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Dialettando in rime d’altri tempiNell’attuale era tecnologica, utente, in quanto a comunicazione verbale, dell’inglese del computer e degli slang dei social, cimentarsi, come Antonio Crecchia, sul filo della memoria, a creare componimenti in vernacolo tavennese, può, a primo acchito, suonare anacronistico, dissonante dalla lingua ufficiale, oggi ibrida più di ieri, di forme, lessico, neologismi, che fanno rizzare i capelli ai più autorevoli e intransigenti Accademici della Crusca. Senza rinnegare il dinamismo della crescita, l’apporto sociale, l’incremento delle attività di mercato, l’impianto commerciale, lo scenario globalizzato, con conseguenziali perdite di etnie e di progeniture autoctone, siamo dell’avviso, e con noi lo è anche il Crecchia, che la modernità e la mobilità, perennemente in fieri, della lingua non debba fungere da deterrente per i dialetti, relegati nell’archeologia della parola fossile, soprattutto da quando la televisione ha propalato una lingua minimale e nazional-popolare. Estendendosi all’intera penisola, il corpus loquendi massmediale, se ha trasformato il modus dicendi dei cittadini, ha, in contemporanea, divelto, sradicandola ab imis, la struttura primigenia della comunicazione interpersonale, rappresentata dalle famiglie dialettali regionali. Semenzaio delle nuove lingue, a rivisitare il De Sanctis, dalle origini, il dialetto si antagonizza alla parlata nazionale, in quanto creazione riflessa e senza consapevolezza di popoli anonimi, artefici di espressioni non usurate dal tempo che atrofizza e sclerotizza. Riconoscendo come intramontabili i valori della tradizione e di tutto ciò che, attraverso musica, canto, scrittura tramanda l’oralità contadina, il Crecchia, Dialettando in rime d’altri tempi, si dà a recuperare le fonti del tavennese, vuoi per approfondimento culturale, vuoi per un insorto, prepotente bisogno di ritornare bambino, suggestionato da usi, costumi, superstizione, magia, favolistica delle passate civiltà rurali, che si interfacciavano con adagi, proverbi, scherno, fare sentenzioso. Analfabeti e incolti, i dialettofoni delle generazioni, di cui, al presente, si sono addirittura smarrite le vestigia, fruiscono di una scienza di vita che fa di ogni individuo un essere scaltrito dalla pratica del quotidiano, dalla imprevedibilità e fortuità del contingente, che attizza schermaglie, rivalità, gelosie, battute salaci e mordaci, connaturate nell’uomo dominato da istinti primordiali, che non degenerano in odio venefico perché, smorzati i bollenti ardori della tenzone piazzaiola, i contendenti dimenticano presto le motivazioni della lite e si ritrovano più amici di prima. Più rancorose e astiose le donne, cui il Crecchia consacra uno spaccato preferenziale, una sorta di palcoscenico sul quale si muovono, baruffano,agiscono, gesticolano, si stuzzicano e si sfidano, pungolate dalla impetuosità del carattere e da una dirittura morale bacata o timorata di Dio. Di scena, nella lirica di esordio, il contrasto tra la sèrpa nèra, orgogliosa della sua femminilità accalappiatrice de lu marite e dell’amante, e la santarellina costumata, che sogna nu giuvenitte cresciute e arruvate, / cu nu bèllu mestière già mparate. Donne contro, agli antipodi, la decodificata e la zitella, ciascuna arroccata sulla propria etica, discutibile o apprezzabile. Il palma res è assegnato alla sèrpa nèra: tronfia del successo con il sesso forte, consiglia la giovane di votarsi a san Pasquale Bajelonne, / che le trove nu fèsse da mètte sott’a sa honne. È l’alterco fresco, spontaneo che il Crecchia mutua, presumibilmente, dall’aneddotica contadina, orecchiata, forse, nell’età andata e trasposta, con la maturità, sul sostrato popolare: pur frantumata e inumata, rifiuta di essere totalmente ostracizzata. Tra le due litiganti il bisticcio si snoda senza ipocrisie e senza sovrastrutture pretenziose, bilicato com’è tra visceralità