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Antecedenti storici, pandemie, emergenze
in Italia e nel mondo globalizzato
A vivere, giorno dopo giorno,
l’emergenza coronavirus ci si consapevolizza che siamo, fuor di metafora, imbarcati su
una «nave» per davvero « sanza nocchiere in gran tempesta»[1];
una nave con un carico di notizie che si avvicendano con il rumoreggiare di un moto ondoso anomalo,
talora,foriero di bonaccia, talaltra, di fortunale.
Conservando saldezza di nervi, senza
incorrere in nefasti allarmismi o in premature rosee speranze, di incontrovertibile c’è
che stiamo combattendo con un nemico insidioso e invisibile; un virus
tirannico,di cui ignoriamo la identificazione genomica e su cui, al momento, è
dato solo almanaccare, in attesa di una immunoprofilassi salvavita.
Al contrario, sono notorie, in tutto il
mondo globalizzato, la rapidità di diffusione e la capacità di mietere vittime a migliaia,
senza distinzione di classe, sesso, età, privilegiando gli over sessantacinque.
Chi colpevolizzare? A chi imputare
l’immane tragedia di un cataclisma, che si poteva evitare se si fossero scrupolosamente e
professionalmente recepiti i segnali da attenzionare e non da sottovalutare? Al
mercato di animali selvatici di Wuhan, che fanno da cerniera tra gli allevamenti
intensivi e una rete di ristoranti specializzati in una cucina a base di pipistrelli, in grado di
trasmettere, in quanto ne sono serbatoi, la polmonite interstiziale per via alimentare o
per semplice contatto? La vexata quaestio potrà risolversi con il divieto di macellare
carne di cane, gatto o di quanti altri esemplari tra ratti, serpenti, tartarughe?
In tale marasma si può lasciare in zona
d’ombra il supposto laboratorio militare di Wuhan? Abilitato alla sperimentazione
di armi chimiche, nucleari, batteriologiche, può essere incriminato di particelle
venefiche sfuggite, scientemente / inscientemente, al controllo dei ricercatori? A
volere essere longanime, concediamo il beneficio del dubbio, anche se i fatti
rimandano a due acerrimi contendenti: l’America e la Cina in guerra fredda, l’una per
conservare, l’altra per accaparrarsi il diritto di supremazia mondiale.
Contesa che supporta l’assunto storico
secondo cui, per il rafforzamento egemonico sullo scacchiere internazionale, la vita
umana vale meno di un dollaro bucato.
Tralasciando la congerie degli
interrogativi, la teoria più accreditata in materia di coranavirus, si discetta, sia quella di
fattori concomitanti, interrelati con lo scempio dell’ecosistema, devastato
nell’equilibrio delle interazioni reciproche. A giudizio di
esperti, di inconfutabile attendibilità il buco di ozono, il disboscamento, la
deforestazione, la desertificazione,
l’agricoltura intensiva, il surriscaldamento del pianeta con il connesso scioglimento dei
ghiacciai polari, evoluzione/involuzione della nicchia ecologica, che ha svolto un
ruolo deterministico sulla nascita e sulla diffusione del Covid 19: da circa un
anno in circolazione nell’atmosfera in forma endemica, ha colpito qua e là i soggetti
più fragili.
Di certo, se fino ai trascorsi due mesi,
il coronavirus nell’universo globalizzato,
era, mi si perdoni il luogo comune, un illustre sconosciuto, oggi, il bisogno
di informazione, al di là dei trombonismi
dei luminari di turno, ci stimola ad allinearlo alle passate pandemie con
scadenza ciclica, sulla scorta di interferenze analogiche tra il prima, il durante, il
dopo diffusione.
Un a ritroso nei secoli attesta
che dal 160 al 180, quando Roma collassava per le Istituzioni traballanti, la peste
antonina (vaiolo) fa registrare dieci milioni di morti, in un arco di tempo in cui il clima
diventa più secco e le piene del Nilo sono inesistenti. Si presentifica, con la
prolungata siccità, la peste di Cipriano, cui seguirà nel 560 la pestis yersinia
o bubbonica, in coincidenza con l’assenza totale dell’estate. Il sole, scrive Kyle
Harper nel volume Il destino di Roma, edito da
Einaudi nel 2017, appare velato e i raccolti impoveriti per la piccola
glaciazione e per una sequela di eruzioni
vulcaniche, le cui ceneri incupiscono il cielo e la lucerna
del mondo[2]
manifesta una ridotta attività.
