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“L’infinito” di Leopardi e “La poesia” di Neruda

L’infinito” di Leopardi e “La poesia” di Neruda sono testi affini per l’unicità del tema e per il modo in cui esso è rappresentato nella sua fenomenologia.

Questo tema è l’Evento della poesia che subito si annuncia. Essa è la stella che brilla nel titolo nerudiano e che scintilla, con la sua decisa presenza, nel primo verso (“Fu a quell’età…Venne la poesia” ). Ed è l’infinito sospeso sul «colle» solitario e depositario dell’oceanica luce insieme con la «siepe». La quale, anche se impedisce alla vista di cogliere l’estremo orizzonte, tuttavia, proprio per questo, è cara al poeta: per la sconfinata visione che nel pensiero gli desta.

Il «colle» e la «siepe» sono entrambi l’occasione e il pre-testo necessari per confrontare la realtà fisica con l’idea dell’assoluto, per dipanare l’invisibile oltre il visibile, con l’aiuto della scrittura poetica. Essi costituiscono, dunque, la scena naturale dove si apre l’altra scena: quella che Leopardi immagina e nella quale ha “inizio” e “fine” lo spettacolo dell’infinito.

Sempre caro (…) fu quest’ermo colle” al poeta, perché familiare rifugio della sua anima solitaria, luogo della meditazione e dell’accoglienza che sempre ha assecondato e realizzato, con l’ausilio della «siepe», il suo desiderio “dell’ultimo orizzonte”. Dunque, l’Evento portentoso di cui “L’infinito” ci parla è già accaduto su quel «colle», ma soltanto nel testo, hic et nunc, assume il carattere di una rivelazione: accade cioè veramente. Il «colle» e la «siepe» sono, rispettivamente, l’elevazione e l’ostacolo necessario all’ascesa, all’ascesi. E dunque, si configurano come anima e corpo nella lotta che vede opposti il sentimento della visione e il senso della vista: lo sconfinamento possibile e il limite da valicare.

Questa lotta, comune ai due poeti, che accompagna l’Evento al suo esito finale, è il “sogno” che addormenta i sensi e che “rischiara” con le sue rêveries il palpitante mistero. Ed è questo mistero l’Ereignis [1. ted.: evento, avvenimento. Ereignis ha valore di “esperienza vissuta” e, in quanto tale, rimanda al suo analogo Erlebnis, che ha i significati di esperienza e di evento. Qui, l’Ereignis è l’Evento della poesia come epoché e rivelazione. Il termine italiano, più generico, è usato con la maiuscola e con lo stesso valore semantico dei due termini tedeschi.] che desta la coscienza e la prepara al prodigio consegnandosi ad essa interamente, come Erlebnis [2. ted.: esperienza, evento (vedi nota 1)] . L’Evento, allora, è questo «vissuto» che si rinnova e che si distende nel testo, il quale lo ac-coglie nel suo lento apparire.

Così “L’infinito” e “La poesia” si espongono alla nostra comprensione. E se il «vissuto» si concede a noi testualmente, allora anche per noi accade l’Evento. L’interpretazione, infatti, rende “manifesta” quella verità poetica che all’inizio si annuncia nei due testi, ma che subito dopo impegna nella lotta i due poeti ritraendosi, nella moratoria dei sensi, là dove maggior luce giunge a rischiararla, a liberarla – al di qua (o al di là) della «siepe», al di qua (o al di là) degli «occhi» e dell’assenza della parola: nella finzione del pensiero (“io nel pensier mi fingo”) e nella solitudine progressiva e intenzionale della coscienza (“e mi andai facendo solo”).

È un medesimo pensiero quello che si costruisce le prime immagini dell’infinito (“interminati | spazi”,“sovrumani | silenzi”,“profondissima quiete”) e quello che, chiudendosi in volontaria solitudine, traduce il fuoco dell’esaltazione poetica nel lucore del primo verso (“scrissi la prima linea vaga”).

