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Di Antonio Porta,
alla luce delle sillogi poetiche, delle esperienze narrative e teatrali, è più
agevole la rivisitazione letteraria che la scansione biografica, tanta la
riservatezza dell’uomo e dell’artista, schivo a forme di protagonismo e di
presenzialismo, che snervano nell’inanità dell’effimero. Al di là della data di
nascita, Vicenza 1935, siamo sforniti di elementi determinanti che ci consentano
di rapportare squarci del suo privato con l’itinerario dell’operatore culturale,
ben saldo sulla nuova frontiera delle lettere. Di concreto, e da qui dipanerà la
nostra carrellata, c'è che Antonio Porta, pseudonimo di Leo Paolazzi, lega nome
e produzione al programma della Neoavanguardia e del Gruppo ‘63,
di cui, con Balestrini, Giuliani, Pagliarani, Sanguineti, Zanzotto, fu esponente
di rilievo.
Astro nascente del firmamento letterario italiano quando, nel 1961
in I Novissimi, Giuliani propone ed esemplifica il rinnovamento del
tessuto linguistico, Antonio Porta vi aderisce tout court, soddisfacendo
l’innato bisogno di una poesia sliricata, deputata alla soppressione dell'io e
alla rimozione del soggetto-individuo. Scardinato il sistema
dell’autobiografismo trito e rancido, il Porta oggettivizza il ruolo del poeta,
ridimensionandolo, in seno alla sua ottica di novatore, a “personaggio che,
muovendosi tra le parole, si muove come noi idealmente ci muoviamo nella sfera
della realtà, come vediamo che tutti si muovono, consapevoli o meno”. “Nella
presenza dell’opera”, egli scrive, “si produce la mia assenza e in questo trovo
la pace. Con il bastone del nomade disegno il
mio volto come se fosse quello di un altro; se quello di un altro diventa anche
il volto di un mio lettore, allora vuol dire che la poesia esiste”. È l’avvio ad
un percorso carico di tensione oggettuale, esordio di una comunicazione che
sfora nell’importanza dell’ evento esterno, calandosi nella dimensione
minimalista di un quotidiano allucinato, registrato col metro “della estraneità
e della in autenticità”. (J. Picchione) Il poeta nemico dei sogni “si lascia
disponibilmente invadere dalla vita, di cui è parte non centrale”, in quanto
“consapevole della sua provvisorietà”. Trattasi di un’operazione di
disumanizzazione dell’io interrelata con una essenzialità linguistica che si
amalgama ed integra con la fisicità icastica della parola-corpo. Intellettuale
di rottura, in costante ricerca di forme nuove, (sua la dichiarazione: “Non mi
sono mai appagato di una forma, ho sempre cercato di provocarne altre”) Antonio
Porta è indocile alla codificazione dell’edonismo verbale, che sclerotizza e
mortifica il divenire del processo scritturale, permanentemente in
fieri. Abiurata la staticità segnica della tradizione vecchia e tarlata,
egli adotta una lingua aperta a diverse soluzioni di decodifica, da “coltivare
contro il pericolo della rigidità e dell’afasia”, (Berkeley, 2.06.1986)
contrassegnata da ritmi percussivi, scelte lessicali asciutte, tali da generare
“una visività impersonale” (G. Pontiggia), in sintonia con l’io-oggettivo, di
derivazione eliotiana, trasformato in una specie di “controfigura, di presenza
anonima, di occhio dilatato”. (G.Pontiggia) I1 fine rimane quello di “vivere in
un universo verbale” che è, confida a Pier Paolo Pasolini, “ricerca di una forma
radicata in ciò che ero e sono e posso diventare nella e per mezzo della
poesia”, arazzo semantico che trasmette e si trasmette come “anticanto”, spoglio
di estasi metafisica, allusioni, analogie.
Strutturate sulla materia-verbale le sillogi del Porta da I Rapporti
(1966) a Cara (1969), da Metropolis (1971) a Week-end (1974),
confluite nel 1977 in Quanto ho da dirvi, testi eversivi, in netto
dissenso con tematiche e schemi linguistici ratificati, a partire da I
Rapporti, istantanee dell’Italia fine anni ‘50, stretta nelle maglie,
sottolinea Niva Lorenzini, “di un provincialismo culturale gretto e di un
autoritarismo neoborghese”. Lo scenario è ripreso, catturato, trascritto, in
nome dell’oggettività dell’io-poeta, con flash che fermano, fissano,
rendono permanente l’immagine sulla pellicola con impassibilità distaccata. Di
sfondo una società in ginocchio: violenza, menzogna, persuasione occulta,
razzismo, mali del dopoguerra, fomentano un’angoscia che non si lascia vincere
nè abbattere dal disfacimento dilagante. I1 testo, che su quello sdruciolare il
Porta costruisce, procede per scatti, gesti, frizioni, partitura sperimentale
che in Cara, oltrepassando il traguardo del linguaggio automatico,
veicola un’operazione metalinguistica, di cui esempio probante è Come se
fosse un ritmo. Qui la successione rapida dei fotogrammi sfocia in segmenti
visivi e fonici imbastiti di irrecusabili contraddittorietà, di effetti
meccanici ripetitivi e povertà sintattica (predicato verbale e complemento senza
sviluppo narrativo). In repertorio sempre la desublimazione dell’io azzerato e
senza ruolo; con l’azzeramento dell’io la guerra dichiarata all’abuso delle
consuetudini, che scombussola le attese del pubblico, in dilemma di decodifica.