Statistiche alla mano, le bizzarrie del clima si configurano concause dirette
e insopprimibili delle pandemie. Non a caso, alcuni studiosi individuano i germi
della peste del 1348, per intenderci
quella descritta dal Boccaccio nel Decameron, non solo nella pulce del
topo, ma anche in un forte calo delle temperature, contraddistinte da inverni lunghi e
stagioni oltremodo piovose, nocive all’agricoltura.
Sarà un aneddoto da prendere con
captatio benevolentiae, ma si racconta che il Papa Clemente VI, per l’intera
durata dell’epidemia, si ritirò nel palazzo di Avignone, senza mai uscire da una stanza
con due falò perennemente accesi. Con siffatta terapia empirica, si dice,
abbia scongiurato il contagio.
Elementi coesistenti, quali
l’insediamento delle truppe francesi nei pressi della val di Susa per la conquista del
Monferrato e la discesa dei lanzichenecchi sono la punta di iceberg della pesta
del 1629 o peste manzoniana.
Alla efferatezza del conflitto, ai
soldati portatori della pulce del topo, ai presunti untori si associano
condizioni meteorologiche sfavorevoli, che scatenano carestia e diminuzione della produzione dei
beni di prima necessità. Il che induce il Duca Carlo Emanuele I di Savoia a
emanare un editto, che sancisce la calmierazione dei prezzi, per limitare la
speculazione sulle derrate alimentari.
Guerra e fame sradicano centinaia di persone dalle case, dalle campagne e le
condannano a ramingare in città dove, per
istinto di sopravvivenza, praticano l’accattonaggio, per un pezzo di pane
raffermo.
Allora, come oggi, si andò
all’individualizzazione del paziente zero. Lo si identificò in un calzolaio di Torino, che si
ammalò per essere quotidianamente a contatto con calzature che avevano impattato il
suolo.
Nella retrospettiva sulle passate pandemie, al fine di cogliere presumibili
contiguità tra ceppi con connotazioni, in apparenza similari, non si può tralasciare l’influenza spagnola. Le cause? Non sono un mistero: malnutrizione, scarsa igiene,
trincee con assembramento di fanti, logorati dal mantenimento della posizione,
campi medici superaffollati e infetti gli ospedali, dove vengono curati militari, feriti
e psicologicamente depressi.
In circolazione in Austria dal 1917, l’influenza spagnola, la cui sintomatologia
evidenzia affinità col coronavirus (mal di testa, dolori muscolari, brividi, tosse
secca,
febbre superiore ai quaranta gradi, infiammazione nei lobi inferiori polmonari),
falcidia cinquanta milioni di persone ed è il maggiore olocausto medico della
storia.
Al vaglio delle riscontrate analogie, il Covid 19 potrebbe essere scambiato per
un’influenza spagnola di ritorno con il virus modificato nella transfezione
dal pipistrello all’uomo, passando per il topo. Fantasie suggestive: i virus delle due
pandemie,
H1N1 e Covid 19, appartengono a ceppi diversi e perciò non è dato ricorrere al
vaccino anti-spagnola, riconosciuto nel 1933, per inibire il nuovo coronavirus.
In merito all’epidemia di spagnola del 1918-1920 si ventilò che il congruo
numero
di decessi fosse da attribuire a cure inadeguate. L’illazione suscita un
dubbio, estensibile al presente. Viene da chiedersi: inadeguati i farmaci
sperimentali somministrati ai nostri degenti over sessantacinque con, recitano, forse a
discolpa, i bollettini
medici, patologie pregresse? Supposizioni o verità confutabili?All’uopo, la
Magistratura ha sequestrato le cartelle cliniche per accertamenti sulle morti sospette
degli anziani, ospiti delle SRA e del Pio Albergo Trivulzio.
Pandemie o mera ecatombe? Un sondaggio oggettivo rileva che esse si
ripresentano
con uno scadenzario standardizzato di cento anni in cento anni in unicum
con i mutamenti climatici.
Sulla periodicità sistematica dovrebbe quanto meno riflettere l’Organizzazione
Mondiale della Sanità, sorda ai segnali che erano stati lanciati nel novembre 2002
dai ricercatori della Sars (severe acute respiratiry syndrome), forma atipica
di polmonite,
prodotta dal virus Sars-Cov.
Stessa politica di occultamento all’atto dell’esplosione del coronavirus. Il
primo caso di contagio, rubricato il 17 novembre 2019, viene ufficializzato il 31
dicembre
2019. Il Governo centrale cinese nicchia, addossa la colpa ai Governi locali.
Solo il 21 gennaio2020, in un’altalena di reticenze, censure, negazionismo, le
Autorità decidono di allertare il mondo e il personale medico ospedaliero.
