|
Francesco d'Episcopo tra poesia e prosaElio Andriuoli e Liliana Porro, intellettuali di ampio e profondo spessore, hanno speso e continuano a spendere al vita al servizio e in funzione della cultura, intesa come piacere dell’anima che, per goderne, si astrae dalle paturnie del quotidiano per navigare un «altrove», dove oggettivizzano le inquietudini dell’attuale contesto, precipitato nel baratro di una barbarie, che non esito a etichettare cannibalesca, safari di iene e sciacalli, in cui il delirio di onnipotenza ha trasformato, a mo’ di mutazione genetica, l’umano in inumano o, se più aggrada, in disumano. I coniugi Andriuoli-Porro, pur essendo calati nell’odierna temperie di sovvertimenti, che dall’est europeo dilatano al medio Oriente, senza rinnegare il coacervo delle ambasce collettive, riescono a ritagliarsi segmenti di tempo per investigare nelle spire della cultura e dei suoi rappresentanti, noti e meno noti. Un rifugio, una evasione, che possono essere interpretati come terapia di temporanea fuga dalla realtà col beneficio di re-introdursi in essa più motivati e, con un bagaglio di informazioni affatto sterili, perché l’approccio o l’incontro figurato con gli autori, qualunque sia il loro orientamento socio-storico-politico, suscita pensosità, riflessioni, catarsi, che non avverte, a parlar per metafora, “lo stupido ottentotto” né tanto meno l’editore di cassetta: assatanato dalla morale benthaniana dell’utile,[1] pubblica, a tutto campo, testi che, attraverso il sostenuto battage pubblicitario di mass media e televisione, garantiscono vendite e circolazione su larga scala.
Con tali presupposti i summenzionati Elio Andriuoli e Liliana Porro hanno dato alle stampe Francesco D’Episcopo tra poesia e prosa, [2] monografia sul docente emerito dell’Ateneo federiciano, di recente accolto nell’Olimpo dei poeti con un corteggio di sillogi, sottolinea la Porro, autrice della prima sezione del saggio, antiaccademiche come quel Bastava / avere un taccuino / dove accogliere la vita,[3]combinazione, a mio avviso, di parole incatenate in guisa sintagmatica per esprimere l’intensità della vita, breve soffio o sradicante folata di vento, sulla pagina bianca di un taccuino con l’uso consueto di Una matita[4], poesia analoga alla precedente Mi basta poco: / un foglio, una matita, / magari un cancellino, / per scrivere la mia vita. Con il taccuino, la matita, il cancellino non può mancare il foglio bianco, per il poeta la mia sindone / dove imprimo il volto / dei miei sogni, / dei miei desideri segreti.[5] Liriche epigrammatiche, le definisce la Porro, e tale è anche: Bisogna forse / accontentarsi / di ciò che si ha, / di ciò che si è. / Conviene, forse, / non tendere oltre / l’arco della vita: / potrebbe spezzarsi.[6] Versi semplici, asciutti, con scelte lessicali pregnanti e di forte impatto meditativo, in quanto accontentarsi è prerogativa del saggio: ha la consapevolezza che il segreto del vivere bene si annidi nell’appagarsi del poco, nella moderazione che evoca l’aurea mediocritas, di oraziana memoria, cui fa riferimento la Porro: con felice intuizione intercetta un quid che avvicina il poeta di Venosa a D’Episcopo, ac-colto, almeno ufficialmente, tra le Muse, nell’età in cui le passioni dissolvono nelle ombre del crepuscolo e il bioritmo del nuovo carpe diem non è di follie e sregolatezze, ma di serenità, pacatezza, che fa assaporare la vita / lentamente,/ trattenerla dentro,[7] comparabile, alla luce della selezione effettuata da Liliana, a una seconda poesia che replica il titolo Vecchiaia, dove si legge: … ogni cosa / ha un altro sapore, / un altro sentore, / meno vivo, / ma più vigile.