|
Incompiutezza del processo conoscitivo, eclissi dei valori, plurilinguismoOggi, al civico 219 di via Merulana a Roma, del palazzo dell’Oro,… intignazzato e grigio, non resta testimonianza alcuna. In suo luogo uno spento e tetro negozietto di brutta tappezzeria fa a pugni, nel suo squallore, con le moderne griffe dell'arredamento. A meno che il giallo, di cui andremo a discorrere, non abbia avuto a teatro il civico 215. Lì è ubicato un palazzo stile umbertino che conserva tutte le caratteristiche dello stabile borghese; lì potrebbe essersi svolto il delitto rimasto impunito e tanto più grave se rapportato al concetto di giustizia esemplare propalato dal fascismo. Non sono che illazioni: potrebbero avere credibilità se per davvero lo sconcertante fatto di sangue avesse avuto a muto scenario quel civico e quella strada e non si trattasse, come notoriamente risaputo, di un’operazione di mera fantasia di Carlo Emilio Gadda. A questo mio argomentare un romano di chiaro stampo trasteverino, con spontaneità viscerale, mi investirebbe con: Non ce ne po’ fregà de meno. E l’onorevole Antonio Di Pietro contesterebbe con un: E che ce azzecca? Eppure l’addentellato ieri-oggi ci azzecca se, a calarci nella temperie del lontano 1927, è Aurora Cacòpardo con il saggio Carlo Emilio Gadda e il romanzo giallo, edito da Graus, prefazione e nota critica del professore Francesco D’Episcopo. L’autrice, giallista fuori dagli schemi conclamati, ci sensibilizza a riscoprire nel romanzo gaddiano, talvolta, frammentariamente interiorizzato e metabolizzato, il quid che reclama ancora rivisitazione,a 33 anni dalla scomparsa dello scrittore e a 60 dalla pubblicazione, nella rivista Letteratura dei primi cinque capitoli di Quer pasticciaccio brutto di via Merulana. Per la Cacòpardo, e concordiamo in pieno con lei, molte sfaccettature della vicenda si prestano a revisione critica, afferente sia la ragnatela del giallo, di intricata tessitura, sia il profilo linguistico. Indubbiamente poco decifrabile, complesso, a giudicare dalla complessità del registro semantico gaddiano in seno alla cultura del Novecento. Già il titolo, con la sonorità fonica e cacofonica del dispregiativo Pasticciaccio, ci pone istantaneamente dinanzi ad un rompicapo, una scacchiera su cui cose ed attori sono collocati senza ordine gerarchizzato. Pedine senza regine e senza re: una famiglia borghese, un furto, un omicidio, una rosa di sospettati tra le pupille della vittima, la cameriera, l’amante, i parenti della sgozzata Liliana Balducci. Un arazzo a tinte forti e fosche, non dissimile da quello de La cognizione del dolore, esaminata dalla Cacòpardo nei nove tratti che disquisiscono sulle ragioni del dolore, originato, nella fattispecie, dal rapporto conflittuale tra Gonzalo e la madre, assassinata, come la signora Balducci, in circostanze misteriose. Scenografie parallele ne La cognizione come nel Pasticciaccio. In palcoscenico una ridda di losche figure di dubbia onestà e moralità come potevano, forse tuttora possono esserlo, i non abbienti di un lontano e poco conosciuto paese del Sud America, terra proverbialmente povera e con una fame ancestrale, indotto alla malversazione. Quali, possiamo chiederci, le motivazioni che stimolano la Cacòpardo ad una rilettura di Gadda e del genere letterario da lui privilegiato? Chi ben conosce la saggista e sa che, come signora in giallo, ha dato alle stampe nel 2003 Il vaticinio ed altri racconti, nel 2006 Un caso inaspettato ed altri racconti, non deve rincorrere ipotesi e congetture: può immantinente parlare di predisposizione naturale per la letteratura poliziesca e di una certa affinità con Gadda: come lei, non chiude il romanzo con un epilogo inequivocabilmente definito, ma lascia la trama aperta per il coinvolgimento diretto del lettore, non destinatario passivo, ma soggetto attivo, cui è demandato il ruolo di cimentarsi nello scioglimento del caso anche con un apporto personale. Dal momento che tutte le catene del dramma sono a maglia spezzata e manca l’artefice di saldature indissolubili. Come nel Pasticciaccio. Lì, il commissario Ingravallo, personaggio caro ad Aurora, che nella sua produzione si muove tra illegalità e legalità, capta e avverte, a filo di nasometria, il garbuglio, la tortuosità, l’impossibilità di pervenire all’agnizione non solo perché, di interrogatorio in interrogatorio, la faccenda si