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“Due partite” di Cristina Comencini
Con regìa e allestimento di
Donato Angelosante Junior, di scena, l’undici, dodici, tredici febbraio ultimo
scorso, al Teatro Area Nord di Piscinola (Napoli), è andata in scena Due partite di
Cristina Comencini.
Protagoniste dei due atti
unici quattro madri e, dopo un lasso di circa quarant’anni, le rispettive
figlie, le une e le altre archetipi di una femminilità irrequieta, insofferente
di un privato troppo routinizzato dal consuetudinario. Il loro star male con sè
stesse e con la loro psiche emerge dal groviglio dei monologhi franti e
tormentati, lucidi eppure schizoidi nella distonia di parole che si disgiungono
e si intersecano su una ideale tavolozza di luci ed ombre, su uno spartito di
sonorità policrome e cromatiche, convergenti, nella trasposizione operata dalla regìa, sulla problematica di fondo: ne penetrano il disagio esistenziale,
solitudine dell’io, incapace di costruzioni, che non siano di matrice e
convenzioni borghesi. Tra queste la partita settimanale del giovedì, rito di
decompressione per fingersi, lontane da partners e figliolette che
giocano, come un dì loro, Alle Signore nella stanza accanto,
un’oasi di evasione e di disalienazione.È proprio durante questo agognato
relax che si desta e si materializza l’alieno dormiente in ciascuna di loro
Basta un’allusione alla casa, alla famiglia e il meccanismo dell’a
ritroso sbobina una cineteca di ricordi acri, pungenti, dolorosi: riesumano
dal labirinto dell’io, a mo’ di seduta psicoanalitica, personaggi ed eventi che
si opinavano dimenticati.
Come ogni seduta
psicoanalitica, la sofferenza della rimozione è indicibile e Donato Angelosante
Junior fa in modo che essa sprigioni dal corpo che langue, piange, si agita,
pulsa, si dispera si contorce nel tentativo frenetico, nell’immaginario di
Sofia, di lavare col pavimento l’animo eroso, passivizzato dai condizionamenti
ineludibili della vita. Sono sequenze in cui il volto, le mani, il corpo si
fanno parola dolente e struggente, linguaggio visivo più affabulante ed
immediato della parola scritta, inchiodata alla fissità in libris.
Estrapolata dal testo per essere azione dialogante, la parola, nell’allestimento
di Donato Angelosante Junior, assume una più suggestiva valenza e coloritura
icastica, grazie anche all’innovativo accompagnamento melico dei monologhi e
alle sospensive pause mimiche che, per brevi attimi, bloccano la finzione
scenica, suscitando nello spettatore brividi di pensosità sulla tematica in
macerante e magmatica ebollizione. Sono spaccati di alta tensione emotiva che
l’intrusione di interludi ironici e flashes pubblicitari a stento
riescono a stemperare, per il dipanare del dramma in incalzante crescendo e per
il prorompere della catarsi con la scena finale( in ribalta, sulle note de La
nevicata del cinquantasette di Mia Martini, voce di una suicida nel salotto
di Beatrice suicida, le madri in abito da sposa) di profonda empatia tra passato
e presente, su un segmento di storia del costume, che di cambiamenti repentini
ne ha visti a profusione. Le spose del Sessanta, accanto alle rispettive
figlie, affette dalla loro stessa irrequietudine ed insofferenza,riconfermano,
nell’ottica del regista, la inestricabile continuità ancestrale del ruolo
primario della donna, mamma dall’infanzia, da quando le vengono regalate
bambole da cullare e da ninnare. È il naturale, viscerale istinto di maternità,
dissacrato dall’esplosione di rabbia di Sofia, che arringa: Noi siamo delle
creature primitive… Se diventiamo moderne, smettiamo di essere
donne… Noi siamo la barbarie del mondo… Noi godiamo a essere
abitate da un alieno, a rinunciare al talento, alla libertà.
Noi vogliamo essere legate a qualcuno anche se ci strozza. Vogliamo
essere di qualcun altro. E non c’è fine, non c’è
rimedio.
Vige, ancora e
sempre, perennizzandosi, lo status quo di una condizione atavica statica
e standardizzata, che attrici impegnate, con il teatro nel DNA, come Daniela De
Giorgio, Demi Licata, Daniela Mancini, Lucilla Minervini, Luisa Novorio, Alba
Salvati, Raffaella Testa, Piera Violante hanno saputo interpretare,
magistralmente dirette da Donato Angelosante Junior, che ha trasformato il
teatro di parola in teatro psicoanalitico, con uno scavo e una scarnificazione
dell’io che si esprime, si sostanzia, si estrinseca attraverso la funzione
parlante e recitante del corpo.
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