riconosce in queste cadute –
lo
accompagna con la sua ironia, un’ironia sottile e profondamente
allusiva,
ora lieve, ora amara e sofferta, capace
anche di
sospendersi in momenti di serietà addirittura
lirica,
talvolta («a sprazzi e istanti» direbbe lui) per l’apertura
di
misteriosi spiragli di luce in quell’oscuro universo.
Questo
per dire che altro è l’umorismo di Svevo, altro il
ghigno
beffardo, fisso, generico e perciò vuoto che gli è
stato
attribuito in una prospettiva nullificante.
Mi ero
poi compiaciuta di trovare interessanti riscontri
con i
miei centri d’interesse anche nel bel saggio di
Elisabetta Bacchereti che, concentrato sui criteri compositivi
del
romanzo, ha il merito di riconoscere anzitutto che
«un
avventuroso viaggio testuale oltre la dispersività
apparente
ed effusiva della pagina sveviana ripaga
inaspettatamente con la scoperta di particolarissime e
discrete
leggi strutturali», «forze centripete» che garantiscono
«la
globale coerenza del testo», «il senso ultimo della
Coscienza
non tanto
consegnato alla parola del protagonista,
inaffidabile narratore di sé, [...] ma a quella sottilissima
ragnatela
coesiva che Svevo, autore implicito, utilizza
come
sostegno di materiali narrativamente disomogenei»
17).
L’autrice individua dunque quella «struttura assente»
della
Coscienza, a mio parere corrispondente alla verità
che
Svevo-scrittore può concedersi di rivelare nel “porto
franco
dell’arte” e che invece Zeno-Svevo narratore deve
spesso
eludere, pur nel suo autentico bisogno di confessione,
perché
ancora impegnato, come Zeno personaggio, sul
piano del
“vissuto”, ad affermare la superiorità dell’ io
nella
competizione con un antagonista, l’ultimo, il dottor
S. . ( La
lotta che lui stesso ammette di dover sostenere col
dottore
da lui pagato continua nell’intimo di Zeno anche
quando la
terapia è rifiutata, e anche nelle “continuazioni”
del
romanzo il rapporto autore-protagonista narratore non
cambia,
ma ormai il lettore conosce bene Zeno e sa bene
interpretare la narrazione di altri conflitti con altri antagonisti).
La
questione – nodale – non è semplice e meriterebbe
una
particolare attenzione. Anche Elisabetta
Bacchereti è convinta, come me, che l’episodio del veronal
sia degno
di non essere ignorato, ma lo interpreta
come
confessione di uno dei tanti «atti mancati» di Zeno:
«non
ricordare con esattezza la formula innocua del veronal
(al sodio
e non puro)» (qui l’autrice si mostra male
informata
sulle proprietà del sodio, come, del resto lo stesso Lavagetto); «non sospettare
le intenzioni [di Guido] nonostante il precedente tentativo di suicidio». Qui si
concede troppo credito al narratore attenuandone
notevolmente la colpa. Per condannare, al solito,
come
comportamento che «colma la misura» ed è «il
più
rivelatore di tutti», «lo sbaglio di funerale» 18). Per
fortuna
questa volta è avvertita l’ombra persistente che
grava sul
protagonista (l’autrice svolge opportunamente il
tema
sveviano del rapporto luce/ombra, da me trattato nel
mio libro
in riferimento al topos del “soggetto sveviano”
simbolicamente rappresentato sempre «nell’oscurità»).
Ma il
clou drammatico è individuato nel momento
della
partenza di Ada e nell’ineluttabilità del mai più che
rinnova
il tragico mai più legato alla morte del padre (cioè
la
definitiva impossibilità di provare, sia pure con giustificazioni
sofistiche e improbabili, la propria innocenza).
Non
mancherebbe, anche nella prospettiva di questa interprete,
una certa
positività nel presunto «scioglimento»
finale
con la «“convinzione” della propria “grande salute”» .