In questa esperienza creativa, dove la realtà è sospesa, un medesimo sentimento, un “muto” sentire s’impadronisce dei due poeti di fronte a una grandezza ineffabile, di fronte a qualcosa di smisurato che si annuncia, che si manifesta appena, restando mistero incomprensibile, indicibile. È questa epoché [3. gr.: “sospensione”. Qui, il termine è usato nel senso heideggeriano, riferito all’essere che si rivela nascondendosi in modo sempre diverso nelle varie «epoche» della storia della metafisica.] dell’essere che nel poeta recanatese genera quello sgomento, per la verità inatteso e in contrasto con quel luogo familiare e rassicurante dove la mente, spaziando, sembra trovare riposo.

Questo timor panico che Leopardi riesce appena a contenere, a controllare di fronte a una realtà altra che si apre in una dimensione che scardina e cancella i nessi referenziali e per cui egli si sente “trasumanare”, equivale allo smarrimento dei sensi e dell’anima che Neruda avverte di fronte alla verità che accende in lui la passione e che lo fa angelo senz’ali votato al difficile volo nel cielo di quella verità che è l’infinito, la poesia stessa, verso la quale il poeta cileno, con la “pura sapienza | di chi non sa nulla” si dis-pone con atteggiamento socratico. Ed ecco che la poesia, fino lì senza corpo, senza volto, che in assenza della parola fa sentire la sua voce e presenza e che, in un climax ascendente, cerca il poeta e lo chiama a percorrere i sentieri interrotti [4. titolo italiano dell’opera “Holzwege”, di M. Heidegger.] della sua impenetrabile e oscura foresta (i “rami della notte”) fino a toccarlo con inequivocabile realismo, ecco che la poesia, finalmente sognata dalla parola – unico nesso che può nutrirsi dei suoi bagliori e rifletterli, sviluppando così la capacità euristica della finzione – si fa “pura sapienza”, immagine pura della verità come alethéia, come non-nascondimento, o disvelamento, dell’essere/infinito.

In mancanza della parola rivelatrice, anima del pensiero dell’assoluto, in Leopardi è il «vento» il referente che dà «voce» all’ “infinito silenzio”, il quale è comparato e assimilato a quel soffio vitale, che scioglie nella sensazione uditiva la tensione emotiva del poeta ridestandolo alla dimensione temporale dove, tra passato e presente, si rac-coglie e trasmuta la distesa abissale.

Il tempo è la cartina di tornasole che dà al poeta la “misura” esatta dell’infinito: eternità, spazio senza tempo e, tuttavia, unico futuro possibile. E il futuro non figura nel testo, non è preso in considerazione dal poeta, perché esso è la sezione assoluta, l’a-venire dell’infinito. Ed è l’Evento epocale [5. da epoché.] che pende sull’abisso, già vissuto e anticipato nell’esperienza del timorpanico”, a partire dalla quale si mette in gioco il destino del poeta (e dell’uomo), che è poi il destino dell’ “io” e della ragione.

Un’estrema ratio d’improvviso balena negli ultimi versi e si leva come il canto del cigno. Questa ragione è l’“ultimo orizzonte” della conoscenza, dove s-confina la verità che si annuncia nell’immagine-azione, la quale non cela, fin dall’inizio, l’intenzionalità della coscienza (“Ma sedendo e mirando (…) io nel pensier mi fingo”).

Questo pensiero noetico che agisce nella veglia della coscienza trova dentro di sé la propria determinazione, il potere di decidere del proprio destino: di “sciogliersi” nel «mare» della Soggettività che è l’ “oggettivazione” dell’infinito e di cui l’ “io” individuale del poeta, il suo “io narrante” è appagato spettatore. Il “naufragio”, allora, non è uno scendere “nel gorgo muti”. [6. l’immagine è tratta da un verso della poesia “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, di C. Pavese.] Al contrario, è l’immersione nella voce universale del canto, la presa della coscienza come autorivelazione.

