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Esorcismo eretico
“La vita del dolore è la più
lunga”. È, questo, il titolo di una silloge del 1984 del poeta palermitano,
originario di Siculiana, Nino Balletti. L’ho subito associato a questa raccolta
di poesie di Anna Maria Guidi, “Esorcismo eretico”, dove il dolore è così
centrale e dominante che bene gli si attaglia quella definizione carica di
verità. Parafrasando Milan Kundera, possiamo affermare che il dolore determina
“l’insostenibile pesantezza dell’esistere”. Sappiamo, e sembra superfluo
ricordarlo, che la scrittura, la poesia in particolare, può essere un antidoto
contro la sofferenza e che le è assegnato un potere catartico e, addirittura,
salvifico. Tuttavia, altra è la funzione che la nostra poetessa attribuisce qui
alla poesia, ed è, come si può desumere già dal titolo della sua silloge, quella
di “esorcizzare” il dolore, di tenerlo lontano, di fare in modo che ella se ne
distolga, sì che le sia meno pesante vivere, meno lungo il cammino di
sofferenza, addolcito, reso meno amaro e più sopportabile dall’esercizio
quotidiano della scrittura. Come per Pavese “il mestiere di vivere” è sempre da
imparare e lo si può esercitare attraverso la scrittura, così, oggi, è per la
Guidi, la quale però sembra averlo “appreso” proprio attraverso il dolore, che
ella “sconta” poetando. E qui il richiamo è a Ungaretti, anche se, a differenza
di questi, per la nostra poetessa la morte non è la meta desiderata che “si
sconta vivendo”, ma è l’evento da rimandare, da differire, separandolo dal
dolore in cui è fortemente, costantemente presente. Non è la morte, dunque, ma
il dolore che va “scontato”, cioè diminuito, allentato con l’“esorcismo”
praticato per mezzo della poesia. La Guidi è cosciente d’intraprendere, di
condurre una lotta impari con la sofferenza, sa che non è facile liberarsene, sa
che la poesia, nonostante le offra la sua grande cura, non può operare un tale
miracolo. E perciò è un’eresia credere nel suo potere divino di sconfiggere il
“demone” del male. E, tuttavia, è la sola divinità alla quale affidare la
pratica dell’esorcismo: un esercizio negato, ritenuto dalla poetessa “ad
ogni dio
inadatto”.
“Buio di sole” è il dolore
che annebbia e segna “le cadute” lungo il cammino che tanto somiglia a un
“calvario” e che ha la sua ultima meta, temuta e agognata, “nell’infinitudine
/ dove non si sale e
non si cade
/ né si agogna né si teme / più.”
In questo spazio infinito, nel “non
luogo”, dove solo
è possibile “abiurare” alla “volontà
/di resistere e insistere /a vivere”,
è “la
pretesa di risorgere”
ma con “l’incognita
/ di quell’epifanica resurrezione”,
che impregna dell’umano dubitare quello slancio vitale, che, in sostituzione
della vacillante fede, trova nella poesia il sostegno e la forza di contrapporre
alle cadute “l’ascesa”,
ovvero, “la
sortita per le stelle”
e, dunque, la vittoria sul “buio”,
sul dolore, che l’insostenibilità rende necessario, perché con la
pesantezza di
esistere si
sconta la
leggerezza dell’essere.
Il dolore e la poesia, ovvero, l’esistenza
e l’essere,
la
pesantezza e la
leggerezza,
sono i poli entro cui oscilla, tra cadute e salite, la vita della Guidi. Ma è la
poesia il polo d’attrazione, il “non-luogo” che le offre un rifugio sicuro, che
le consente di alzare la soglia del dolore, di opporre ad esso tutta la gioia
possibile. La poesia, dunque, non la memoria, non il tuffo nel passato, la
risolleva dal presente, dall’angoscia, che è divenuta la condizione esistenziale
quotidiana, così forte da impedirle di “ritornare
indietro / alla primera casa”,
al “nido
s-radicato”.
L’infanzia, la ricerca
dell’età felice è un sogno impossibile, un desiderio, una “voglia”
che è “ormai
soltanto / fiacca volontà”.
Nemmeno la natura, ammutolita da tanta sofferenza, offre qualche
momento di
serenità. Essa non allieta più il cuore e gli occhi, perché il dolore è simile a
un sipario
di nebbia che
cala “a
chiuder lo spettacolo”.
Non la bellezza esteriore, naturale, ma quella interiore,
che è forza
creatrice, promuove la volontà e promette la gioia e il sollievo necessari al
distacco
dall’angoscia. Ma
la poesia è la grande “eresia”
se ci si affida ad essa e la si sostituisce a Dio
riponendo in essa
la fede nella “salvezza”. Nel dolore, nel “male di vivere”, il silenzio di Dio
si fa
insopportabile e,
con la sua “assenza” cresce il bisogno di Lui ed è forte la
ricerca del dio
perduto,
la quale sembra,
qui, finalizzata alla necessità e alla speranza di ritrovare non il “tempo
perduto”,di proustiana memoria, ma quello della “rinascita”, della guarigione,
della vita risanata o, quantomeno,
meno dolorosa,
più accettabile. Quasi a volere rompere il silenzio di Dio, si leva alto il
grido della Guidi a mendicare un briciolo di compassione, di misericordia. “Mi
senti? / Ti sto accattonando Dio / come il barbone la monetina / al canto della
strada. / Da
reclusa /
nel braccio della morte / ti scongiuro: / fammi un’elemosina / di misericordia.”
Alla fine di questo poetico
“Golgota, la drammatica “preghiera
/ è rosa senza spine”;
sboccia “una
vergine fede senza domande”
in questo “Dio
/ impotente o indifferente”,
che, tuttavia, non fa
mancare la sua
presenza “nel
buio del tunnel”,
nella fitta disperazione che apre alla speranza, alla
“certezza
di luce”, che
scaturisce dal dubbio e si “manifesta” quale non può essere altrimenti:
“innominata
entità” che
penetra “nel
lume delle arterie”
dando alla nostra poetessa nuova linfa,
nuovo respiro, la
forza di “in-sistere”, di “stare”, di “r-esistere”. E in questa brama di vivere,
in
questa voglia rinnovata
dalla fede, la poesia, pur essendo un valido “esorcismo”,
non può che
additare il suo “risorgivo
sepolcro / di eretiche parole”.
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Recensione |
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