«La
convinzione della salute sospinge al “movimento”
vitale,
riaccende il desiderio, allontana l’inerzia e la
stasi, e
Zeno vorrebbe rivisitare il passato per reinterpretarlo
alla luce
del nuovo presente» 19), operazione che, a
mio
parere, non poteva essere che mistificatoria. Mi pare
interessante che il tema dell’omicidio, piuttosto sfumato e
addirittura eluso dall’autrice in riferimento a Zeno, definito
«“piccolo
delinquente” e assassino mancato» 20), sia
ampiamente trattato nel capitolo finale anche in riferimento
ad altri
grandi narratori. Ribadisco a questo punto la
mia
convinzione che l’impossibilità per Zeno di confessare
la sua
colpa getti la sua ombra – più o meno evidentemente
– al di
là di qualche respiro contemplativo e della
dominante
intonazione ironica, su tutto l’ultimo capitolo e
ne
prepari la conclusione apocalittica. Su se stesso Zeno
ha
sperimentato la sconfitta dell’esigenza etica alla quale
nell’intimo non può rinunciare se non vuol ridurre a un
livello
basso il modello superomistico che persegue (come
il “buon
vecchio” della novella, che voleva essere «l’alto,
il puro
teorista nettato dalla sua sincerità da ogni malizia»).
Neppure
la visione darwiniana della realtà, che
implicitamente non riconosce la possibilità per l’uomo di
scelte
responsabili, basta a eliminare quel rimorso di cui
fin
dall’inizio della confessione è simbolo concreto e
pregnante
l’impressione di soffocamento, a cominciare
dalla
famosa locomotiva (la Bacchereti lo sottolinea
opportunamente) fino alla profezia finale: «Chi ci guarirà
dalla
mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci
soffoco».
Anche il
lettore più diffidente non può non cogliere nel
narrante
i segni di una sensibilità morale, seppure connessa
al
bisogno di sentirsi innocente e nobile, più che a una
apertura
caritativa al bene dell’altro da sé («Io avevo già
adorato
la speranza di poter rivivere un giorno d’ innocenza
e
d’ingenuità»). Non è insincero il rimorso che Zeno
dice di
provare quando, nella passeggiata che lo porta a
varcare
il fronte di una guerra appena scoppiata, ricorda di
aver dato
notizie rassicuranti alle persone incontrate. «Poi
mi
pesarono sulla coscienza. Nell’orrendo temporale che
scoppiò,
probabilmente tutte le persone che incontrai perirono. Chissà
quale sorpresa ci sarà stata sulla loro faccia
cristallizzata dalla morte»
(il mio corsivo vuol sottolineare
la forte
valenza allusiva che, per me, ha un sorprendente
riscontro
con «la grande stupefazione di essere morto
senza
averlo voluto» che Zeno legge nel volto di Guido
morto: «Sulla
sua faccia bruna e bella era impronto [sic] un
rimprovero. Certamente non diretto a me». Se si fosse
trattato
anche in quel caso di un semplice «atto mancato»,
di una
involontaria omissione, Zeno non avrebbe dovuto
ammettere
l’ineludibile rimorso? Ma la colpa era ben più
grave.
Per questo Zeno accennerà al veronal solo quando
verrà a
sapere che Guido aveva usato il veronal puro.
«Come
nessun altro potevo ora essere certo che Guido non
aveva
voluto morire. Non lo dissi però mai a nessuno».
Seguirà
una totale censura.
Non mi
meraviglia che sia saltato a piè pari l’episodio
del
veronal sia nell’ampio e circostanziato commento che
Fabio
Vittorini ha dedicato nel volume mondadoriano alla
Coscienza diZeno
in
rigorosa fedeltà ai principi del curatore
Lavagetto, sia nel saggio Svevo: guida alla Coscienza
di Zeno
dove, pur facendosi portavoce di Lavagetto nelle
sue
argomentazioni per dimostrare la totale inattendibilità
del
testo, dà prova di sicurezza d’interprete cimentandosi
in
frequenti univoci riassunti di trame e ritratti di personaggi.
Può
affermare addirittura, senza ombra di dubbio,
suggellando il ritratto di Guido, che, «quando la sua posizione
è quella
del vinto [...] l’ostilità rabbiosa [di Zeno]
che aveva
accompagnato Guido nella prima occasione
si
converte in comprensione e pena»! 21). È anche
sicuro
che ci sia stato uno scambio di funerale.
Potrei,
secondo l’uso attuale della critica letteraria italiana
(forse
meno vigente nell’ambito della ricerca filologica
classica
o anche filosofica o scientifica), scantonare e
limitarmi
a seguire la mia strada ignorando le tesi contrarie,
ma sento
il bisogno di confrontarmi direttamente e
puntualmente cercando argomenti per riconquistare, dopo
tanti
autorevoli attacchi, il diritto di leggere ancora La
Coscienza con la
speranza di ricavarne una sorta di conoscenza
e di
continuare a parlare del letale veronal.