[8] Liriche omologhe per affinità di contenuti e per tessuto stilistico: si infiltrano nelle predilezioni di D’Episcopo che in Ripetizioni, senza tema di sdrucciolare nella ripetitività, dichiara: Le mie poesie / amano ripetere, / a volte se stesse, / a volte titoli, / all’interno della stessa silloge,[9] per stimolare il lettore poco avveduto e distratto dalla piazza virtuale, a capire e a condividere fondanti problematiche esistenziali. Dalla panoramica in oggetto traspare che nelle varie raccolte monitorate dalla Porro, ma soprattutto in Vita, le elucubrazioni sull’esistenza sposano, quasi binomio inscindibile, quelle sulla scrittura. Senza l’impegno della scrittura, critica o creativa, senza le sue pubblicazioni, per modestia, affidate a piccole case editrici; senza essere il Mentore di anime inquiete e insoddisfatte[10] di autori misconosciuti, il D’Episcopo sarebbe come una nota distonica. La scrittura per lui è valvola di sfogo; sole che squarcia qualche nuvola grigia; mezzo e strumento per esistere oltre il breve passeggio sulla sceneggiata della vita. Non a caso, la Porro, nella sua accurata analisi, cita: Scrivere per esistere / resistere, / oltre lo spazio [breve del] tempo / che ci è concesso,[11] in cui il ricorso alle parentesi quadre, pur ampliandolo, non disturba la musicalità né compromette la concisione del verso. Poche le poesie passate, finora, in rassegna, ma il termine oltre: Io esco / ed entro / da me / oltre me,[12] sta a significare il bisogno, umano e terreno, di lasciare una scintilla per alimentare la fiamma dei ricordi, coi quali si convive e si sconfigge la morte. Con scrivere per esistere / resistere, / oltre lo spazio [ breve del] tempo, il D’Episcopo, ne sono certa, ha inteso trasmettere un monito, meglio un incitamento a non abbandonare la via della scrittura a poeti e a scrittori emergenti. … perché continui a scrivere e a pubblicare,[13]oppure … con l’augurio di pubblicare sempre di più:[14]così il Mentore per antonomasia sollecita anche me a non demordere quando, amareggiata per la sottocultura di improvvisati stampatori di libri, decido di tenere, per tempo indeterminato, ad ammuffire in un cassetto, le mie sudate carte. La motivazione? Sono stata, sono e sarò sempre, per averne fatta esperienza negativa, in rotta con le case editrici, in specie napoletane. E detto l’ho perché [15] tanti pseudo editori abbiano, un giorno, a dolersene. Felicità del cuore e della mente, captata dall’autrice, coltivare il sapere e trovare rasserenamento nel “libro” col quale il D’Episcopo ha un rapporto amicale, che suonerebbe riduttivo se non si coniugasse con la sensazione di gradevolezza tattile, che prova a palpare la filigrana della carta stampata e a inalarne il profumo. Di qui l’anelito a vivere nel / col libro, come affiora da Libraccio. Non tragga in inganno il dispregiativo: rimanda a qualche attimo debordante, rientrato all’istante, senza inficiare la placidità atarassica del poeta, che subito è nella condizione psicologica di esternare: la… voglia di durare, / dentro un libro, / oltre la vita.[16] Larvato senso di finitudine bypassato da quell’oltre, reiterato e che è brama di continuare a esistere attraverso la parola vissuta, che nella / con la scrittura, mi si perdoni il riecheggiamento dantesco, si infutura come noi infuturiamo i cari che più non son qui nei nostri flashback. Teologia laica dell’immortalità: si consegue con / nei libri: fanno compagnia /e… svelano i segreti della vita, [17] si legge in Senza, titolo disadorno, conforme allo stile del poeta: come osserva la Porro, si svincola dalle blindature delle regole codificate della prosodia e della metrica per essere libero e rispondente ad un’esigenza naturale, [quasi biologica ], finalizzata, come opportunamente sostiene l’autrice, a condensare un lungo discorso in un breve giro di parole con il supporto del lessico scevro di bizantinismi e di fronzoli baroccheggianti. È l’ossatura della silloge Sulla soglia del domani, che tocca in modo più incisivo i temi dell’affettività familiare, di cui i figli sono l’umanizzazione. Figli,/ mi basta essere / nei vostri distratti pensieri / nel vostro attento cuore,[18] dove tra distratti e attento non c’è l’accostamento ossimorico dei due termini contrastanti, che si ravvisa nel verso Distrattamente attento di Distrazione, screening sulla imprevedibilità della vita vissuta…per caso, / aspettando che gli venga incontro.[19] Distratti e attenti sono due vocaboli ricorrenti nel messaggio versale di D’Episcopo. Non a torto la Porro si sofferma su: Essere distratti è, / in qualche modo, / essere più attenti / degli altri,[20] apparente antinomia, gioco di parole, che dà la cifra di una poliedricità culturale che transita dalle considerazioni sulla vecchiaia all’affannoso correre senza meta che spersonalizza, svilisce e che Liliana riporta: Corrono un po’ tutti, / non hanno tempo / per essere uomini,[21 ]fotografia dei nostri giorni frenetici di digitazione, freddo sistema di comunicazione a distanza, che sopprime l’attività della parola, afasia degli esseri inferiori, sprovvisti del bene dell’anima che ci rende unici e diversi,/ degni di un futuro / che tutto intero ci appartiene.