I risultati si cristallizzano in un manierismo di ritorno, in un neodadaismo
alla rovescia, scelto col proposito di contestare il conformismo e la
insignificanza dei tempi. Il palmarès se lo aggiudica ancora il
linguaggio-pensiero ed il suo ritmo denso, contratto che rende tensiva la
lingua-corpo. Ma
ormai l’incertezza della ribalta socio-politica e l’evolvere delle stagioni
della vita sollecitano il Porta ad un approccio linguistico più duttile, capace
di ammorbidire il lessico sotto il profilo semantico e la cadenza metrica.
In
questa ingegneria della parola in progress si situano Brevi lettere
(1976), nate dall’esigenza di liberarsi dal testo-carcere, usurato da
ripetizioni ossessive, che lastricano un cammino di negazione. La svolta è
dettata da una comunicazione in modo diretto, secondo le modalità
dell’epistolografia di ieri e di oggi, vuoi il poeta parli di sè come uno
estromesso dal correlativo partecipativo, vuoi riferisca testimonianze
raccapriccianti sulla pratica della tortura nei paesi a regime dittatoriale del
Sud America, sui manicomi-lager, sui fatti di cronaca nera. Propellente,
uno svincolarsi a sorpresa dall’autoesclusione per una conversione laica alla
semplicità. Le descrizioni de1 golpe in Cile, del nazifascismo, della
violenza sulle donne, clou il massacro del Circeo, non reclamano
intenzioni metalinguistiche. E’ la condizione mentale e spirituale di
Invasioni (1984), apertura alare della parola trasparente, tattile, senza
nulla togliere alla sonorità ed alla corporeità, persino nella commistione
mito-cronaca, racconto-sequenze
liriche del poemetto Balene delfini bambini, collocato come incipit
della silloge. L’esperimento sarà ripreso nel 1987 in Melusina, donna
bellissima che ogni sette anni si trasforma, nella parte inferiore del corpo, in
serpente. Neppure nel travestimento della favola il poeta si emancipa dal tema
della conflittualità, alternanza, osserva la Lorenzini, “di cinismo e stupore,
utopia e castrazione, ossessione sessuale e pulsioni dell’inconscio” risolti, ne
Il giardiniere contro il becchino, nell’impianto della parola
controllabile e
di tonalità
dissonante. Figuralità espressiva e parola-teatro permettono al Porta di
allargare le braccia e di perdersi nel volo come un airone. Il topos del
volo, costante comune ai poeti generazione
ieri ed oggi, non ci coglie impreparati. Corifeo, con de Vigny e Leconte de
Lisle, Baudelaire e la sua metafora dell’albatro: tra gli uomini “camminare | non
può per le sue ali di gigante”. In Porta la parola-negazione acuisce il
pessimismo di fondo: l’airone non vola alto come l’albatro con il suo dramma di
incomprensione, ma basso “sotto le montagne di macerie, | dentro i crateri delle
bombe, | sotto le colline d’immondizia, | lì dove ... rinasce la semplice vita;
|”e
con essa “quello che è vivo... sotto la semina dell’odio”. Strisciando,
trascinando, affondando “le zampe nel fango”, l’airone aderisce “alle ferite
della terra” in un precipitare infinito, “buio del prima e
dopo”.
Dispiega dal volo dell’uccello palustre un negativismo acerbo: esso alona tutta
la produzione in versi e prosa (Partita, 1967; Il re del magazzino,
1978) del Porta, operatore silenzioso e discreto, riservato e schivo di
“trombonismi” [G. Ferroni su
A. Giuliani in Novecento, Collana diretta da G. Grana, Marzorati, Milano
1989, vol. X, pag. 9814]
disturbanti, per rifugiarsi in un suo congeniale universo metalibertario. Con la
consapevolezza della caduta e dell’incomprensione, Antonio Porta chiude
improvvisamente a Roma
la sua partita con la vita, quando sta elaborando un ennesimo libro. E’ i1 1989:
la nera signora, armata di falce e di randello, ghermisce il “nomade e
passeggero”, avvolgendolo in un ampio mantello di tenebre. Mortali, non
letterarie.
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