Affronterò dunque i singoli argomenti di Lavagetto, riproposti
da
Vittorini dopo una premessa che pareva di senso
contrario
in quanto chiamava in causa Lukàcs, Benjamin,
Calvino,
Sklovskij per convalidare con la loro autorità
l’intento
di Svevo, più volte ribadito, di opporsi con la
memoria e
con la scrittura alla morte nullificante. (E di
fissare
nella pagina – aggiungo io – la sua più profonda e
segreta,
anche se sfuggente, verità interiore). Si riporta
anche un
passo del Diario (5 giugno 1927) in cui Svevo
sostiene
che «chi legge un romanzo deve avere il senso di
sentirsi
raccontare una cosa veramente avvenuta. Ma chi
lo scrive
maggiormente deve crederci anche se sa che non
in realtà
mai si svolse così» (sic). Ci è difficile dopo queste
premesse
accogliere con lo stesso entusiasmo di
Vittorini
l’idea di uno Svevo tutto intento a rendere incredibile
il suo
romanzo.
Come
proverebbero, a parere di Lavagetto e suo, queste
incongruenze, tra altre che non prendo in considerazione:
1)Le
frequenti «anacronie», cioè contraddizioni nel
riferire
date. Dico subito che questi lapsus immotivati si
distinguono dalle bugie di Zeno narrante che sono quasi
sempre
spiegabili con l’intento di autogiustificazione e di
autoaffermazione e, nell’impianto del romanzo, come ho
già
detto, sembrano consistere in reticenze – anche gravissime
–, in
elusioni con spostamento del discorso, o in tendenziose
e false
interpretazioni della verità interiore, più
che
nell’alterazione di eventi esterni. Una di queste
«anacronie», evidenziata da Vittorini, sarebbe riscontrabile tra
la data
della morte del padre e quella, di poco posteriore,
della
pubblicazione di un «volume di filosofia positiva
dell’Ostwald» su cui Zeno dice di aver segnato quella data
(15.4.1890). Mi domando anzitutto perché l’autore, per
togliere
credibilità al testo, sarebbe ricorso a una svista
rilevabile solo da uno specialista della materia . Non
potrebbe
essersi intrufolato nel racconto un episodio della
vita di
Svevo il cui padre morì nel 1892? Ma non è il caso
di
dedicare troppo tempo a questa e ad altre «anacronie»
di uno
scrittore che nella vita stessa – come ricordano gli
stessi
studiosi – non era sempre rigoroso e coerente nel
citare
date.
2) Un
«lapsus rovinoso» sarebbe un presente verbale
usato da
Zeno ricordando Guido ormai morto. «Ora che lo
conosco
meglio so che egli si lancia in un discorrere
abbondante in qualsiasi direzione quando si crede [corsivi miei] sicuro
di
piacere al suo interlocutore»: quel presente sarebbe una
involontaria ammissione che Guido era ancora vivo. E «se Guido
non è morto»,
dovrebbe domandarsi il lettore giustamente
«incredulo», «tutto può essere inventato. Forse Ada
non ha mai avuto il morbo di Basedow; forse Guido non
l’ha mai chiesta in moglie; forse non è mai esistita; forse
non sono mai esistite le sorelle Malfenti [...]; forse è Svevo
che si è inventato ogni cosa a partire da Zeno
Cosini, dalla sua voce e dal suo inconscio. Una storia vera è
così trasformata in una storia falsa» (Saggio
introduttivo
p. LXIX.
Il corsivo è mio).
Ma, a
guardar bene, anche il lettore più scaltrito e diffidente
non
avrebbe la possibilità di scoprire questa «anacronia»
perché
chi legge per la prima volta il capitolo quinto, dove
incontra
il passo, non sa ancora che Guido
morirà e
così la presunta intenzione di smascheramento da
parte
dell’autore si affiderebbe a una trovata del tutto inefficiente.
Superfluo, a questo punto ipotizzare che quel presente
potrebbe
rivelare che nella coscienza di Zeno Guido è
sempre
presente come l’ombra di Banco (come non pensare
a quel
frammento, già citato in nota, in cui Svevo
dice:
«Mio padre mi accompagna sempre. Sorrido di
lui»?). Si può notare, in
margine, che qui i caratteri attribuiti
a Guido
potrebbero far pensare a una sorta di proiezione .