imbriglia di nuovi indizi e di nuovi indiziati, ma anche perché, come ne La cognizione, l’ossatura ordinata, stereotipata dell’ordito viene di continuo stravolta, scardinata dalla imprevedibilità di fatti e di accidenti: essi rallentano e compromettono, inficiandola, la soluzione catartica, con la inconoscibilità del colpevole. Nella congerie, boomerang di accuse, proclamazione di innocenza, mezze verità, l’Ingravallo funamboleggia sulla corda delle supposizioni, consapevole dell’incompiutezza del processo conoscitivo, deputato ad arenarsi per l’impossibilità di approdare a conclusioni inconfutabili. Di un solo incontrovertibile assunto è certo don Ciccio (e con lui la Cacòpardo che nella trattazione, in sintonia con il Gadda, deplora, senza acredine ed infingimenti, eclissi e caduta in verticale dei valori): dalle indagini dipanerà un sondaggio senza veli sulla viltà e sulla mostruosità nascoste, sia nell’alta e media borghesia romana, guazza di rampanti, neo-arricchiti della guerra e del dopoguerra, sia nei ceti subalterni, contadini e borgatari, abbacinati dall’oro e dai gioielli rapinati. Corrotti e convertiti al malaffare, il loro tralignare, sottolinea la Cacòpardo, di natura essenzialmente economica, sì può a malapena legittimare con i morsi dell’inedia e della miseria atavica. Entrambe stringono intorno ai reietti una cintura protettiva di silenzio e di omertà: l’epilogo assurdo sarà una non soluzione che il commissario raffigura nella metafora vortice-nodo-groviglio-gnommero, alias gomitolo, emblema e sigillo della narrativa gaddiana. Su miriadi di variazioni lessicali, evidenziate dalla Cacòpardo, arzigogola il funzionario di polizia: esse confermano l’idea del brutto affare, del pastiche con gli etimi groppo-garbuglio-guazzabuglio, di manzoniana memoria, intrico-intruglio-inviluppo-magma-meandro-pandemonio, con un acuirsi di dubbi classificabili tra i più ingravalleschi e doncicciani. A corredo arruffio-babele-babilonia-caos-cataclima-confusione-dedalo, immagini topiche che rimandano alla nozione di clausura, segregazione come di chi, capitato o catapultano in un labirinto, a volere azzardare una via d’uscita, può solo rassegnarsi a recitare Lasciate ogni speranza, voi ch’intrate. Disincantato, di statura media, piuttosto rotando nella persona o forse un po’ tozzo, di capelli neri… un’aria un po’ assonnata, un’andatura grave e dinoccolata, un fare un po’ tonto, oserei dire alla tenente Colombo, l’Ingravallo, secondo la Cacòpardo, cito testualmente, è il simbolo dell’impossibilità di risolvere il giallo. Il suo annaspare è un vorticare tra il tentativo, scrive l’autrice, di cercare un ordine nel fluire delle cose e la sua filosofia scettica e pessimistica, che lo convince sempre più, dell’irrisolubile imbroglio del mondo, rappresentato da Gadda con l’uso di metafore e neologismi che hanno un’estensione fonica, visiva, cromatica come l’ossequenziale scaricabarillistico o l’ossimorico lento monsone di fonogrammi o la storpiatura del nome del poliziotto Farafilio, a seconda delle circostanze, accorciato nel longobardo Fara, latinizzato in filiorum o composto con Farafigliopetri o Farafiglioro. Estrapolando qua e là dalle pagine gaddiane, la fa da padrone un plurilinguismo articolatissimo, commistione di lingua culta e di marcate interferenze molisane, romanesche, abruzzesi, napoletane, veneziane. Al pari, ne La cognizione, osserva la Cacòpardo, l’impasto è di espressioni dialettali lombarde, termini gergali, vocaboli spagnoli. In proposito il Guglielmi constata: Gadda parla la lingua degli altri. Decodifica e transcodifica parole altrui. Si applica alle parole con cui gli altri hanno raccontato le loro storie e riprendendole le contamina e le deforma. In merito alla contaminazione, nella nota critica del saggio in predicato, il professore Francesco D’Episcopo asserisce recuperandola dall’estetica terenziana, che la contaminatio è una delle cifre dell’universo gaddiano. Non credo sia un flettere spirito e finalità del testo monografico, che del problema della lingua si interessa con ampie e circostanziate citazioni, insistere un tantinello sul grumo scritturale del Pasticciaccio, dilatazione di lingua letteraria con ascendenze liriche: La signora Liliana lo guardava compiaciuta, quasi con tenerezza, come vedesse un fiore ancor chiuso e un po’ raggelato dall’aurora dischiudersi, e modelli