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Doleo ergo sum
l’iter poetico di S. Quasimodo
da “Nuove poesie” a “La vita non è sogno”

In “Nuove poesie” i temi legati alla terra natale – mito di una primitiva innocenza – ai ricordi dell’infanzia e al senso tragico della fugacità del tempo, già presenti nelle precedenti raccolte (“Acque e terre”; “Oboe sommerso”; “Erato e Apòllion”), ritornano in forme tradizionali e con una più fluente musicalità a delineare un “nuovo” iter poetico sostenuto da una profonda nostalgia e dall’amore che Quasimodo nutre per la sua terra di Sicilia, sentimenti che in quelle sillogi rimangono velati all’interno del più vasto sentimento per la “stagione felice” dell’uomo, universalmente sognata, che la fatica del ricordare, non confortata dall’esperienza, rende irrevocabilmente “patria perduta”. Siamo qui, dunque, lontani dal nóstos omerico, da quell’ “antica voce” che è l’odissea del Canto: quell’ “0boe sommerso” del quale è possibile cogliere soltanto “risonanze effimere” nella profondità della “liquida” notte. [“Isola di Ulisse” vv.1-4, in Salvatore Quasimodo, Tutte le poesie, Oscar Mondadori, pag.105.]

La Sicilia non è l’ “Isola di Ulisse”: metafora del Canto e modello sul quale il nostro Poeta confronta la condizione dell’uomo contemporaneo. La Sicilia è l’ «isola», foscolianamente irraggiungibile, la «terra materna» che dal Poeta potrà ricevere solo il dono del «canto». Tuttavia, in Quasimodo, la lacerante separazione dalla terra d’origine si carica di un dolore, le cui ragioni vanno oltre la condizione dell’ «esule». Perché il dolore non è solo lontananza. Esso ha nella Sicilia la sua connotazione geografica ed è segnato sensibilmente dal trascorso storico-sociale di quella terra. Così il dolore ha radici “ataviche” e vi corrisponde un senso profondo di allontanamento, di abbandono. Perché la Sicilia è terra d’ «esilio» che “esilia” e, dunque, (è) «isola». Essa, tuttavia, non è mai dal Poeta rinnegata, anzi è sempre cercata, perdutamente amata. Solo la memoria concede dei ritorni. Simile a una gazza, essa ruba all’oblio attimi d’infanzia e nel ricordo il Poeta s’illude di cogliere il “segno vero della vita” perché vivere è ricordare e ricordare è ri-vivere

(secondo la lezione platonica ) ed è uscire dal sogno e sottrarsi alla fascinazione del mito. Ma quegli attimi presto ridiventano ombre, “remoti simulacri”. La gazza-memoria, allora, torna a ripiegarsi sull’oblio stendendo la sua ala “nera” sulle dorate distese dei ricordi (gli “aranci” ). [“Ride la gazza, nera sugli aranci”. Ivi, pag. 119.]

Non è una memoria mitica, né sempre proustiana. In essa affiora ciò che semplicemente il Poeta ama ricordare. In primo piano è il paesaggio siciliano evocato quasi sempre insieme con le percezioni sensoriali, e non attraverso di esse; animato dal vento, dalla pioggia, da cavalli in corsa, dal volo degli uccelli, dal “murmure degli ulivi saraceni”, dal “sibilo dei pioppi”, da voci di fanciulli, dall’odore di zagare, dal marranzano del carraio, dal “corno dei pastori”. [“Strada di Agrigentum”, “La dolce collina”. Ivi, pp.120, 121.] A volte è il paesaggio lombardo ad evocare quello siciliano, soprattutto la sera quando, col riposo, si è più inclini al raccoglimento. Con lo spuntar del giorno quel paesaggio familiare sarà più lontano della luna. E questa lontananza è il disagio del Poeta che da esule cerca di stabilire un contatto con la sua terra che, in qualche modo, egli ritrova nel paesaggio lombardo. [“Ora che sale il giorno”. Ivi, pag.124.]

Tradotta in suoni, in immagini, in odori, con un movimento contrario a quello proustiano, la Sicilia si fa presenza evanescente. Nell’ “antico corno dei pastori” il fiato è un debole richiamo e “il soffio di vento” che si libera dall’incerta terra è un’eco subito spenta. Nessuna voce della sua terra giunge chiara al Poeta perché “pastore d’aria” è il sogno che la custodisce. Nessuna corrispondenza, dunque, può stabilirsi tra la terra sognata e il Poeta che ne è lontano. [“Che vuoi, pastore d’aria”. Ivi, pag.122.]

