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Senz'alfabeto
Autunno del linguaggio e il "bi-sogno" della
parola nuova nel progetto poetico-sperimentale di A. M. Guidi
Cosa diversa del linguaggio è la
scrittura, la quale può prendersi qualche "licenza poetica" e così inventarsi
dei neologismi "giocando" con le parole, suddividendole in parti, in misure
(aggiunzioni, sottrazioni, sinalefe, sineresi) o praticandovi degli innesti per
ottenere nuovi "frutti", per imprimere ai vocaboli significati inediti.
Senz'alfabeto, di Anna Maria Guidi, è, innanzitutto, questa libertà della
scrittura, che qui assume il carattere della necessità. Neologismi e metalogismi
creano l'originalità delle relazioni tra i vari elementi del testo permettendo
di oltrepassare le restrizioni linguistiche. Le figure retoriche del suono
(allitterazione, assonanza, consonanza, paranomasia) abbondano costituendo un
corpus "sin-fonico" che conferisce al testo e all'intera silloge un
particolare e gradevole andamento ritmico, quella vivacità, quell' "andante con
brio", tipico di una composizione musicale, che sopperisce all'assenza, spesso,
di quella "musica" interna, di intima appartenenza e convenienza alla
creazione poetica, che si dà per mistero e per miracolo prima delle parole che
essa stessa sceglie, compone e dispone. Qui, al contrario, a
suonare, in maniera diretta, sono le parole, che si caricano di più sensi
creando particolari paesaggi e atmosfere, ("il giallore smunto dell'autunno";
"il mare/rame d'un golgota di vigne/crocifisse alla vendemmia"; "scervella il
sole/nell'agostano avvampo/febbra salini afrori/spolpa sfranti sapori/fuoca
erbali umidori"...) o assumono un tono granguignolesco aderendo agli aspetti
violenti della vita umana e della natura, all'"esistere mortale", al "marasmo
carnale dell'esistere", al "cruore", alla lotta per la sopravvivenza, e
cogliendo, fotografando, bloccando, nei loro momenti più crudi e cruenti, alcune
specie animali e una umanità, di cui la Guidi si fa specchio rappresentandone
l'anima dolente e la carne mortale, la quale, in sé unendo eros
e thanatos:
le pulsioni di vita e di morte, cerca invano
di dissimulare la propria caducità sotto la maschera carnascialesca di
un'esistenza solo apparentemente felice:
"nugola
un carniere di storni/ piume di sangue alla postrema siepe (...) s'appunta al
vetro/ la coccinella novembrina/e nell'impari efforzo/vermigliando precipiti
discrepa/le ali della vita"; "fuco la vita/feconda e regge/la morte ape regina";
"lombrica il beccaccino/l'umorale turgore/della sapida preda disterrata (...)
uccella l'astuto astore/ la sua funèbre ronda/ frecciando la pernice/in un
rostro di sangue"; "ferita a morte/s'appiomba l'atra fuliga/alle farnetiche
fauci/della canina foia/guizza / (..) l'aspidica erezione/ammorsando il vindice
veleno/la gola armata del cacciator proteso:/ingravidato a morte"; "rutilo
poltriglio d'agonia/si spasma il rospo/sul ruvido grigiume dell'asfalto:/dopo la
curva/beffardi freni istride/il motore assassino"; "cedua rampica il monte/la
solenne baldanza della quercia/così l'obliquo struscio/della carne
mortale:/materia in maschera/a corto passo a spasso/sull'inteschiato corso/del
serotino carnevale"; "rosicando misuro le falcate del tempo/che sulle punte
capillare pulsa/il c(r)uore arterioso dell'esistere"; "e qual farnetico segugio
senza fiuto/arrancando e annaspando rincorro/il sogno del per ché e per chi
corro/seppur di certo so che non distorno/le saturnine voglie/pertuse nelle
matrigne doglie/di nostra mortal sorte: cùpida iena che partorisce e cresce/ed
al macello pasce ogni carcassa/ben frolla divorata/e indigesta
ri-gettata/nell'orbitante vuota ove smalto collassa/il marasmo carnale
dell'esistere"
In questo marasma, anche il sesso
diventa una lotta, un "corpo a corpo" che sfinisce gli amanti vinti dal piacere
erotico che la volontà di vivere, cieca, irrazionale e, tuttavia, necessaria per
la nostra stessa esistenza, richiede, secondo la lezione di
Schopenhauer. Vivere è così un "rito" che accomuna "l'umanide ciurma" agli
animali ed è un "miraggio", un'illusione di eternità che perpetua il dolore
attraverso l'eros privando l'uomo della
libertà (pp. 25, 26). Se in questo marasma, se in questo male di vivere c'è un
palese richiamo a Leopardi e al "giardino della souffrance",
tuttavia, la presenza di Artaud è qui "dichiarata" attraverso i versi di questo
