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Come nel Duemila coi PapaBoys
Non posso trincerarmi dietro il “Non
c’ero!” Ci sono come c’ero quando, nell’agosto Duemila, Roma fu invasa dai
Papa boys. Né mi appaga l’informazione mediatica: valanghe di parole
asettiche in un giramondo No stop, retrospettiva trionfalistica della
civiltà dell’immagine invalidata da conferme e smentite: si rincorrono, si
incrociano, si deformano lungo un arco satellitare che abbraccia Saxa Rubra e
San Pietro, l’America latina e Cracovia. Notizie desoggettivizzate, propalate
per la grandiosità dell’evento: deve alonarsi di spettacolarità senza riserbo
della privacy.
La cronaca in diretta, con l’incalzare
dei minuti, slarga in cronaca di morte annunciata. Eppure il Santo Padre è
lucido, sofferente ma lucido al punto da inviare l’estremo messaggio di
ringraziamento ai suoi Papa boys, quando gli si riferisce che la piazza
ne è gravida. Sono lì, appoggiati alle transenne, accovacciati sui sampietrini,
le spalle curve sotto sacchi a pelo avvoltolati negli zaini, gli occhi e l’animo
rivolti alle finestre dell’appartamento pontificio: ne spiano segnali, ipotesi
di vita che non rivitalizza. Pregano, intonano canti liturgici sulle corde delle
inseparabili chitarre: dimostrano, con la loro presenza, di essere ancora le
sentinelle del mattino, se la morte va intesa come alba sull’orizzonte del
nuovo mondo. Il briefing della stampa nazionale ed internazionale
riecheggia con sfilze di interviste e sondaggi di opinioni. Ho bisogno di
confondermi con quei ragazzi anonimi; di essere pulviscolo e particola della
folla oceanica di piazza San Pietro.
Mi ci
reco e provo la solitudine di tutta Roma. Per le strade semideserte della
domenica in albis, prima di mezzogiorno, aleggia un silenzio discreto e
rispettoso. Però, appena si imbocca via Leone IV, il deserto si popola di frotte
di persone assorte, cupe: giovani e meno giovani, individui di ambo i sessi che
vanno: il passo o è spedito o è lento, regolare. All’ingresso di porta Angelica
la moltitudine ingrossa in marea: una processione in doppio senso di marcia, tra
chi va e chi viene. Ondivaga, raggiungo il Colonnato del Bernini. Mera follia
pensare di valicare l’assiepamento di negri, spagnoli, brasiliani, giapponesi,
polacchi. Tutti, nella lingua madre, intercalata da un italiano storpiato,
esprimono contrizione. Sul sagrato della Basilica vaticana si sta officiando la
Messa: mi giunge sola una cacofonia di suoni senza percezione di significato.
Cambio postazione. Niente di immutato da via della Conciliazione. Mi dico che
non devo vedere, devo scoprire dai tratti fisiognomici lo stato d’animo delle
masse cosmopolite. Non occorre demopsicologo per leggere in uomini, donne,
disabili in carrozzelle una tristezza senza confini e senza barriere etniche.
Enorme la mobilitazione per un Papa che in quasi ventisette anni di pontificato
è stato Cantore della civiltà dell’amore, soprattutto coi giovani.
Istituire la giornata mondiale della gioventù ha avuto, in un’età di malessere e
di disvalori, la finalità di sensibilizzare al bene, alla legalità, alla
pacificazione planetaria, al dialogo interreligioso, all’ecumenismo generazioni
in crescita. Vi è riuscito? Impossibile scavare nella psiche di milioni di
adolescenti. Lui ci ha provato. L’adesione è stata totale. Lo dimostra il fatto
che quei ragazzi che nell’ottanta mi trovavo accanto da San Pietro a San
Giovanni con i loro stendardi multicolori, con il cocketail delle loro lingue,
con i loro jeans sfrangiati; quei giovani sani ed allegri che gremivano
il metro e mi riempivano di giovanilismo, me li ritrovo di nuovo accanto. Sono
accorsi dal loro padre carismatico senza stendardi, senza striscioni, solo con
candele e chitarre. Quei giovani, lo colgo nei loro volti, hanno un unico grande
dolore: la perdita della loro guida, del loro “grande amico”, saggio eppure
severo. Per Lui, durante i funerali, a furore di entusiasmo, hanno gridato:
Santo subito. E il grido era autenticamente sincero.
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