3) C’è
per me solo una strana incongruenza difficilmente
spiegabile (anche se qualcuno ha cercato di motivarla).
Si tratta
della scoperta da parte del dottor S. che
«un
grandioso deposito di legnami [...] era appartenuto
alla
ditta Guido Speier & C.». Perché Zeno non ne aveva
parlato?
Bisogna ammettere che in questo caso le risposte
di Zeno
sono, più o meno spiritosi, depistaggi (in questo
contesto
anche la scusa che «una confessione fatta da lui in
italiano non poteva essere né completa né sincera», formula
che gli
interpreti prendono molto sul serio, mi sembra
poco più
che una battuta, se intesa alla lettera). L’enigma resta e per onestà
non mi
sento di accantonarlo. Non posso però, se torno
alle
impressioni di fondo accumulate nella mia lunga
frequentazione dell’inconfondibile Soggetto sveviano, non
concludere che non basta questa isolata aporia a farmi rinnegare
l’inesauribile apporto di conoscenza, di verità,
tanto più
ricca e profonda quanto più mobile, complessa,
ambigua,
che ne ho ricavato e ne ricavo tuttora. Momenti
di
intensa e poetica rivelazione sono per me, ad esempio,
quei
sogni “edipici” che aprono e chiudono il libro e che,
per
Lavagetto e compagni, non sono altro che un’irridente
parodia
che Zeno, sulla base di una certa informazione
psicanalitica, propinerebbe al suo ingenuo analista facendosi
strumento
di una acre derisione dell’autore stesso nei
confronti
della psicanalisi. A me pare invece che, con il
suo
racconto, Zeno non faccia altro che offrire argomenti
convincenti per diagnosticare un complesso di Edipo, che
alla
fine, interrompendo la cura, si rifiuta di ammettere (a
mio
parere solo in quanto gravemente compromettente).
Ed è
pensabile che Svevo, come racconta, abbia studiato a
fondo i
testi di Freud e abbia sperimentato una autoanalisi
prima di
scrivere il romanzo solo per prendere in giro
questo
metodo e non per tentare una via nuova per quella
penetrazione psicologica anzitutto dell’io che è per lui la
prima
spinta per la scrittura? «Scrivo per capirmi», diceva.
E nei
confronti della psicanalisi ha sempre detto che
non
contestava la pretesa conoscitiva ma quella terapeutica
tanto più
rovinosa quanto più capace di scavare in profondità
(un suo
parente ne era uscito a pezzi). Aveva tutte
le
ragioni di diffidare nell’applicazione del metodo
specialmente se affidata a dottori di vista corta come il povero
dottor S.
. Ma, se ha presentato sempre uno stesso soggetto
caratterizzato da un’aspirazione superomistica che si
esprime
in continui conflitti con antagonisti, è molto probabile
che anche
per lui, come spesso capita, il primo conflitto
della sua
vita sia stato quello col padre e che la teoria
freudiana
gli abbia permesso di dargli un nome.
Naturalmente l’ampio orizzonte in cui cerca di condurre
l’autoanalisi non poteva appagarsi di schemi riduttivi e
poco
individualizzanti, ma ciò non significa che il suo
romanzo
non abbia cercato anche attraverso Freud una
verità da
esplorare.
Note
1) I
giudizi di Lavagetto sono tratti dal saggio introduttivo, Il
romanzo oltre la fine del mondo,
del volume Svevo. Romanzi
e«Continuazioni»,
Milano, Mondadori, 2004. A p. LXVII leggiamo: «Il
commento
non ci viene fornito e chiunque cadesse in trappola, e si
assumesse
il compito di distinguere tra verità e bugie non potrebbe che
assecondare il disegno di Svevo diventando un ulteriore oggetto della
sua
parodia».
2)
Edoardo Saccone, Commento a «Zeno», Bologna, il Mulino,
1973, p.
80.
3) Franco
Petroni, L’inconscio e le strutture formali, Padova,
Liviana,
1979, pp. 77 e 75.
4) Elio
Gioanola, Un killer dolcissimo, Genova, Il Melangolo,
1979, p.
351. A questo studioso si deve, a mio parere, la più penetrante
ed estesa
indagine degli abissi psichici del nostro «scrittore sottomarino» (come si
definì Svevo stesso), indagine condotta con l’apprezzabile
consapevolezza che «l’avanzarsi nel sottosuolo non esclude la
vista
dell’altezza» e anzi ne va cercando i presupposti. La portata
esplosiva
dell’episodio del veronal è però, nella prospettiva del critico,
molto
attenuata: «Zeno ascolta le disquisizioni di Guido sul veronal
con o
senza sodio senza mettere in guardia se stesso e gli altri sulla possibilità di
un altro gesto inconsulto». In realtà è Zeno a disquisire.