In questa raccolta il tenue motivo della nostalgia (che non è quella ‘romantica’) si lega inevitabilmente al sogno del ritorno, purtroppo impossibile, senza però quel doloroso senso di sradicamento che domina in “Acque e terre” e, in parte, in “Oboe sommerso”. Inoltre, il tanto desiderato ritorno non è sempre e necessariamente un ritrovare il tempo dell’infanzia. Questa ricerca, di segno proustiano, è sviluppata ampiamente nelle precedenti raccolte e mai in maniera isolata, ma sempre in concomitanza o in stretto legame con altri temi.

Ciò che rende «nuove» le poesie di questa silloge è l’uso di un linguaggio meno assoluto, meno cosmico, in cui la parola, al di là delle percezioni, è essa stessa epifanica, essa stessa memoria. E qui mi pare che l’ermetismo linguistico ceda a quella parola altamente “percettiva” che tende quanto più possibile ad aprirsi, ad appercepirsi, a identificarsi col mondo dell’infanzia del Poeta per restituirglielo dentro la voce del Canto che rimane, ancora, «sommerso».

Un mondo così “ritrovato” è effimero e non può annunciare nulla di nuovo. Tutto sembra inghiottire l’oblio e il Poeta si ritrova a enumerare solo “i mali dei giorni decifrati”, quel tempo senza gioia e senza mistero, inesorabilmente presente. Tuttavia, egli attende con pazienza che “il fiore magro” lasci i rami, che cioè il tempo infruttuoso svanisca e sia soppiantato in modo “irrevocabile” da un tempo migliore. [“Già vola il fiore magro”. Ivi, pag.142.] Ma questa attesa è presto vanificata in “Giorno dopo giorno”.

Il titolo di questa nuova raccolta già prelude alla fatica del vivere in un mondo in cui il dolore è “cibo cotidiano” per tutti gli uomini e non soggettivamente vissuto o invocato dal Poeta in un impeto di espiazione. [“Avidamente allargo la mia mano”. Ivi, pag. 44.] Finalmente gli uomini, dunque. E in primo piano. Sulla scena di un mondo reale devastato dalla guerra, la cui tragica esperienza segnò una svolta nella vita e nella poesia di Salvatore Quasimodo. Il Poeta esce da una visione estatica ed estetica di un mondo ancora dotato di senso, sia pure nella sua verità imperscrutabile, per entrare fisicamente in un mondo che per la sua cruda oggettività si sottrae ad ogni mitica rappresentazione.

Ritroviamo, in questa silloge, i temi dominanti del dolore e della morte, ma con un’altra valenza. Non più trasfigurati dal sogno o dal mito, essi non hanno più un terreno su cui radicarsi. Le loro antiche radici sono spezzate. Realtà palpabili, visibili, appartengono a un abisso più profondo perché ha un volto preciso, riconoscibile, un volto “umano troppo umano”, segnato da una violenza atavica che “impone” il silenzio dei poeti in un’epoca, quella contemporanea, su cui pende il tempo della notte del mondo, che è il tempo della “povertà”: quello “storico” della fuga degli dei, secondo Hölderlin; quello “antropologico” “della pietra e della fionda”, secondo la visione quasimodiana: un tempo, quest’ultimo, non scisso dall’altro, perché anch’esso caratterizzato dalla mancanza, dall’assenza di Dio. Nella poesia “Alle fronde dei salici” la sofferta decisione dei “nuovi” aedi di appendere, per voto, le cetre ai piangenti alberi, è l’amara coscienza di quella “povertà” estrema, della caduta degli dei e dell’uomo, unitamente a un grande bisogno di riscatto da quell’immane violenza che tanto somiglia a un sacrificale rito d’immolazione. E in quel lieve oscillare delle cetre “al triste vento”si coglie l’attesa profonda del tempo della “ricchezza”. Si noti, inoltre, il climax ascendente che percorre la poesia dal 2° al 7° verso, con i momenti di maggiore intensità nei tre enjambement ai versi 4, 5, 6 e, soprattutto, nella sinestesia del 5° verso (“l’urlo nero”). Questa tensione tragica che caratterizza le poesie più significative della raccolta (“Uomo del mio tempo”, “Milano, agosto 1943”) sottende la risoluta protesta del Poeta contro la guerra, contro ogni forma di violenza. E dunque, la necessità di “ridare” la voce ai poeti, perché ai poeti spetta di compiere la “svolta”, perché essi sono più vicini all’«essere», e il dolore che dimora nel canto può aiutarci a risalire dall’abisso, a scambiare il tempo della “povertà” con la ricca stagione dell’«essere», universale e divino.