e veemenza dei termini dialettali più incisivi e diretti della lingua cesellata dell’Accademia. All’istintualità, al battibeccare, alla provocazione il riscontro del buon senso e della pace domestica, ravvisabile nella donna che all’uncinetto lavora maglije sciarpe e cappièlle: / pe lu vièrme uante e calzette; / a lu tomble… merlètte / pe tuvaglije lenzuole e cuscine, il tutto ricamato con tanta fantasia che sembra poesia; poesia che sensibilizza il partner a lodare dell’amata li mane d’ore. Lusingata, lei si sente un’artista e na reggenèlle. Aria di distensione, toni pacati, scrittura versale discorsiva, imbastita di un sentimento dolce-amaro di malinconia, quasi sotteso rimpianto, presentificano in Un’artista-reginella un ieri di sanità, profanata dall’azzeramento dei valori, dalla dissoluzione dell’istituto familiare e dei grumi di affetti, che in esso si annidavano e che, oggi, sono ripudiati. Donne! Ancora e sempre donne! Indubbiamente, perché la mia è una lettura al femminile della lirica di Antonio Crecchia, non posso non ascoltare il lamento della mal maritata, che nel matrimonio si illude de truvà nu munne d’ore e, invece, tristemente si avvede di essere la sèrve de la case o della sposa tradita, che vagheggia n’amore che le dà cunzuole / de juorne e de notte sott’a li lenzuole. Nel rivivimento della società tavennese dimenticata, il Crecchia ripropone donne del sottoproletatariato paesano, attaccabrighe o lavoratrici dei campi, spregiudicate o fragili e sottomesse ai genitori fino al sacrificio della monacazione forzata; un’esistenza di reclusa in un monastero, le cui porte la novizia, immolata a Dio, vorrebbe si aprissero per correre mbracce a lu ninne che l’aspètte fore / per portarla sopr’ a lu liètte de l’amore. Popolane d’ogni risma e di incerta dirittura morale; una galleria di creature gravate dai fattori condizionanti di un mondo agreste statico, immobile, pronto ad additare e a condannare alla luce dei comportamenti esterni. Ma dietro le apparenze vibrano le voci e i moti dell’animo, la smania, conculcata nel profondo, del sesso, di cui è vietato parlare e che brucia la carne dell’aspirante sposa: rivendica nu giuvenitte cu la cocce allèrte / che sa fa l’amore sotte a li cupèrte o della vedova: in cerca di consolazione decide che sott’ a sti lenzoule, / nen zo cchiù carnucce da durmì sule. Non manca la mamma che, pe farne spusà la figlije, escogita lo stratagemma del vinu nciarmate. Ma, a riesumare un popolare adagio, come non tutte le ciambelle nascono col buco, così l’espediente della fattura fallisce: il predestinato, il presunto merlo, non cade nella trappola e, pago dello scampato pericolo, sentenzia: Mo la figlije ze la po’ tenè cara cara. Contrasti, anatemi, invettive, anche contro lu re, la reggine e lu huvièrne sono manifestazioni elementari e genuine di un vissuto abraso dalla civiltà della macchina, dall’industrializzazione, dal progresso-regresso, dal consumismo ad oltranza, che ha isterilito le coscienze in tabulae rasae di sentimento, di solidarietà, di afflato umanitario. Da qui l’auspicio di un primitivismo di ritorno, che funzioni da antemurale alla decadenza attuale, alla violenza gratuita, al delinquere generalizzato, al solo sesso senza coinvolgimento emotivo, all’abuso sui minori, alla sequela di parricidi, matricidi, femminicidi. Credo sia questo il messaggio che Antonio Crecchia ha inteso comunicarci con Dialettando in rime d’altri tempi, nel tentativo di evocare e far rivivere un passato che ha ancora lezioni e messaggi da tramandare a quanti oggi si ergono a novelli Prometei o reincarnati maudits, dissacratori dei tempi che furono in nome di una evoinvoluzione che con storia, cronaca, politica, tocca anche certi nostri sistemi linguistici: contrariamente alla coralità del dialetto, invece di unire disuniscono, per la vanagloria di essere appannaggio di un gruppo o di una minoranza. |
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