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L’itinerario poetico di Eugenio Nastasi è un viaggio “senza percorsi” perché, come egli dichiara espressamente nella nota introduttiva, è un “vagare con la mente”, di cui ha “contezza”, cioè una conoscenza chiara e certa, essendogli familiare l’u-topica terra del canto verso cui egli si volge non solo intenzionalmente, ma anche istintivamente con tutti i sensi, “aprendo qua e là finestre nella forra della (…) inquietudine”, celebrando tutto ciò che appartiene alla sfera dell’essere, “lasciando parlare la materia, le scorie, la polvere dei pensieri” ( “Chiave di volta”).

Il suo andare, se, da un lato, è un abbandonarsi con fiducia ai sentimenti e alle percezioni sensoriali, dall’altro lato, è “un andare sempre altrove”, senza mai giungere a una meta; perché il canto non ha sbocchi finché l’anima resta desolata in un mondo di croci, di sguardi spenti; finché gli uomini, come “sbrecciati plinti”, restano refrattari alla leggerezza, immobili e insensibili, incapaci di trovare una nuova via da percorrere, d’inventarsi un mondo diverso, una vita nuova. Così, la bellezza dei versi, l’armonioso intreccio dei sentimenti e delle percezioni non riesce a comunicare e a rispecchiare la totalità dell’essere, che resta imprigionato nella monade del Canto. La Poesia, che pure è sentiero di luce e principio di armonia e che se-duce e orienta il cammino, si rivela “innumerabile fermento” restando ineffabile voce che si ripiega su sé stessa lambendo appena i canti con le “voci di dentro”, versando di sé solo un’impercettibile eco nelle opere, destinate ad essere incompiute. E incompiuto è l’uomo (il poeta) nel suo tendere verso la conoscenza piena di sé, “per strade che portano al nido” ove è la promessa (l’illusione?) della rinascita e dell’amore solidale fra le umane creature, che solo può allontanare, ritardare, rifrangere “il raggio illeso del crepuscolo/ sui frutteti appena mossi dal sole”. Sì. Tutto ciò che la vita ha maturato è, per il poeta, solo vana illusione: “canti senza percorsi”, in quanto percorsi senza Canto, nell’assenza, per buona parte, di sé stesso. Meglio è “raccogliersi”, ritrovarsi e celarsi, “nella materia degli alberi”, nelle “ferite d’arenaria”, “nei minuti dell’attesa”, “nella dimora intangibile” della Scrittura, tracciata e intravista nella “flebile linea di matita”, per restare, sì, “quel millesimo” di sé stesso, ma sentendosi atomo, piccolissima parte del Tutto della natura e della creazione, nonché segmento breve e paziente di un tempo accettabile e promettente.

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