manzoniani: il sole non aveva ancora la minima intenzione di apparire all’orizzonte che già il brigadiere Pestolazzi usciva (in motocicletta) dalla caserma, con struttura simile o conforme all’attacco del capitolo IV de I Promessi Sposi: Il sole non era ancor tutto apparso sull’orizzonte quando il padre Cristoforo uscì dal convento di Pescarenico. Costruzione linguistica elaborata, sorretta, annota la Cacòpardo, da proliferazione di vocaboli, finalizzati a complicanze prevedibili, impresse con un timbro fonico che da gnommero si buracraticizza in rosa di causale o causali o nel basso paragone del pollo e della strozzata, l’uno ragione del mondo, l’altra insieme di cause che si celano dietro i fatti. Cause ed effetti, precisa Gadda nella Meditazione milanese, sono il pulsare della molteplicità irretita in se stessa, a dimostrare che lui lavora su di una eterogeneità semantica, armonizzata in una sintassi mobilissima come mobile è il divenire linguistico. Insomma, Egli attua quella che la Cacòpardo, sic et simpliciter, definisce manipolazione linguistica. Perciò, per dirla con Guglielmino, il linguaggio di Gadda è insolito, traumatizzante, guarnito di neologismi che colpiscono la meschinità pacificamente accettata, il laidume coperto da perbenismo. Sul tema del laidume nel consorzio degli uomini, deviati od acquiescenti, spazia l’ottica della Cacòpardo: una laidezza che, attecchita nell’intero Paese, non risparmia, e come poteva, il palazzo dei pescicani di via Merulana, cieco carcere dell’inconoscibile. In esso l’oscurità del mistero ha il sopravvento, di modo che la morte della Balducci, ancor giovane e piacente al dottor Ingravallo che ai sospiri… a quegli sguardi…, si carica ed alona di enigmi che rimangono tali, a giudicare dalla postura del cadavere con la gonna di lana grigia e una sottogonna bianca buttate all’indietro, fin quasi al petto. Di lei appena si pispiglia di…. latenze lesbiche? Chi può averla uccisa per derubarla dei gioielli? E, soprattutto, quale può essere la mano assassina tra la cameriera, l’amante, i parenti, il carosello di pupille, ragazze diseredate che Liliana accoglie in casa, educa ed accudisce come figlie, nella speranza di placare la frustrazione nevrotica, ossessiva, insanabile di donna cui viene negata la gioia della maternità? Ella, a differenza di quanto almanacca l’Ingravallo, con l’inchiesta sempre in alto mare, non è una madre, ma una creatura che vive il dramma di non essere madre. L’inestricabile rete dell’intreccio sgrana nello scardinamento, riverbero di negatività e problematicità della realtà, camuffata da una costruzione dai piedi d’argilla: franando, dalle rovine e dalle ceneri delle macerie, genera una società di sub uomini, ladruncoli e rinnegati, facili a delinquere e alla perversione. Una genia di individui, di cui il regime, se non riesce ad inglobare nella propria orbita, ignora esistenza e tralignamento, mistificato dalla retorica della sanità e della morigeratezza, pianta lussureggiante della famiglia in genere e di quella borghese in particolare, prosecuzione, rimarca la Cacòpardo, di quella tardo-risorgimentale. Ne enunciamo le virtù: il padre di integerrima fede fascista; la moglie, sottomessa, sposa felice, madre modello, novella Cornelia, che nel figlio balilla, nella figlia piccola italiana, riconosce i suoi gioielli più preziosi. Ad orchestrare degenerazione e depravazione, di stanza nelle città, nelle campagne, nelle borgate, dove contadini e borgatari hanno perduto e smarrito, con la lotta per la sopravvivenza, il loro stato di purezza primigenia, il Predappiofesso: aveva asservito la stampa, costringendola a ridimensionare nefandezze e scelleraggini, di modo che…. l’Urbe incarnava ormai senza er minimo dubbio la città de li sette candelabri de le sette virtù: quella che avevano auspicata lungo folti millenni tutti i suoi poeti e tutti gli inquisitori, i moralisti e gli utopici, Cola appeso. Non a caso la Cacòpardo riporta gli epiteti con cui Gadda apostrofa il Mascellone nel Pasticciaccio, vale a dire, Emiro con il fez e col pennacchio; Testa di morte in stiffelius, o in tight quando non è chillo fetente d’ ‘o balcone ‘e palazzo Chigge. Appellativi che mettono alla berlina l’artefice della realtà mistificata. Questa, chiarisce Aurora, trova il suo antidoto nell’istruttoria di Don Ciccio: Delitti e storie sporche erano scappati via pe sempre