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Trittico.
Omaggio a Franz Schubert, Clara Wieck Schumann, Pyotr Ilyich Čajkovski
Libro prezioso, elegante, fine, suggestivo, da collezione, per copertina,
impaginazione, risvolti, quarta…, che, con il suo prodromico ammicco, ci
prepara ad una avventura di fattive intonazioni, di impatti poetico-sonori
che tanto dice dello spirito romantico di compositori e poeti, pittori e
romanzieri, amanti e traditi, illusi e delusi, in fuga, alla Chatterton,
verso mondi inesistenti, verso mete mai appaganti, di un periodo in cui
l’uomo è vissuto come cellula vagante, come instabile navigatore, come
surrogato di tormento e inquietudine, saudade e melanconia; come emblema di
azzardi verso un oltre che va incontro ad una fragilità spersa nelle maglie
di un irraggiungibile infinito.
Sta qui la perspicace rielaborazione di
un’Artista che fa di una lettura classico-musicale un melologo; un mix
interessante e agguantante fra parola e sentimento; fra sentimento e dolci
illusioni: amorosi sensi che si provano ascoltando brani umanamente suasivi
e vibranti come quelli del Trittico che Mariagrazia si accinge a farci
ascoltare e più che altro a farci vivere tramite le vite convulse dei tre
compositori presi in esame: Schubert, Schumann, Čajkovskij.
La Scrittrice ha
fatto suo questo patrimonio culturale e artistico attraverso ascolti e
meditazioni, riflessioni e pensamenti, emozioni e vertigini d’altitudine; si
è impossessata di tale patrimonio, ne ha fatto memoria, immagine, per
tradurre il tutto in corpi verbali tesi all’abbraccio di tanta materia.
È
così che nasce l’atto creativo: non è sufficiente la scussa realtà né tanto
meno l’innocua trascrizione; è estremamente necessario che gli atti immaginifico-figurativi covino dentro un’anima disposta a macerarli, a
intingerli della propria substantia, per trasferirli, polposi, ex abundantia
cordis, alla pagina bianca. Quello che avviene in questa opera, plurale e
polimorfica, condotta e guidata da un’azione creativa audace e spontanea.
Non è da tutti affrontare un decorso complesso e pluridisciplinare come
questo.
E Mariagrazia lo fa con piglio autorevole, senza mai cadere in
epigonismi o melanconiche deviazioni, o pleonastici stilemi, mantenendo il
flusso in un letto dagli argini robusti; consegnando il tutto ad una
versificazione nutrita di sangue e di ossigeno, dove la varietà metrica, di
misure ampie (settenari, endecasillabi…) ed altre rattenute (binari,
ternari…), dà segno vivo di uno spartito in pieno movimento: Winterreise,
Pianoforte, Viandante, Città, Feste, Canto Padre, Madre, Donna, Incompiuta,
Morte, Winterreise: tante suggestioni schubertiane che segnano momenti
emozionali, vicini al sentire della stessa Poetessa, tanto sono vivi: “Sarà
l’appannarsi della stagione/ pronta a concedersi all’autunno/ sarà il
silenzio dell’usignolo/ in questo giorno stanco/…./ la nostra anima?”, dove
l’impiego di rifermenti panici dà sostanza e concretezza ad un lirismo di
ampio respiro.
Altrettanto trascinante l’inquietudine erotica, altamente
simbolica oltre il senso, della Schumann: voce fuori campo, Clara…
“Sì, volle morire, Robert/…./ Per essere insieme nella Luce”, in un trionfo
di invenzioni scaturite dalla immaginazione produttiva della Carraroli; da
una peripezia analitico-psicologica sul tempo e la vita; su la vita e i
dolori; sui dolori e l’amore: “E la fatica?” “L’abbiamo portata sulle
spalle/ nei giorni/…/ dei disagi nei dolori./ Sulle spalle c’è la vita/ ma
la vita senza amore/ perde vita/ e amara pesa /senza amore la fatica…”.
Per
finire con un poemetto su un altro grande della letteratura musicale di ogni
tempo, Čajkovskij, in cui si attua un impossibile equilibrio; un insanabile
conflitto (vissuto dall’artista) fra Pietro, forza e stabilità, e Elia,
fuoco, mobile irrequietezza: L’uomo, Steppa, L’amore, Fiumi, La maschera,
Taigà, La morte, Tundra, Lettera e a me stesso: “Alla fine/ solo resta
il cuore/ in desolata privazione/ d’orizzonte”.
La poesia della Carraroli va snella, con misure apodittiche, e slanci
verbali di rara fattura; va con eufonica andatura affidata aduna semplicità
maturata nel tempo. Il suo scopo è quello di tradurre l’amore, e il senso
della vita in oggettivazioni verbali di corposa visività. Tutto è demandato
ad un animo sensibile, cólto, musicalmente affascinato e attratto da
sinfonie e melodie che vibrano nelle iuncturae significanti di una scrittura
adusa al Bello; ad una ricerca insaziabile di voci che risuonano e chiamano
sulla strada del canto; di voci che parlano la lingua dell’Autrice, la sua
vocazione all’umano e all’ultra in cui Ella si ritrova, scoprendo la natura
della sua plurale vicenda.
Tanti i motivi ispirativi; tante le
contrapposizioni esistenziali, i polemos dei contrari, il pascaliano sfronto
fra rien e tout a significare la complessità del testo: luce ed ombra,
giorno e notte, sogno e realtà, realtà e mistero, thanatos e eros, vita e
morte: input emotivo-vicissitudinali che nella loro simbiotica fusione danno
luogo ad una storia dal sapore romantico. Mi trovo ad ammirare quadri
delacroisiani, a leggerne lo spirito vago e brumoso in cerca di libertà
impossibili. Mi trovo ad ammirare mari invernali spersi in orizzonti di
nebbie e marosi che tanto dicono di una navigazione in cerca di un faro per
l’approdo. Ma qui gli approdi sono improbabili; un nostos di perigli e
trabucchi che rendono difficile e complicata la traversata. D’altronde
l’uomo romantico si azzarda in mari di infinite misure; aspira al tutto pur
cosciente della precarietà della vita; pur cosciente di non poter gioire
della luminosità di un’isola tanto distante dalle sue intenzioni: si
abbandona ad amori impossibili, ad abbracci consolatori, ad affondi
passionali che trovano la loro alcova fra le braccia della morte.
Tutto
questo nel “POEMA” della Nostra; in una energica quanto mai fluente andatura
che avvince e convince. E d’altronde non è per niente azzardato leggere
nella sua rievocazione poetico-musicale quel malum viatae che ha intaccato
le vertigini esistenziali dell’uomo contemporaneo: da Baudelaire fino ai
nostri giorni. La stessa visione lirico-pucciniana dell’amore è molto vicina
a “l’ossimoro dell’esistenza, tra abissi e vette, inferno e cielo, dolore e
amore…” del Winterreise schubertiano, con le dovute distanze
tecnico-strutturali e contenutistiche. Sembra che sia la morte a stagliarsi,
scheletrita e oscura, sugli orizzonti della vita, come idea tanatica del
nulla, anche se, al fin fine, è il sentimento dell’amore a rendere la vita
stessa unica, immortale nella sua sacralità: “La musica è amore in cerca di
una parola”. (Sidney Lanier, nella prefazione di Giuseppe Baldassarre)
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Recensione |
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