In “Giorno dopo giorno”, l’irruzione dell’uomo sulla scena del mondo sconvolto dalla guerra, apre alla comunicazione il linguaggio del nostro Poeta segnando la fine della stagione ermetica, peraltro già annunciata nelle “Nuove poesie”. La ricerca della parola “pura” che aveva ispirato le prime raccolte, ora “naufraga” di fronte alla più grande tragedia umana e tuttavia, anche se il Canto resta «sommerso», anche se quella “parola” è solo un respiro del cosmo, essa parla in segreto nella grande voce che appartiene al dolore il quale, aprendo la coscienza del mondo, pone quest’ultimo in ascolto del Canto, in sua profonda e devota attesa.

Dentro un linguaggio fortemente emotivo, quanto comunicativo, il canto si fa etico, esige di rifare «l’uomo», come lo stesso Quasimodo ebbe a sottolineare in un articolo comparso su “La Fiera letteraria” nel giugno del 1947. Una poesia, dunque, civile, etica, afferma il proprio diritto di cittadinanza, «hic et nunc», in un luogo reale, in un tempo “esatto” che è il presente senza memoria, perché il passato è storia contemporanea. Ciò non sfugge al Poeta che leva alto il suo grido di denuncia contro la “ferinità” dell’uomo, la quale stabilisce quell’unità temporale, senza soluzione di continuità.

Sei ancora quello della pietra e della fionda, | uomo del mio tempo.

In quest’atmosfera di umana miseria, in cui gli uomini sono degradati a “mostri della terra” senza pietà e senza “croce”, in tanta desolazione e distruzione [“Giorno dopo giorno”. Ivi, pag. 151.] il Poeta ha pause di pacata riflessione, ritrova delicati, lirici momenti là dove familiari percezioni sensoriali sembrano annunciare timidamente il ritorno alla “normalità” della vita. Difficile, certo, è dimenticare (ricordare, anzi, può essere un monito per gli uomini-lupi) e il Poeta s’illude di avere vissuto un sogno [“O miei dolci animali”. Ivi, pag. 156.], ma… “La via non è sogno”.

La certezza della vita è nel dolore, nel pianto che non ha pausa. Doleo ergo sum è l’aforisma che costituisce il nucleo della presente raccolta e, forse, dell’intero iter poetico di Salvatore Quasimodo.

I temi del dolore, della solitudine, della fugacità del tempo, della morte, condensati ma ben definiti nella poesia “Ed è subito sera”, ritornano qui, in una meditazione più profonda, nella poesia “Thànatos Athànatos”. In “Ed è subito sera” la morte è la sola certezza, il punto fermo che in “Thànatos Athànatos” il Poeta tende a rimuovere cercando di stabilire un dialogo con la divinità. [“Thànatos Athànatos”. Ivi, pag. 178.] E qui, a differenza che in quell’altra lirica, l’incomunicabilità non è più una condizione che riguarda esclusivamente il rapporto tra gli uomini, ma coinvolge la divinità stessa. La ricerca di Dio, di sapore pascaliano, di un Dio nascosto che giustifichi l’esistenza e che non lasci ancora inevase le domande dell’uomo, s’innesta nel dolore che apre la via alla ricerca. La certezza che “la vita non è sogno” ha radici nel dolore perché il dolore è “vero” e questa verità può fare da guida all’uomo, può “imporre” al “Dio del silenzio” di manifestarsi.

La vita non è sogno. Vero l’uomo | e il suo pianto geloso del silenzio | Dio del silenzio, apri la solitudine.”

La raccolta si chiude con la delicatissima “Lettera alla madre”. Nel colloquio a distanza con la madre che vive ancora in Sicilia è il tema dell’infanzia che ritorna con un carico di memoria che appartiene alle cose. Il richiamo è proustiano, ma è Joyce presente in quell’orologio della cucina che tanto ricorda l’orologio della Dogana che a un tratto si rivela a Stephen Dedalus per quello che è: un’epifania. “L’orologio in cucina che batte sopra il muro” è in Quasimodo, pulsa dentro le sue vene, nel suo cuore. Esso vive e nel suo battito respira tutta l’infanzia del Poeta. La morte, allora, la “gentile morte” non può, non deve toccarlo, non deve guastare quei suoi “fiori dipinti” perché le cose solo in vita hanno resurrezione. Perché attraverso le cose, il dolore, sostanza della vita, si traduce in linguaggio. E così trasfigurato, questo “pane cotidiano” si fa canto radioso per la nostra resurrezione.

Ah, gentile morte, | non toccare l’orologio in cucina che batte sopra il muro, | tutta la mia infanzia è passata sullo smalto | del suo quadrante, su quei fiori dipinti”

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