Anche
Teresa de Lauretis (La sintassi del desiderio. Strutture e forme del
romanzo sveviano, Ravenna,
Longo, 1976, p. 106), dopo aver
accennato
all’impulso iniziale di Zeno di uccidere Guido, si sofferma
solo su
Zeno che «specula e fa un sacco di soldi dal fallimento di Guido
e proprio
durante il suo funerale». E Maryse Jeuland Meynaud (Zeno e i suoi
fratelli. Strutture e forme del romanzo sveviano, Bologna, Pàtron,
1985, pp.
161-162) accusa Zeno, ma poi parla di «omicidio colposo» o
di
«mancato soccorso» e non individua l’intervento attivo. Inoltre non
vede la
rimozione successiva di Zeno, ma attribuisce il suo silenzio su
quella
colpa al pregiudizio borghese che gli farebbe sentire più grave il
suo
adulterio che non la parte avuta nella morte del cognato.
5) Guido
Guglielmi, Letteratura come sistema e come funzione, Torino,
Einaudi, 1967, p. 106; dove si legge che «l’affetto di Zeno per
Guido non
gli impedisce di mancare al suo funerale e di sbagliare convoglio funebre». Si
trascura il fatto, un po’ più grave, che non gli ha
impedito
di ucciderlo.
6) Mario
Lavagetto, L’impiegato Schmitz e altri saggi su Svevo, cit., pp.
105 e 106.
7) Franco
Petroni, cit., p. 90.
8) Guido
Guglielmi, cit., p. 332.
9)
Claudio Magris, L’anello di Clarisse. Grande stile e nichilismo nella
letteratura moderna, Torino,
Einaudi, 1984, p. 208.
10)
Renato Barilli, cit., p. 11 (nell’Introduzione del saggio,
peraltro
ricco di
interessanti proposte interpretative).
11) Anzi
si può dire che le mistificazioni di Zeno non siano vere
e proprie
menzogne sui fatti, ma piuttosto reticenze e omissioni di
dati o
interpretazioni false delle motivazioni interiori (solo cosi Zeno
può un
po’ mentire anche con se stesso).
12)
«Nulla in tutta la vicenda del protagonista della Coscienza avviene
che non sia in nomine patris», ricorda Gioanola. E cita uno dei
frammenti
sveviani: «Mio padre m’accompagna sempre. Sorrido di
lui».
13) Guido
Lucchini, I piani del racconto nella «Coscienza di Zeno»,
in
«Otto-Novecento», nn. 3-4, 1982, p. 85; dove si sostiene
anche che
«Guido si informa sugli effetti del veronal senza essere compreso da Zeno».
14) Carlo
Pacini, «Ellissi» e «tempo misto». Il lavoro di Zeno sul tempo,
in
«Italianistica», XIII, 3, sett.-dic. 1984, p. 372.
15)
Renato Barilli, cit., p. 53.
16) Mario
Fusco, Italo Svevo. Conscience et realité, Paris,
Gallimard, 1974, che qui cito dalla parziale traduzione (Catania,
Sellerio,
1984), p. 129.
17)
Elisabetta Bacchereti, Le formiche e le rane. Strategie della
scrittura sveviana,
Firenze, le Lettere, 1995, pp. 108-109.
18) Ivi,
p. 128.
19) Ivi,
p. 136.
20) Ivi,
p. 162
21) Fabio
Vittorini, Svevo:guida alla Coscienza di Zeno, Roma,
Carocci,
2003, p. 83.
Nota del settembre 2012
Ho
appena appreso su Google che la mia interpretazione della Coscienza di Zeno
è stata accolta per la prima volta, in quasi tutti i suoi dettagli e nelle
sue conseguenze globali, da Elisa Martinez Garrido in una conferenza tenuta a
Oxford nel dicembre 2011 (in internet col
titolo Della vendetta, della gelosia, della menzogna e del veleno tragico. La
traccia di Shakespeare ne La coscienza di Zeno).
Nota del novembre 2015
La
signora Martinez Garrido, nonostante la mia gentile e ironica protesta ha
pubblicato in internet una nuova stesura del plagio