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Geometria della rosa
Il tema
dominante di questa silloge annunciato fin dal titolo: Geometria della rosa,
è "la parola" che, metaforicamente, assume il nome del fiore, e con questo quell’idea
della perfezione e dell’infinito, che è uno dei significati della rosa nella
simbologia medievale. Questa parola che s'inciela in virtù della
metafora, somiglia tanto al Verbo quanto alla Poesia perché, a sua volta, è
segno tangibile e vero della creazione, mediante il quale l'uomo
tenta di dare un ordine al mondo. Questa parola è un concetto primitivo,
comprensibile, come lo sono in geometria il punto, la retta, il piano; ed è un
principio generale evidente, un assioma che, con le sue forme e figure diverse
cerca di tracciare le linee di composizione e rappresentazione simbolica della
realtà fisica, ma anche e soprattutto di quella realtà altra, ineffabile,
che va oltre la misura o dimensione dello spazio letterario; oltre le
forme del testo e del linguaggio poetico che Giuseppina Rando pone in parallelo
con la geometria.
Questa
parola, questo segno senza spessore, che la scrittura creativa carica di
significati e che perciò si fa corpo e anima; che si fa verso: che si
volge come girasole alla sua sorgente nascosta sembra essere, tuttavia, in
contraddizione con la Poesia che resta un puro nome, un universale che, per
dirla con i nominalisti, è privo di realtà ontologica riducendosi a un mero
nome, a un fatto linguistico, a un linguaggio che non lo parla, non lo esprime.
Ne deriva che la parola stessa, con la sua "architettura geometrica", in quanto
non riesce a cogliere la rosa e la nomina soltanto, è solo un
significante che rimanda eternamente a un "oggetto" che non ha un'esistenza
assiomatica; che resta inafferrabile, fuori dal "piano geometrico" e dallo
spazio fisico che contiene le cose materiali, come accade con gli oggetti della
vita reale che c'illudiamo di possedere nominandoli. Se, dunque, la parola è
solo un flatus vocis, la sua "geometria", invalidata dalla natura
ineffabile della rosa, è relativa, non vera, come
non sono più considerati veri i principi della geometria dopo
Euclide. Eppure questa rosa ha la magica virtù di rendere
possibile la parola, il linguaggio poetico, che,
anche se non
le è proprio, tende a comporla disponendo le parole come petali e assumendone in
qualche modo il profumo. Se, come dice Miguel de Unamuno, citato in epigrafe
nell'ultimo testo della raccolta, "ciò che non è eterno / non è reale", la
Poesia che ha il crisma dell'eternità è assolutamente reale e totipotente
nella sua unità indifferenziata. Infatti, essa si evolve, dà origine alle
"cellule" delle parole, che, coltivate nel giardino del sogno, imitano i frutti
celesti e aspirano ad acquistare la forma della rosa, ad essere esse
stesse questo fiore, simbolicamente presente nel paradiso di Dante e che
qui, in questa silloge, è "forma geometrica" disegnata e cresciuta nel tessuto
del sogno; essenza odorosa, invisibile agli occhi e tuttavia
percepita come forma organica e reale. Perché "Il sogno", che fa parte della
"geometria della rosa" è intuito dalla Rando "come proiezione della realtà.
La realtà come proiezione del sogno". Se sogno e realtà sono
interscambiabili, se "non ci sono fratture incolmabili tra il reale e
l'immaginario, tra la vita e il sogno", allora deve esserci un'identità, o
quanto meno, una somiglianza o corrispondenza tra la parola e il suo fiore, tra
l'immagine della rosa sognata dalla
parola e la rosa stessa.