Ed ecco che nel poeta recanatese quel sentimento “muto”, quel timorpanico” si trasforma in panismo e così si chiarisce e si placa trovando il proprio superamento nel tymos panico, che è l’emozione incontenibile della coscienza di fronte alla propria dimensione cosmica.

L’immagine del poeta, che “sedendo e mirando” contempla la “profondissima quiete”, ritorna nell’ “io” spettatore che placidamente assiste alla propria immersione nell’infinita distesa del Pensiero universale. E qui, in Leopardi, come in Neruda, il “naufragio” è l’approdo alla verità disvelata, la quale rende l’ “io” dei due poeti tanto più vigile quanto più esso s’immerge in quel «mare», o in quell’«abisso», che è il cosmo della coscienza.

L’universo che “d’improvviso” si spalanca allo sguardo del poeta cileno e che, a fronte del suo spazio infinito e misterioso, fa di lui un “essere minimo”, un “io” individuale e s-perduto nel “grande vuoto | costellato” è la stessa scena immaginata dal Recanatese e allo stesso modo vissuta nel grande “teatro” del mondo interiore. Comune ai due poeti è quell’ “io narrante”, quello stato vigile della coscienza che si fa canto e respiro del cosmo, che li fa partecipi e ben disposti al “naufragio” (“mi sentii parte pura | dell’abisso”; “e il naufragar m’è dolce in questo mare”).

La visione dell’universo, o dell’infinito è, infatti, uno spettacolo godibile che fa «ebbro» Neruda e rende «dolce» a Leopardi l’immersione. E questa contemplazione è l’Ereignis “vissuto” e annunciato che accade nella verità del canto. È il futuro. L’in-finito, inalveato, che tracima dentro il confine dell’interiorità. Qui si placa, nei due poeti, la febbre della passione e della ricerca. Qui la spannung si scioglie, definitivamente, nel sentimento aletimico. [7. da alethéia (verità) + tymos (emozione): il neologismo è mio e definisce la grande emozione di fronte alla verità che si disvela.] Così l’ “io narrante”, che è insieme autore, attore e spettatore, si fa sguardo “onnisciente” che di sé fa colmo l’«abisso», che è poesia e infinito: volto autentico dell’ “io” nel grande «mare» dell’Atman.

Di questa Anima del mondo, qui espressa, per dettato d’interpretazione, nella voce della filosofia indiana, c’è più di un’eco nel testo di Neruda, dove è palese la ricerca dell’identità spirituale, il cammino di un’anima verso la luce della rivelazione. Aleggia nei suoi versi lo spirito di Siddharta, ben visibile nella brama di verità e di assoluto che solleva il poeta alla scrittura di quella “prima linea vaga” che è già uni-verso: fusione di “poesia” e cosmo, immensità stellare che d’improvviso si svela e nella quale l’ “io” del poeta, gioiosamente, si abbandona e si dissolve (“rotolai con le stelle, | si sciolse il mio cuore nel vento”).

Questo panismo è esperienza identica a quella di Leopardi. Nei due poeti, profonda è la somiglianza degli ultimi versi che esprimono, con voce analoga, la felice immersione nella totalità dell’Infinito che in sé com-prende e unisce Poesia Cosmo Coscienza. Ritroviamo nell’ultimo verso di Neruda quel «vento» che in Leopardi è il soffio rigeneratore che dà voce e dimensione “temporale” all’“infinito silenzio”; che scioglie la paurosa immagine della “profondissima quiete” nella calma distesa del pensiero riflettente e cosciente della propria universalità. In Neruda il «vento» è l’analogo del «mare». È l’aeriforme distesa spirituale, il respiro della poesia che nel lucore della “prima linea vaga” è già parola ritrovata, appena pronunciata: l’Om [8. sillaba mistica nelle religioni induista e buddista: simbolo della coscienza del Tutto e dell’assoluto.] impercettibile, che dall’ “infinito silenzio” sorge e cor-risponde al cuore del poeta, il quale, nella luce dell’aurorale Parola, si affida, interamente, alla grande Anima del mondo.

