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SimmetrieSimmetrie, un titolo che promette un dono di classica misura. Se conosciamo un po’l’autore prevediamo però che non si accontenterà di assecondare la sua natura portata all’armonia e alla musica, non si appagherà di un facile neoclassicismo, ma tenterà un percorso difficile, l’impegnativa conquista di una poesia che, per tendere alla conoscenza, deve cimentarsi con l’inesprimibile e con la dismisura - che non dovrà cercare fuori di sé - per trovare “altre misure”. E anche noi con lui dovremo discendere nell’abisso prima di riemergere alla luce. La ricerca poetica è in fondo sempre un percorso iniziatico e la discesa agli inferi che il poeta affronta qui si compie subito nello straordinario poemetto che apre il libro: La stanza. La stanza è il corpo. Calarsi con il poeta in quella stanza significa scoprire, con un’angoscia claustrofobica, che tutta la vita si svolge in quella stanza senza uscita, dove non esistono le cose ma i moti ininterrotti e mutevoli, monotoni e frenetici di quella che oso ancora chiamare “anima”.
Devo confessare che nella mia rapida sintesi sento come poche volte il disagio della sostituzione di mie “fruste” e univoche parole alle illuminate invenzioni di un discorso poetico che a una materia traboccante e prossima al caos – anche se insidiata dal nulla – sa conferire ordine e fluidità. Ho qui toccato quasi involontariamente un punto nodale. Se un’uscita è possibile, o almeno tentata, è affidata appunto alla parola. “Una stanza, la voce, | nella gola, nel petto, | anche nelle vene, nel ventre. | Un rivolo, un’onda, una plaga | dove bastarsi, un’ eco, | un segnale, un richiamo”. “Un labirinto il mondo | la voce conduce all’uscita. | Uno strumento | un’essenza”. “Il nominare chiama. Il chiamare avvicina ciò che chiama” diceva Heidegger associando, al tempo stesso, vicinanza e lontananza, come Karl Krauss in una epigrafe del libro. E la parola poetica compie il miracolo di aprire la gabbia per chiamare con i nomi le cose che in questa dimensione vorrebbero essere non fantasmi ma essenze. Quei nomi che all’inizio si affacciavano quasi solo tra parentesi, in quanto appartenenti all’illusoria riserva della memoria, ora convocano un universo di immagini concrete per fermarle e farle durare. Il poeta moderno sente per lo più la sua voce come “vox clamans in deserto”, ma proprio per questa desolata visione del mondo riconosce spesso alla parola poetica un insostituibile potere salvifico, e sente, come non mai, il bisogno di dirlo, di ripeterlo, sia pure alternando certezza e sfiducia. Se qualche speranza c’è di popolare quel deserto si può cercare solo nella poesia. In questa situazione lo stesso poeta minimalista, anche se non vorrebbe mai riconoscerlo, spesso svela un animus romantico. Ma il nostro poeta per fortuna è tutt’altro che minimalista e in lui “Orfeo dal fondo del pozzo | intona un canto”. D’ora in poi, dopo queste alte e sofferte premesse, ormai segnato dall’esperienza dell’abisso e del vuoto, può concedere alla sua voce di accogliere nella “stanza” il mondo esterno e a quel punto le cose, tutte le cose del mondo, fanno ressa per entrare. A cominciare dai Quadri cittadini. Una libertà conquistata si avverte subito in un’ apertura all’alterità che nasce dal sentire che anche una massa che si accalca e preme è fatta di individui, che ognuno è una “stanza” dove si compie il vano avvicendarsi degli umori propri della condizione umana . Al tempo stesso all’individuo poeta non piace vedere l’umanità ridotta a una massa che evidenzia la costitutiva animalità. Un inferno si rivelano infatti gli affollati meandri sotterranei della metropolitana; di lì una smania di tornare alla luce. Ma “chi va tra le ombre| alle ombre risale”. Non c’è uscita dall’assillante coscienza della precarietà. Le immagini e le voci della vita, quelle più gentili e umane, appena ritrovate si rivelano “non più che istanti | di un’apparenza che fugge”. E il compianto – non patetico ma sgomento – dell’attimo fuggente percorre tutta la raccolta, insinua il suo veleno anche, e forse più che mai, nei momenti di ebbrezza. Perché anche quei momenti non sono di oblio ma di sintesi insieme felice e disperata. E, in fondo, l’introduzione nel libro di due sole traduzioni (Imitazioni come per il, certamente amato, Leopardi) sembra motivata da una particolare condivisione di questo “compianto” (questa parola nelle mie intenzioni vuole nobilitarsi in riferimento all’accezione letteraria). “Mio amore, dove stanno, dove vanno, | lo scatto della mano, il guizzo della corsa, lo scricchiolio delle zolle | chiedo senza tristezza, solo pensando” scrive Czeslaw Milosz. Gli fa eco Elio: “Il vento nel deserto cancella la pista. | La barca non lascia tracce sull’acqua”. Eppure “In ogni spigolo o lembo, | dietro le viscere e il cuore, |s’aprono spazi imprevisti | e ancora abissi e cunicoli”. Siamo sempre nella “stanza” ma la “stanza è un universo. E l’io, prevalentemente impegnato nel dialogo con se stesso, sa anche volgere lo sguardo intorno a sé in una collana di brevi racconti con protagonisti diversi. “Eventi da poco. Notizie prossime come cartoline di saluti, alcune telefonate frettolose, Spettacolini per gli intimi, giostre casalinghe”. Nella costante coscienza che queste storie “minime” si consumano su un “pianeta [che] ruzzola e ruota” in un immane dramma cosmico. Perché il poeta per raccontare queste storie scende sulla pianura della prosa? Forse per confrontarsi con quella che sembra la banalità quotidiana nell’intento di “trovare l’uomo”, isolando l’individuo dalla massa e spiandolo nelle sue personali “farneticazioni”. Occorre un “occhio corto” (è questo il titolo della sezione) per questo genere di indagine, che presuppone in certo senso un atto di umiltà se è vero che nella sostanziale insensatezza di quelle piccole storie, diverse una dall’altra, l’autore legge l’insensatezza della sua esistenza e degli stati d’animo che si alternano o coesistono: passione, indifferenza, solitudine, paura, desiderio di assolutezza o di piccole immediate mete, in un mondo regolato da leggi misteriose e inesorabili che fanno però talvolta intravedere arcane trame e coincidenze. Il poeta si sta avviando a un proposito di stoica accettazione del comune destino di imperfezione e di caducità. Non siamo sicuri che lo manterrà anche se l’ultima sezione ha in epigrafe il consiglio di Michelstaedter di “non chiedere ciò che non può essere dato”. Anche nei brevi racconti-ritratto, che chiamerei “medaglioni” se il termine non suonasse troppo classico, il tono asciutto da pura cronaca non esclude un sicuro controllo ritmico - come non nasconde la pietas dell’autore -. La musica è naturale dono e insieme consolazione per il nostro poeta, come dovrebbe essere per tutti i poeti. Ma a me capita, di fronte al rigoroso controllo di queste prose, di rimpiangere un po’ le suggestive cadenze, spesso triadiche, o ternarie, del fluire poetico. Accolgo così con gioia la conclusione del libro che ripropone una parte del precedente testo poetico di cui avevo già avuto occasione di occuparmi: Per altre misure. Il recupero è felicissimo perché completa con grande coerenza il percorso e la struttura del libro. Un altra storia che l’autore stesso definisce “minima” mette in scena due “innamorati” in un difficile rapporto dialogico: un contrasto da cui emergono al tempo stesso una differenza difficile da conciliare e una fraternità esistenziale di creature che cercano affannosamente rimedi, per lo più momentanei o illusori al disagio del vivere. L’autore, che entra nel gioco come “Testimone”, appare nel contesto del nuovo libro ancor più coinvolto nella storia. Ricordo un componimento di questa raccolta in cui un io diviso, evocato in terza persona, vive in forma dialogica un conflitto con se stesso da cui esce “stremato”, e mi concedo il sospetto che il dialogo-conflitto di questa storia minima ed esemplare possa estendersi a significare anche la stessa divisione dell’io: non a caso forse il sema dello specchio si affaccia ambiguamente nell’ultimo titolo: (Volata a specchio finale)”. Sentiamo in ogni caso che sempre più, dopo essersi aperto al mondo, il poeta tende a ritrovare, in se stesso, il suo mondo più personale. Nello sfondo di un giardino, quasi emblema, stigma, riappare l’icona del poeta. Ed è lui a dare respiro e canto, in una prosa questa volta scopertamente e felicemente poetica, a una testimonianza di sé e della umana esistenza che è insieme glorificazione della poesia. Il libero effondersi della parola nella pagina si avverte qui come una sorta di apertura di orizzonti, di vera uscita dalla “stanza”-“gabbia”. Una consolazione che porta in alto, che ha in sé una indiscutibile nobiltà” anche se quell’“allegria” che tanto evoca l’ “allegria” ungarettiana, “sempre riaffiora” “nell’orrore del vuoto”. Nei momenti di grazia spesso giunge all’orecchio un –reale e simbolico- suono di violino o di altro strumento. Qui “dal pianoforte, leva simmetrie, muove estasi: Nella finestra il sole del mattino, lontani gli alberi, le case. Il capo lievemente chino. Assorta non ai suoni suscitati dalle dita, ma al suono, inudibile, da cui scaturiscono quei suoni”. Si è accesa una luce, che lascia tuttavia una suggestiva zona d’ombra anche sui due diversi titoli e sulla loro affinità. |
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