La comunicazione tardiva, finalizzata alla tutela dei mercati e agli spostamenti
transoceanici giornalieri, è stata matrice di migliaia di morti, che la taske
force ultima
ora non è riuscita a frenare e a flettere per aggressività del virus e
velocità di propagazione.
Anche se secretate, le motivazioni occulte del ritardo saranno palesate in un
futuro
prossimo venturo dalla voce franca della storia, che accerterà le
responsabilità del singolo e indosserà per le migliaia di vittime innocenti le
vesti della Nemesi giustiziera.
Ovunque, nel mondo globalizzato, la ragione di Stato e la cattedrale dei
virologi e degli infettivologi hanno giocato la carta dell’attendismo esiziale,
sposando e propalando la falsa tesi di un’influenza poco più perniciosa
dell’influenza stagionale.
Influenza! Transeat! Un’influenza che in Italia ha rastrellato più di
ventimila persone, senza contare gli altri paesi del continente europeo e senza
contare gli Stati Uniti dove, nella sola New York, i diciassettemila morti, sepolti addirittura nelle
fosse comuni di Hart Island, sono di gran lunga superiore a quelli delle Torri
Gemelle.
Non si biasimi, quindi, il Presidente Trump se ha dichiarato di volere sospendere
i fondi all’Organizzazione Mondiale della Sanità, accusandola di essere
filocinese.
La situazione che stiamo vivendo permane di alta criticità. Come difenderci? I
rimedi
odierni non si diversificano da quelli galenici, antichi: mascherine, guanti,
lavarsi le
mani, ieri con aceto frammisto ad acqua di rose, oggi con sapone, amuchina o
soluzione alcolica, divieto di celebrare matrimoni e funerali, quarantena a tempo
indeterminato.
Misure restrittive, spesso, eluse dai novelli Prometei dai piedi d’argilla,
esaltati Superman, che si reputano immuni al contagio e, ottenebrati da
chimeriche utopie, si
fingono futili pretesti per riversarsi per le strade, vuoi per accompagnare
il cane a
passeggio, vuoi per comprare il giornale o il classico litro di latte.
I più insofferenti sono i giovani. Figli del benessere e del consumismo
sfacciato, rinunciare ai rapporti interpersonali per loro equivale ad essere
protagonisti di un dramma esistenziale. È vita quella che si vive senza
l’aperitivo pomeridiano nei bar alla moda di un qualunque centro storico? senza
l’apericena? senza gli incontri del sabato notte in discoteca? senza lo sballo con
la ragazza di turno? senza il brivido della corsa notturna in Ferrari da Formula
Uno?
È acclarato, salvo sparute eccezioni, nessuno di loro si rammarica per la
sospensione delle lezioni; per il concerto annullato o la rappresentazione
teatrale rinviata; per la
conferenza cancellata o la prenotata visita a musei o a pinacoteche,
destinata a data
indeterminata. La cultura della nostra generazione di transizione è un
optional: il libro cartaceo giace ammuffito e ingiallito negli scomparti del passato. È un gran
bene se, per noia o per svago, si sfoglia qualche volume o rivista on-line, a
mezzo tablet o canali di comunicazione alternativi.
La tanto decantata pace domestica, di giorno in giorno, è compromessa dai litigi
della coppia che scoppia. È lo scotto della convivenza forzata, la scoperta
della incompatibilità di carattere, emersa dal protagonismo dell’uno e dell’altro coniuge,
ciascuno
arroccato sulle proprie idee, renitenti a un dialogo di affiatamento, intesa,
complicità.
A farne le spese è quasi sempre la donna, come dimostrano le recenti denunce di
violenza: con la clausura da Covid 19, stanno rendendo più ponderoso il paniere
dei soprusi e delle sopraffazioni: hanno a firma la mano dell’uomo e eromperanno in
crisi
insanabili quando si tornerà alla sospirata normalità.
Normalità! Modo di dire inflazionato! Quando avremo debellato il coronavirus,
dovremo convertirci a una normalità inedita che ci renderà, se non saremo
accecati da ottuse e devastanti forme di egoismi, pensosi e sgomenti sui nuovi
destini del mondo.
Non saremo, come nei secoli delle passate pandemie, afflitti dalla carestia
che decimò gli strati più umili delle popolazioni, ma saremo attori e
spettatori di una recessione epocale: flagellerà inesorabilmente piccoli
imprenditori, costretti a dichiarare fallimento; esponenti del terziario, che dovranno chiudere i battenti;
lavoratori interinali al nero o con contratto a termine, che ingrosseranno le
file dei disoccupati, con poche garanzie di future sistemazioni. Gli indigenti,
che non disporranno di che sfamarsi, saranno la spina nel fianco, la piaga
cancrenosa di uno Stato imprevidente e affatto virtuoso.