autore, tratti dalle Poesie della crudeltà,
che
Anna Maria Guidi riporta nella sua silloge e che sembrano messi lì a
segnare delle sezioni, a fare da introduzione, o meglio, da segnavia ai testi,
quasi a indicarne, ad anticiparne il percorso, a tracciare
i passaggi decisivi del cammino
poetico-linguistico-sperimentale della nostra poetessa. Qui, le parole si
fanno corpo e scena della realtà, rappresentata con grande impatto emotivo nei
suoi aspetti oscuri e conflittuali, espressa a forti tinte, come nel "teatro
della crudeltà" artaudiano, con una partitura linguistica non convenzionale che,
se da un lato, tende a provocare la reazione del lettore abituato al linguaggio
ufficiale, in cui viene mantenuta la distanza tra segno e realtà, tra parola e
pensiero, tra scrittura e vita, anche quando la parola si volge alla poesia e
cerca di agguantarla, dall'altro lato, si propone come una lingua nuova, in
grado di pro-gettarsi, di andare oltre la semplice funzione comunicativa, oltre
l'uso tradizionale del linguaggio per colmare quella distanza e dare all'essere,
muto e senza dimora, la sua casa ideale nel linguaggio della poesia,
dove lo pensa e lo vuole Heidegger, e verso cui la scrittura della Guidi aspira
ad avvicinarsi mettendosi "in gioco", quasi a costituire un sistema di segni, un
nuovo "codice" linguistico sopra l'us(ur)ata lingua, raschiata e destinata a
scomparire nel palinsesto.
L'intenzione della Guidi, allora,
non è tanto di creare un
nuovo stile e una nuova forma, quanto di
investire la
scrittura della funzione liberatrice del linguaggio, che è quella di svincolarlo
dalla tradizione e, dunque, dal già detto, dalle forme del parlato e letterarie,
di "azzerarlo" portando la scrittura oltre di esso, a quel «grado zero»,
teorizzato da R. Barthes, a partire dal quale essa può ricominciare a "parlare"
in una dimensione
più autentica e vera.
La genesi della parola nuova (o
della nuova scrittura) non è facile, perché la scrittura non può ricominciare se
non a partire dal "ver(b)o" che la costituisce. Il nuovo corso è un calvario,
una passione, un andare "acrobatico" della mente tra "giunchi di parole", a
ridosso del silenzio che non riesce a parlare, a ri-trovare il "ver(s)o", il
"ver(b)o"; a ridare senso e significato al linguaggio, in cui la verità si dà
solo nascondendosi e che solo il sogno intra-vede nell'assenza delle parole, al
di là di ogni alfabeto. Tra "ustioni" e "algori", tra "preci" e "croci": tra
tensioni ardenti e algidi esiti espressivi, tra sacri tremori e patimenti tarda
a fiorire la primavera della nuova scrittura. E quel sogno, allora, è un
"bi-sogno" necessario che richiede un lungo cammino - "(t)orme di passi" -
attraverso "valanghe" di inutili, vuote parole, in cui quella verità è violata,
frammentata, dispersa, per sempre dissipata, ma della quale, tuttavia, è
possibile intravedere le orme - quasi un principio, un riflesso della sua luce
("il primo vèr del ver(b)o") - che la "neve" del silenzio è capace di
rilasciare, di riverberare se sappiamo ascoltarlo. Ed ecco!... In virtù del
sogno le orme di luce si tramutano in parole: "particole d'aurora" dentro cui
"lievita" la celeste ambrosia della poesia: cibo e bevanda di cui si nutre la
nostra Ricercatrice, senza mai saziarsene. Perché queste "particole", che
rifulgono della sacra luce del "ver(b)o", sono come le ostie, che Anna Maria
riceve in comunione. Per cui sempre si rinnova il "bi-sogno" di questo "pane"
celeste necessario all'esistenza. (pp. 15, 77, 81).
L'
im-pasto linguistico è, dunque, questo atto di comunione mediante cui le parole
diventano il nostro corpo e il nostro sangue, ed è noi stessi che offriamo nella
comuni(cazi)one che annuncia e ripete il sacrificio del Cristo.
Senz'alfabeto diventa così, ossimoricamente, un
laboratorio di parole, dove la parola è "un frullo di poesia" che s'invola come
un passero per ritornare al nido e risplendere della luce della verità. (p. 75)
E in questa luce, dove le parole ricevono il nuovo battesimo, la nostra
poetessa, con atto quasi sacrificale, assume su di sé "la vertigine" del vuoto
assoluto del linguaggio che, senza limite, volge al crepuscolo e sbiadisce
dissolvendosi nell'albeggiare del verso/verità, che, nel silenzio, "il sogno
dice" nell'azzeramento della scrittura, che può così ricominciare a
parlare. (pag. 81)
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Recensione |
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