[22] Sono ben sette le sillogi pubblicate da D’Episcopo in breve arco di tempo, rigorosamente passate al vaglio dalla Porro, e tutte incardinate sulla filosofia della vita e dell’uomo tranquillo, pacifico, in sintesi, del Clandestino, come egli stesso ama denominarsi. Ma chi è il Clandestino? Oltre a due brevi opere in prosa, che potremmo definire prosimetri, scrive Maria Gargotta nella prefazione intitolata Un riconoscimento dovuto, il Clandestino è colui che sceglie di vivere appartato, è, esplicita Liliana nella sua circostanziata indagine, l’individuo che evita di mettersi in mostra, essendo felice di vivere appartato, un po’ nascostamente, senza farsi troppo notare.[23] Definizione calzante: rispecchia il modus vivendi del poeta: evita, meglio scansa il chiacchiericcio, / inutile e prolungato, / di chi non ha niente / da dire, da fare,[24] per vivere la quotidianità senza sbalzi umorali, senza irascibilità e collericità. Il segreto? L’imperturbabilità. Gli consente di fare, si accetti il bisticcio cacofonico, buon uso del buon senso, della prudenza, della tolleranza, ostracizzate dalla confusione del nostro tempo di precarietà, dove ragliano politici e falsi profeti.[25] Sono le situazioni private e gli accadimenti contingenziali che danno voce alla poesia, nata, secondo il D’Episcopo , che trova d’accordo anche Liliana Porro, che la ha inserita nel suo lavoro certosino, da un’ emozione che fa trovare al poeta, quasi istintivamente, le parole giuste per esprimerla: si tratta cioè di un’emozione che si fa parola [26] e, in quanto parola, sensibile al bello, ne evoca gli aspetti suggestivi, quali la visione del cielo, l’esultanza della gioventù, il presentificatasi nella ricordanza di un antico amore: Viviamo, mia cara, / come Catullo e Lesbia, / sapendo che non tutto dura,[27] ariosa apertura alare in quel Viviamo e in un carpe diem in simbiosi con un’ idea di fugacità e labilità, che Liliana enuclea da Fines terrae, dove il pensiero della morte è espresso con la metafora del treno e del bus che, mi porteranno, immagina il D’Episcopo, ai confini della terra; / di lì mi imbarcherò per solcare l’Oceano / e non tornerò più.[28] Se i coniugi Andriuoli-Porro si fossero occupati solo di D’Episcopo poeta, avremmo avuto una chiave di lettura falsata, se non unilaterale, dell’intellettuale e dell’uomo, fuor di metafora, di multiforme ingegno, come attestano i contributi consegnati alla sfera della saggistica in unicum con le prose ispirate alla fenomenologia del costume e del vissuto, sostanziate di quadri e di scene afferenti al quotidiano e al familiare. Da tale arguta bivalenza muove Elio Andriuoli, che apre il suo spazio critico con la seguente illuminata Premessa, nella quale riconosce che il D’Episcopo con i suoi eleganti volumetti… ci dà una ulteriore prova delle sue indubbie virtù di sapido artista, capace di donarci pagine di acuta sapienza e raffinata leggerezza.[29] Sapienza e leggerezza sono, infatti, i pregi che l’Andriuoli discerne nella prosa d’arte depiscopiana, esente da orpelli e sofisticazioni che lederebbero la scienza di vita interiorizzata e trasposta nelle lettere con naturale levità, come si enuclea dal simpatico elenco delle peculiarità epistolari, enumerate con un abbozzo di sorriso, che non è ironia, ma bonomia, mitezza e affabilità di carattere. L’Andriuoli, con il garbo e la signorilità del critico equanime, della lettera “scritta a mano” rubrica i molteplici passaggi della composizione: bella grafia, stilografica, carta di Amalfi, francobollo, spedizione. Ma, oggi, nella corrente età di velocizzazione, chi si cimenta a scrivere una lettera a mano e con la stilografica? chi fa il giro dei tabacchi per reperire un francobollo? dove recuperare la carta di Amalfi? chi si mette in fila all’ufficio postale per essere certo della spedizione? È un sistema di interrelazioni, tra mail, pec, sms, obsoleto, anche se, con un grumo di nostalgia, rinvia ai carteggi epistolari di un dì, scrigni di confidenze, segreti, sofferenze per la lontananza del destinatario / destinataria. Forse, considerando questi trascorsi, per D’Episcopo la lettera “scritta a mano” è quella del cuore. E dal momento che il cuore , nell’abiura delle emozioni, pare sia solo un muscolo involontario, chiude il prezioso volumetto con la seguente esortazione che l’Andriuoli ha ritenuto opportuno frapporre nel suo itinerario esegetico; Scrivete, dunque, le vostre lettere possibilmente a mano, con l’inchiostro indelebile del cuore, perché restino a testimoniare il vostro amore per la vita, che solo la scrittura può fermare per sempre.