Nel caos e nell’avvilimento generale, iene e sciacalli trarranno profitto dalla
precarietà. Il pensiero corre a camorristi e a mafiosi: sapranno circuire
sprovveduti e affamati attraendoli nella loro orbita di nequizie, devianze, mercimonio. La
prossima sarà
un’umanità prostrata dal dolore, facile preda dell’homo homini lupus del
Duemila.
L’incubo del furto, della rapina, della malversazione dilagata ci isolerà.
Minata la vita di relazione, la paura del potenziale nemico, che intercetteremo,
anche laddove non ci sarà, alimenterà la nostra solitudine, il nostro
solipsismo, il nostro romitaggio nei deserti dell’io. Interlocutore infallibile il web: ci connetterà con
l’universo virtuale. Il rovescio della medaglia? L’alienazione. La mia
prospettiva, lo so, è di catastrofismo, sollecitato da una visione
personalistica e individualista della vita non da afflato societario. Tale
visione pessimistica, radicalmente erronea, mi pungola a tratteggiare un
quadro futuristico a tinte fosche, soprattutto in considerazione delle poche
certezze in politica interna ed estera.
Alludo all’UE. Mi pare stiano archiviando le istanze programmatiche di coesione
degli
Stati, a giudicare dall’atteggiamento autoritario, se non dispotico e
decisionista, adottato nei confronti dell’Italia in piena emergenza coronavirus. Destabilizzata
dall’attacco urticante indirizzato al nostro Paese, devo considerare tramontata
la tesi di
Carlo Cattaneo, federalista, democratico, repubblicano, il quale asseriva che le
Nazioni europee dovevano «congiungersi… non con l’unità materiale del dominio, ma
col
principio morale dell’uguaglianza e della libertà »?[3]
A monitorare la deprecabile caduta di stile, sono portata ad arguire che l’uguaglianza
e la libertà siano voci astratte e anacronistiche, utilizzate per mistificare la preponderanza di qualche
Stato che, sull’esempio di Napoleone o di Hitler, si è autoeletto guida
dell’Unione, arrogandosi un ruolo, che mette a dura prova la credibilità della
confederazione.
Opino che l’Italia sia sprovvista di pertinenziale scienza politica e di
strategia di trasformismo camaleontico il che, di condiscendenza in
condiscendenza, l’ha ridotta in Stato vassallo di un’Europa che rappresenta solo
l’unità della grande finanza, del sistema monetario, delle banche, dei
banchieri, dello spread, che fa tremare vene e polsi quando sale
vertiginosamente.
In un assetto europeo conformato a un particolarismo che tradisce le premesse
iniziali, noi italiani siamo stanchi dello slogan: «Ce lo impone l’Europa! Lo
vuole l’Europa!»: mortifica le nostre radici e la nostra storia. Mi
domando: Non si accorge l’Europa che con i suoi sentenziosi diktat
potrebbe esacerbare gli animi e incoraggiare qualche defezione? E l’Italia non
si accorge che la politica dell’indecisione e dell’attendismo potrebbe
favorire l’avanzata di qualche partito tra quelli battezzati «sovranisti?» Che
pure hanno una visione politica di rispetto.
Nell’approssimarsi della fase due della pandemia l’Europa dovrebbe preoccuparsi
dello scontento su larga scala, della disoccupazione, dei nuovi poveri, della
solidità
dei clan camorristici e mafiosi, che si stanno sostituendo alla Stato in opere
di pseudo soccorso e di assistenza, della delusione nella debolezza dei
partiti, situazioni scabrose, che potrebbero favorire l’ascesa di un Governo
fortemente accentrato e monocolore.
Comunque vada il corso della politica europeista, che sembra aprirsi ad una
svolta di ammorbidimento, sono certa che, dopo lo shock coronavirus,
entreremo a pieno titolo nel XXI secolo, trainati, sotto il profilo
esistenziale, da una non comunicabilità che vivrà di web e di social
e sarà più irrazionale di quella del Novecento, secolo breve, che si è
riscattato della sua brevità, ritagliandosi un ulteriore scampolo di vita nel
Duemila.
Note
1 - D. Alighieri, Purgatorio, a cura di G. Giacalone, A. Signorelli, Roma
1988, canto VI, p.196, v. 77.
2 - D. Alighieri , Paradiso, a cura di G. Giacalone, A: Signorelli, Roma
1988, canto I, p. 105, v.38.
3 - C. Cattaneo, Opere scelte, Einaudi, Torino, 1972, vol. III, Scritti
1848-1851, pp.271.
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