da la terra d’Ausonia, come un brutto insogno che la sa squaja. Furti, cortellate, puttanate, ruffianate, rapine, cocaina, vetriolo, veleno de tossico d’arsenico per achiappà li sorci… giovenotti che se fanno pagà er vermutte da na donna, che ve ne pare? la divina terra d’Ausonia manco s’aricordava più che robba fusse. La società romana un coacervo di menzogne ed artifici: sconvolgono il mondo con una visione rovesciata, insensata, barocca: essa scava un abisso tra l’essere occultato, mortificato delle cose, degli oggetti, delle persone, delle situazioni e del loro apparire di ordine, di bellezza, di armonia. A figurare l’ambiguità corrente Gadda nella prefazione alla Cognizione del dolore sintetizza: Un violoncello è uno strumento barocco; un contrabbasso, meglio che andar di notte; un femore… è un osso barocco; idem il bacino; il ghiandolone fegato è una polta barocca;… la gobba del dromedario è barocca;… i fagioli, le zucche, i cocomeri oblunghi sono altrettante scorribande barocche,… quali natura tuttavia li elabora, modo questo per dichiarare la sua propensione per l’eccesso della scrittura, per quella che Pasolini denomina ipertassi, vale a dire, sintassi super, estremamente espressiva e senza limitazioni nello sperimentalismo (G. Bellini – G. Mazzoni) con quel sovrabbondare della parola che tenta di adeguarsi alla realtà sconvolta, all’ingranaggio, leggiamo nel saggio della Cacòpardo, guasto della storia. La realtà, infatti, non svela l’arcano del delitto né l’identità del colpevole, perché nella reità dell’assassino si annida la reità della società italiana, sotto la dittatura, allo sbando totale. Perciò, Gadda si aliena nello stile, cui è affidato, nella rotondità dell’ipotassi o nella semplicità della paratassi, il compito di rivelare per forme omologhe, l’enormità e lo scandalo del mondo italiano, sia sul versante borghese che su quello popolare. Nell’antiromanzo del Gadda le storie non si concludono perché lo scrittore non vuole concludere. L’osservatorio sui personaggi denota che tutti possono essere colpevoli o comunque tutti sono così marci che il verdetto di colpevolezza si estende all’intera società, che ha legalizzato l’illecito arricchimento dei pescicani della guerra e del dopoguerra e che ha partorito il mostro ridicolo del fascismo. Il male – commenta l’autrice – è in ognuno di noi qualunque sia la soluzione burocratica ed ufficiale di un’indagine poliziesca. A compimento di questo mio dissertare, non guasta un codicillo sulla modernità di Carlo Emilio Gadda, caposcuola di un filone che dalla fissità in libris ha trovato rispondenza, purtroppo, nel vissuto italiano dell’ultimo sessantennio. Mi riferisco a gialli, tuttora, insoluti, ammuffiti negli archivi della polizia, nel codice vecchio e tarlato della magistratura. Con una picchiata nell’a ritroso mi viene in mente l’affare Montesi del 1953: prende il nome dalla giovane Wilma, trovata cadavere sulla spiaggia di Tor Vajanica. Ancora senza colpevole il delitto di via Poma, a Roma: vittima nel 1990 Simonetta Cesaroni. Paludato di impenetrabilità il delitto dell’Olgiata con l’uccisione della contessa Filomarino. Con ombre di inverosimiglianza si chiuse, qualche anno fa, l’istruttoria sulla morte della contessa Francesca Agusta, precipitata da villa Altachiara, a strapiombo sullo specchio di mare di Portofino, tra i più esclusivi d’Italia. Sull’altare del sacrificio donne come le protagoniste de La cognizione e del Pasticciaccio, romanzi di indiscussa attualità per gli studenti se il saggio in questione, con un efficace battage di propaganda editoriale, avesse accesso nelle scuole secondarie di secondo grado. Percorso auspicabile, visto che la scrittura della Cacòpardo è piana, agevole, diretta, immediata, requisito indispensabile per promuovere l’interesse dei discenti sul doppio canale della storicizzazione del presente e dell’attualizzazione del passato, attraverso un razionale processo di decodificazione e transcodificazione, in unicum con lo sperimentalismo gaddiano. I mutamenti linguistici della comunicazione in fieri non possono dispiacere i giovani, in quanto essi stessi creatori e facitori di un controlinguaggio trasgressivo e rivoluzionario, anticonformista ed anticonvenzionale come anticonformista e fuori da codificazione standardizzata si configura la prosa del Pasticciaccio e di tutta la produzione gaddiana. |
|
|