Questo Ereignis misterioso e abissale, che nel canto si concede ai due poeti con modalità identica, è voce remota dell’essere che nei due testi si annuncia, fin dal primo verso, in quel «fu» che è “esperienza vissuta” e raccontata con scansione temporale diversa.

In Leopardi l’infinito è uno stato felice della coscienza infelice. C’è infatti nel testo un “ottimismo” così grande, a fronte del proverbiale ed esasperato pessimismo del poeta, che non può scadere tout court nel pensiero del «nulla». Ciò perché l’infinito nientifica il «nulla» che, se come principio, ha tutte le aperture dell’andata, come fine, tutte le azzera nel ritorno. Diversamente, l’infinito è l’Aperto che non conosce il “buco nero” del «nulla». A meno che il poeta non abbia concepito un «nulla» “religioso” e così perfetto da custodire dentro di sé l’in-finito e, così, anche la sua “finitezza”. Ma questo «nulla» non è già l’ invisibile spazio che confina e che tiene le vie “segrete” dell’interiorità? Non è forse esperienza del “perfetto” «nulla» l’infinito che ac-cade e si alloga nel chiuso della coscienza, nella “finzione” del pensiero? Molto, allora, ha di umano quel “religioso” «nulla», già pensiero dell’infinito o dell’essere, che supera il divino per quel grado “in più” di perfezione che il finito, nella sua unione con l’infinito, gli conferisce.

Nel testo leopardiano, l’epifania generata dal «colle» e dalla «siepe» è quel “di più” di perfezione che consente alla vista di varcare il (proprio) limite e s-confinare nella visione, dietro le “quinte” dell’occhio.

Nel “teatro” dell’interiorità, dove l’ “io narrante” si fa spettatore, si apre la scena dell’in-finito che si rap-presenta alla coscienza come dato “visibile” e finito. Così, “in questa immensità” r-accolta, lo spazio e il tempo sono aboliti e trasformati (per) in-canto, nella calma “liquida” presenza della Coscienza o spirito assoluto, dove scivola dolcemente e si dissolve, con l’ultima veglia dell’ “io”, il “cigno” della ragione.

È questa un’esperienza remota e rinnovata che, perciò, fa “sempre caro” il ricordo dei luoghi della scena reale: il «colle» e la «siepe». Si tratta, dunque, di un Evento ricorrente, di un pensiero unico, fisso, come stella nel cielo dell’infinito, di un tempo che dura e che vanifica, nel rapido passaggio dal passato al presente, ogni memoria nostalgica o, semplicemente, il pensiero rammemorante.

In Neruda, la poesia è un ricordo netto, ben definito nel tempo, nonostante l’apparente vaghezza (“fu a quell’età”). Essa è l’incontro improvviso e inatteso che segna e “sconvolge” e che, tuttavia, esalta l’età felice e sprovveduta della giovinezza. È l’Evento che traccia il cammino: “destinatore” e custode del mondo segreto e inesplorato del poeta, il quale, d’improvviso, è chiamato a seguire la propria vocazione, a cor-rispondere alla poesia, a farsi eco della sua voce e sua cassa di risonanza. Ad essere, lui, fuori di ogni dubbio, il suo ‘eletto’ (“Venne la poesia | a cercarmi”).

L’incipit è subito voce annunciante: l’impromptu dell’anima, sorpresa dalla palpabile ma invisibile presenza della poesia che si annuncia, tuttavia, come mistero. È il ricordo im-preciso, sospeso nell’atto del nominare (“Fu a quell’età… Venne la poesia”) ed è la visitazione che si coglie nella personificazione (“a cercarmi”) che la cesura e l’enjambement rendono figura folgorante, la quale suscita la “visione” sacra dell’Angelo dell’Annunciazione.

