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Poeticando
Diario di un laboratorio poetico: Paolo Carlucci
L’arrivo di Paolo Carlucci – la
sua ironia e cultura, strenua raffinatezza ma anche positura etica, militanza
insieme estetica e intellettuale – ha innestato verve e sacrosanta ironia
nel nostro gruppo pur già ben assestato e consolidato. Certo, ogni poeta lo è
a suo modo, con i propri mezzi e il proprio talento (profuso e innato, in
Paolo, nonché coltivato): ma poeta lo è, lo siamo sempre anche e al contempo
per tutti, cioè a dire: in nome di chiunque si accosti e si disseti lieto a
questa nuova sorgente.
E ognuno dona agli altri la
sfaccettatura – la diagonale di sguardo, la spezia d’umore – del proprio unico,
individualissimo destino lirico…
Romano, classe ’66, una tesi
sulla agiografia nella terza cantica della Commedia (e un’altra in filosofia con
uno studio sulla produzione in volgare di Giordano Bruno), Paolo ha innato il
culto dell’immagine. Variata, variegata, moltiplicata in coerenza e parvenza
sbriciolata, vetusta (come l’Arte e la sua Storia) di un insondabile, domestico,
civico infinito… Quello ad esempio della sua”Viterbo sacra”: “Severa nudità /
austera bellezza / alle pareti i colori / della pietà”.
Ma soprattutto, Paolo si pone
preziosi (e ineludibili) problemi di assonanza, di melodia lirica, di
architettura stilistica. Egli insegna materie umanistiche nei licei (italiano,
latino): dunque è letterato già in partenza, ma – attenzione! – solo
apparentemente facilitato, in questo. Perché chi parte dalla grande poesia, dai
classici, dalle tappe acclarate e periziate del moderno, per distillare la
propria voce, deve in realtà compiere un percorso molto ma molto più lungo,
intricato e periglioso, per scansare appunto ogni rischio di imitazione, ogni
insidia di soverchia cultura.
“Tra i castagni secolari / è
Grazia qui il rifiuto dell’oro / è gioia il silenzio / del chiostro superstite.
/ Dilaga dal rosone la luce”…
Ci si sente – evviva! –
Cardarelli e una certa luce italiana da primo Novecento, gloriosamente
“rondista”: ma anche la voglia eternamente, assolutamente moderna di farsi
classici della propria (avulsa) contemporaneità.
Bravo, bravissimo. Ed altre
liriche Paolo ci ha portato; e ancora giudizioso, elegante ci porta
questi distillati, gnomici idilli in fiore (più o meno melanconici, smottati,
porosi, o viceversa assolati di gioia) che già nel 2010 raccolse in Dicono i
tuoi pettini di luce (alias “Canti di Tuscia”)… “Civita, scabra meraviglia,
/ rupe sbranata dalle intemperie, / dai terremoti, di cui la terra, / talora,
qui s’è sgravata”…
Ma a noi, del Carlucci, piace
invece – e molto più – la coraggiosa vena socio-lirica, quasi da urbanista
concettuale della propria pagina e/o voglia di melodia… Può insomma il
Moderno meritare una poesia che a ogni nostro lanciato verso ci frena e insidia
di malessere? Stravolge le sue stesse forme e sciupa i colori, inquina il gioco,
un desiderio che infine ansima e si sliricizza – ma, eroicamente, proprio di
questo ingolfarsi, dissuonare stoico, ancora e meglio si redime, s’inturgida
poetico, disamorato in un nuovo, sferragliante e oscuro cantarsi…
Ogni strappo allora è lecito,
se si fa antidoto, antibiotico emotivo! Strade di versi (seconda sua
balda opera, del 2011) giunge così come un libro abraso, talora affannato,
stizzito di malessere oltre il medesimo, magnanimo panorama d’incanto. È il
panorama che cambia, o meglio incombe irredento, ostile, angustiato di
becera e fin troppa Realtà… E la letizia estetica, poi introiettata, non scema,
ma cambia elissi o punto focale, la diagonale scenica della sapienza: “Stanno
oggi queste arcate / mutilate spoglie d’eternità / spogliata ed offesa / come un
corteo trionfale / ginestre di pietra ai bordi / del GRA …” (“All’Acquedotto
Felice a Roma”).
Pasolini approverebbe – e non
c’è davvero miglior complimento. Stiamo parlando del poeta delle Ceneri e
del cineasta di Accattone, Mamma Roma, La ricotta: capace
di trasfigurare il travaglio desolante, meschino od orrido verso il moderno
quale insondabile, anabattista purgatorio di rinascita…
Tutta la produzione di Paolo
Carlucci cresce a vista d’occhio come una florida serra stregata, ipernutrita da
una sorta di dissipante e paradisiaco clima tropicale. L’apocalissi è sospesa,
comunque rimandata! Seguirà comunicato stampa Cgil-Cisl-Uil. I sindacati
autonomi non aderiscono… Eccole, le nuove deliziose poesie del nostro nuovo
brillante amico – splendide, inopinate, perverse forse (e carnivore) orchidee
di parole, caro/Verbum che s’impenna, s’irraggia, s’impoeta … Eccoli gli
sciagurati e nuovi videoturisti che scambiano Verità e Bellezza scippate
da google, internettate e virtuali, per calchi eternati o carni fresche
di venuste, etiche forme… “di clip gallerie ad alta velocità / per un soffio di
Wind / la nuova giga eternità / in un bip di felicità”… Dal loro limbo o sito o
empìreo d’arcano, come nella pubblicità d’un noto caffè, Byron e Shelley se la
ridono seduti a oziare, motteggiare massime eterne, nugae e adagia
con Gozzano e Flaiano, Cardarelli, Cecchi, Landolfi, Zavattini e Moravia…
Massimo, sdivinante club di Romantici e Indifferenti, cinici che avevano fede in
quel che facevano!
Ma a questo punto la poesia del Carlucci è già una diagnosi. Anàmnesi e terapia
non contro ma dentro il Moderno. Perché il Fiore divoratore della
Poesia ha oggidì divorantemente divorato se stesso…
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