Se è così, "«Non» stat rosa pristina nomine, nomina
nuda «non» tenemus”[1]
(la rosa primigenia «non» esiste solo come nome, noi «non» possediamo nomi
nudi"). Allora, la parola che nomina ha un senso e ha il potere di fare essere
le «cose», di dare loro un senso, a sua volta e di operare il cambiamento. E
così la vita, che si affida alla parola poetica, acquista senso e verità, può
conquistarsi il suo spazio sacro nella geometria delle forme e oltre il loro
spazio, e può aspirare ad essere essa stessa la rosa se non cessa di
aspirarne il profumo, di berne l'essenza dal suo calice. "Come un
pendolo la vita oscilla tra la veglia e il sonno, tra il detto e il 'non detto',
il comprensibile e l'incomprensibile, l'orrido e il sublime". La "geometria"
è questa duplice polarità: positiva e negativa, che descrive le linee, i
percorsi, gli aspetti, i casi opposti della vita; ed è la matassa da dipanare,
il labirinto, dove c'è sempre qualcosa da sacrificare, un filo da seguire per un
cammino più sicuro, per navigare migliori acque sognando approdi felici qui
sulla terra, piuttosto che inseguire esistenze fantasma dietro gli "echi
segreti di cosmi lontani". Perché è stando con i piedi sulla terra che
possiamo "incielarci". E il mezzo per spiccare il volo è la parola, il "verbo"
che si fa custode del sogno e "accende abbatte / il muro dell'esilio /
per inseguire ancora... / forse... una promessa / una speranza".
La vita oscilla, soprattutto, tra due forze distinte e contrapposte: il Logos
e il Pathos. Esse regolano l'animo umano e corrispondono,
rispettivamente, alla parte razionale e irrazionale. Nella sezione intitolata "I
corpi dell'ombra", queste due forze non sono del tutto in antitesi perché la
ricerca dell'equilibrio tende ad eliminare il loro contrasto, a "pacificarle"
indirizzandole a produrre forme armoniose contro "limiti, linee di
separazione, caos". È la poesia a conciliare ragione e sentimento, luce ed
ombra, spirito e materia, vita e morte. E lo fa con la natura, che esplode in un
tripudio di luci, suoni, colori, profumi, forme, a compensare la fragilità
umana, l'"ombra di un cuore muto"; a portare la gioia, la "promessa
d'infinito / parola inestimabile" che rompe il silenzio con "lampi"
di parole, con "voce di accecante mistero", dove l'anima si accampa e
attende nuovi "orizzonti". Ma sempre disattesa è la promessa in questa
silloge in cui le sezioni, le parti che la compongono costituiscono un corpo
unico, in un crescendo d'immagini, di pensieri, di stati emotivi, di illusioni,
di dubbi, di contrasti, di chiaroscuri: di ombre rischiarate dalla luce, di luce
determinata dall'oscurità.
Sono le "umane cose" spesso ad animarsi, a respirare dentro le parole con
le quali ci vengono incontro, quasi a chiedere o a rivelare "il messaggio non
colto"; è la natura inanimata, la dura "roccia" a destare "i
giorni pallidi e stanchi" che, col concorso del vento, acquistano "ali
dorate", e la "pietra" che espelle il "silenzio (...) / dal
grembo verginale" come se volesse farsi gravida e leggera di parole.
Risvegliate dalla parola poetica, le cose rivelano la loro natura di ombre, per
la quale acquistano uno spessore più vero. Perché "in principio" è l'ombra. Essa
è all'origine di tutte le cose ed è la loro vera natura. Prima della luce
accecante. Riconoscere la natura ontologica dell'ombra è lasciarsi "ingannare"
dal mito della caverna platonica, cioè comprendere che non c'è inganno
nel mito; significa vedere "nel solco dell'ombra" l'essere delle
cose e (non) restare prigionieri della verità, dove prigione e libertà si
equivalgono. Così ritrovare l'infanzia in un ritratto è lasciare fluire e
rifluire i sogni dall'ombra in cui si sono ritirati e racchiusi. E l'ombra è la
luce che abbiamo vissuto e che il tempo ha dissipato. Il passato è la caverna
che abbiamo abitato ed è la casa dove fare ritorno. Perché è lì che siamo nati e
cresciuti: nella notte, nel buio, nell'inconsapevolezza del giorno. È lì che "gli
anni bianchi" ci sono stati "rapinati / dal sole, dall'aria / dall'acqua
/ dal fuoco", dagli elementi essenziali che compongono e fanno
festosa la nostra natura umbratile, mutata in miraggio, in "barlumi".