[30] Tale, la conclusione di un intellettuale che, pur essendo figlio del suo tempo, è incapace di ignorare e di rottamare le pratiche consuetudinarie del passato. Ma, Francesco D’Episcopo, mi corre obbligo rammentarlo, non è l’unico e solitario nostalgico della scrittura a mano. Qualche domenica fa, mi è capitato di ascoltare sull’argomento, durante la trasmissione Uno Mattina in famiglia, un intervento del professore Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, e di Barbara Calzolari, Master Penman dell’International Assiciation Handwriting. Entrambi, nella manciata di minuti a loro disposizione, hanno interloquito sulla necessità della scrittura a mano, chiara, immediata, diretta e in forma leggibile, per rendere efficace la comunicazione. L’illustre cattedratico ha addirittura parlato di un Galateo della scrittura, imprescindibile per educare la mano al disegno e al tratto grafico. Già, qualche anno addietro, con la petizione Promuoviamo la bellezza della scrittura a mano, indirizzata a Patrizio Bianchi, allora Ministro della Pubblica Istruzione, Carlo Di Clemente rimarcava sul tema tanto dibattuto, avallando che lo scrivere a mano, specialmente in corsivo, produce un enorme beneficio per lo sviluppo cognitivo del bambino, al contrario dei tanto, non a torto, deprecati banchi a rotelle, per le loro ridotte dimensioni, progettati solo per tablet e computer. A leggere il volumetto in predicato, il lettore sprovveduto potrebbe tacciare il D’Episcopo di anacronismo. Altre e profonde le ragioni, e si connettono alla diversione di cui sopra, che lo sollecitano a tessere l’elogio della lettera “scritta amano” e tutte hanno per matrice la reificazione del sentimento, surrogato dalle diavolerie dei social: hanno alienato l’uomo con la seduzione di chatte, manipolate da occulti imponitori e da mistificatori di persona. Senza disconoscere l’avanzato progresso tecnologico, il D’Episcopo nutre idiosincrasia per questi strumenti che, usati a-razionalmente e indiscriminatamente, hanno segnato la scomparsa di consuetudini invalse a vantaggio di una omologazione, dominata da afasia e solitudine individuale. Questo mondo di larve, di non parola, di volontaria absence è inattingibile per D’Episcopo, che agli snaturamenti virtuali antepone la spontaneità, la spigliatezza, l’impulsività di individui reali, quali i napoletani. Per lui parlare con un napoletano… in un bus o in un tram, significa ritrovare la vocazione al pensiero, che si fa spesso poesia, in parole, apparentemente buttate lì per caso, ma che rivelano invece una saggezza antica, un pensiero poetante, che si rinnova occasionalmente ogni giorno, conservando una sua patina eterna.[31] Ennesima dimostrazione che, senza essere napoletano autoctono, D’Episcopo ha introiettato, attraverso la figura del padre, homo neapolitanus, squisitamente fantasioso e sentimentalmente metafisico,[32] il focus di una napoletanità, specifica, non solo del sottoproletariato, ma dell’intero popolo, che per secoli ha sofferto ed è risorto dalle sofferenze, grazie alla filosofia dell’ arrangiarsi. Il D’Episcopo è conquistato da questa gente e dalle sue sane abitudini che, tratteggiate con brio e lepidezza, hanno fatto la fortuna dei suoi tascabili, di poco spessore cartaceo e tali da essere inalveati in una tasca, senza appesantirla. Oltre tutto, asserisce l’Andriuoli, di gradevole letture per il culto del mangiare in prestigiose trattorie[33]o in ristoranti con veduta panoramica; per il piacere di assistere a proiezioni di films western o di simulare [con il fischio] tutti gli accordi di una canzone, compresa l’orchestra di sottofondo,[34]assicurando che il fischio sa risvegliare un mondo immerso nella serietà e nella tristezza del vivere.