Sacralità e mistero percorrono tutti i versi che compongono questo testo della memoria che è puro Andenken, [9. ted.: Ricordo, memoria (pensiero rammemorante).] il quale lascia di nuovo accadere l’Ereignis, o Erlebnis, che si ri-presenta attuale e in perfetta identità col Ricordo stesso.

Qui, in questo pensiero rammemorante e al tempo stesso attuale, il sacro è il mistero già “svelato”. È la luce abissale che nell’annuncio dell’angelo visitatore fa pellegrino il poeta, errante nella parola, la cui assenza gli ostacola il volo (“ali perdute”) nel cielo della poesia. E questa parola mancante, (che) (s)profonda nel silenzio, è la «siepe» da oltrepassare, è lo stesso silenzio abissale, in cui chiama la voce dell’angelo e che, ad un tratto, libera la parola nel dono del verso.

E questa parola, fin lì senza spessore e senza sguardo, si fa nuova all’ascolto e sale in vetta all’abisso. Qui, per lei, si spalanca la vista. Qui, l’angelo della poesia, donatore di grazia, si mostra… e svela, come in uno specchio, l’ «universo». E il poeta, che ora vede il «mistero» faccia a faccia, «rotola», simile a corpo celeste, in quell’«abisso» dentro la sua coscienza.

La poesia che visitando viene a questa ‘eletta’ dimora, all’interno della quale realizza la comunione col mondo e con la sua anima assoluta, è l’aleph che racchiude in sé l’in-finito; è il microcosmo che riflette il firmamento: il “grande vuoto | costellato” che è insieme Poesia Cosmo Coscienza, di cui trabocca e si sente «parte» quell’ “io” individuale (“essere minimo”), puro, pieno di grazia (“Ed io, essere minimo, | ebbro del grande vuoto | costellato (…) mi sentii parte pura | dell’abisso”).

Questa esperienza del “sacro”, come fusione di finito e infinito, è identica in Leopardi. In entrambi i poeti, lo spazio sconfinato è, “paradossalmente”, un’ “enclave” dentro il confine piú ristretto della coscienza individuale, dove l’infinito, allogandosi, trova la propria “finitezza” come essere in-finito (finito dentro). In questa realtà poetica i due spazi (infinito e coscienza) coincidono s-confinando e identificandosi col più vasto Pensiero noetico o noosfera. [10. in Teilhard de Chardin: “cervello planetario”, mente in cui tutti i pensieri individuali sono immersi.]

In Leopardi, a differenza che in Neruda, il “sacro” Evento è frutto dell’intenzionalità della coscienza, assecondata e sollecitata dalla «siepe». La ricerca dell’infinito non è mediata dall’intervento dell’angelo della poesia. Non c’è visitazione nel testo, e anche se ogni opera è una visita ricevuta, lì, semplicemente, non è dichiarata né raccontata.

Ciò che Leopardi racconta è un’esperienza che si rinnova: un richiamo del cuore più che della memoria, un ri-cordo, “privo” di memoria e, quindi, un tempo presente, confermato dalla reiterazione dell’Evento, nel quale il passato è vanificato. In Neruda, invece, l’Erlebnis è una vera rimembranza: l’ “esperienza vissuta” una sola volta e che si fa “racconto”, memoria poetica che si distende nel “favoloso” passato e lo custodisce (“Fu a quell’età”).

Ma è il silenzio il vero custode di questo tempo della memoria e della durata. Esso domina sui testi, su tutti i versi, e parla con la voce aurorale del canto. E ciò che alla fine resta di questa voce è ancora, e sopra ogni cosa, Silenzio: “L’infinito” della Poesia, “La poesia” dell’Infinito.

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