Nella luce accecante abbiamo smarrito la Parola, che si è fatta silenzio e
ombra, "oscurità raggrumata". Componiamo con la rosa petali di
luce. Ma la rosa non sboccia nel canto della parola. Il silenzio è "notte
bianca", senza sogni, eppure "cinge qualcosa d'altro / intorno all'ombra
di una gioia / che vuole sopravvivere / al dolore del niente". Più grande è
lo smarrimento quando il dolore si fa quotidiano e reale e gronda "sangue
d'innocenti", quando irrompe nella vita dell'umanità tutta e la sprofonda in
un abisso, dal quale le sarà difficile risalire. Qui la "rosa" è recisa dalla
sua "geometria" che solo può descrivere il vuoto e il caos del mondo,
dove la Parola è esiliata e perduta, ogni sua orma cancellata. "Orfana
d'infinito", smarrito l'umbratile orizzonte, la sua mappa celeste, la
parola poetica declina nel silenzio che la sovrasta e copre la sua voce
implorante, la quale resta senza risposta: "arcane parole dislocano / (...)
stanchi giocolieri / in sillabe si sgretolano / e scolorando la terra / invano
cercano / mappe in cielo". E anche se "nell'anima umida" di pianto
attecchiscono e "gemmano" parole di conforto sussurrate dalla divina
oscurità, la vita si trascina nel suo "tacito dolere", e più non
l'abita "l'ombra o il sogno" in fuga dall'insopportabile luce dell'alba. Perché
nella luce si accampa il nulla e "muore la parola". Solo "non muore il
silenzio". Resta, "senza eco, in ascolto "all'ombra delle rose":
delle parole che re-spirano "tra profumi e veleni". Fuori dalla
caverna, dalla "franta dimora", esiliato nel caos esistenziale e
nel labirinto delle parole, nella cui assoluta incomprensione e relatività
collassa la "geometria della rosa", l'essere cerca una chiarità
nella quale oltrepassarsi per ricreare intorno a sé un cosmo: un nuovo "ordine
dell'esistere", "in sogno e in veglia", nell'agognata condizione di
oscurità rischiarata e di luce determinata dall'oscurità, per dimorare, cioè,
nella luce dell'ombra. Ma dura è la lotta tra la vita e "la morte" che "cresce
a dismisura" e non risparmia il pianto agli uccelli e alle stelle, sì che la
natura partecipa a tanto dolore in questo nostro tempo disumano. In un mondo
alla deriva, che ha dissipato tutti i sogni, la rosa è il sogno da
coltivare per il godimento degli occhi e dell'anima; affinché con la rosa,
simbolo del mistero della fioritura, fioriscano la Bellezza, l'Amore, la Vita.
Essa è la Parola ed è la Poesia. È l'essere che si oppone al nulla che avanza. È
luce ed ombra. È l'ordine del cosmo e il mistero mistico. Soprattutto, è il dono
che a noi si offre nella sua spontaneità pur restando ineffabile. Il suo
sbocciare è un semplice "schiudersi da sé" senza la consapevolezza di esistere e
di essere vista. Così è la poesia, la parola poetica. Essa accade semplicemente.
Come "la rosa è senza perché, fiorisce poiché fiorisce, di sé
non gliene cale, non chiede d'esser vista". In questi versi di Angelus
Silesius, posti in epigrafe nella parte quarta, si coglie lo spirito dell'intera
silloge della Rando, dove il fiore è lo spazio della creazione e la sua
scrittura: il "giardino" dove, all'ombra dell'invisibile rosa, fioriscono
le parole, le belle rose spontanee e ignare di esistere. Tuttavia, desiderose
del loro fondamento, "le rose cessano di essere le rose e vogliono essere la
Rosa"[2].
Perché la Poesia è "l'essenziale invisibile agli occhi"[3],
ma non al cuore e, in quanto tale, degna di avere la sua residenza nel mondo e
di abitare il cuore dell'uomo.
19 febbraio 2017
Note
[3]
Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo
principe
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Recensione |
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