[35] Sono episodi di cronaca familiare, menzionati dall’Andriuoli con il suo stile soft; episodi in cui tutti, sul filo della memoria, ritroviamo quel tempo irrecuperabilmente perduto e che vorremmo rivivere e ri-creare, pur consapevoli che, nella corsa ineluttabile del divenire, l’indietro tutta non è contemplato. Episodi di cronaca familiare scolpiti in D’Episcopo: la sua casa… sempre piena di gente, di parenti, amici, ma anche conoscenti che… amavano praticare quella civile conversazione che animava e arricchiva la loro vita;[36] l’eredità paterna del parlare, del comunicare, del raccontare, del vivere la vita come una quotidiana opera d’arte;[37] costumanze antiche che passano verticalmente dal genitore al figlio, amabile conversatore come pochi, oggi, in cui predomina l’iconcina illustrata dell’emoticon silente. Se in D’Episcopo è stanziale un luogo tramandatogli dal padre, questo luogo, insieme con i traslochi facili da una dimora all’altra, è Napoli… dai riflessi ammiccanti e maliosi, Napoli che si afferma e contraddice con sontuosa e superficiale baldanza; Napoli che ama farsi attraversare solo da chi la conosce e la possiede ogni giorno come un’amante fedelmente infedele,[38] sequenze emblematiche interpolate da Elio Andriuoli nel suo particolareggiato excursus critico, per offrire al lettore la valenza dell’innamorato di Napoli, megalopoli dai mille volti, raffigurati da D’Episcopo con il parossismo degli ossimori: senza ombra di dubbio si addicono a una città, da lui coniata “donna” e, come donna, bizzarra, capricciosa, volubile, amante sfuggente e renitente ai cappi di qualsivoglia regolarità. Con rischio tutto personale, per la proprietà transitiva, azzardo che D’Episcopo sia Napoli e Napoli sia D’Episcopo, legato ai quartieri, alle strade, ai vicoli, alle vie, in specie alla sua via Mezzocannone, dove si è creato un caldo cantuccio, profumato di caffè e di altri stordenti sapori,[39]ospite, con colleghi e scrittori in ascesa, di qualche bar che sopravvive alla metamorfosi dei cambiamenti radicali, che non tangono mai totalmente la fisionomia della città, dove nulla è prevedibile e regolare,[40] perché tutto è orchestrato da una filosofia empirica: senza adire le teorizzazioni dei massimi sistemi, si può racchiudere nel cavo di una mano. Per chi non ne avesse sentore è la filosofia, tutta partenopea, dello storto va, deritta véne, strategia di sopravvivenza esperita giorno per giorno senza rovelli alchemici. Forse, proprio questo vivere di espedienti e di improvvisazioni, mutuati dalla maschera di Pulcinella e dal lazzaro, uscito fisicamente indenne dalle varie dominazioni, ha attirato il D’Episcopo. Amante fedelmente fedele, empatizza con una quotidianità dove, malgrado il moltiplicarsi dell’inaspettato, si respira quel clima di libertà e di distensione, esclusivo di Napoli, della sua storia e della sua cronaca. Sulla napoletanità, metabolizzata da D’Episcopo nelle sue prismatiche sfaccettature, Elio Andriuoli, con l’etica e la deontologia del critico di professione, ha focalizzato la sua ricerca, sbozzando dello scrittore un ritratto veritiero, senza scivolare nel panegirico o nell’adulazione fuorvianti. È indubbio che l’operazione svolta da Elio Andriuoli e Liliana Porro, oltre ad essere, come scrive Maria Gargotta nella Prefazione, un riconoscimento dovuto, è un valore aggiunto alla fama e alla notorietà del docente emerito, del critico, del poeta, in sintesi, del letterato, di cui gli Andriuoli hanno cesellato personalità e apporti culturali con quell’intelletto d’amore che li distingue e a cui bisogna esprimere un sentito, caloroso ringraziamento. Note [1] A, G. Pessina, Invectiva in editores, La luce trasgressiva, Città del Sole, Reggio Calabria 2007, p. 154. [2] E. Andriuoli- L. Porro, Francesco D’Episcopo tra poesia e prosa, Grause dizioni, Napoli 2022 3 Ivi, Bastava, p. 23. [4] Ivi, Una matita, p. 31. [5] Ivi, Sogni di carta, p 40. [6] Ivi, Vecchiaia, p. 25. [7] Ivi, Lentezza, p. 41. [8] Ivi, Vecchiaia, p. 41. .[9]Ivi, Ripetizioni, p. 40 [10] Ivi, Poeti, p .40. [11] Ivi, Scrittura, p. 24. [12] Ivi, [13]Dedica di Francesco D’Episcopo, in “Salerno rima d’eterno” Alfonso Gatto poeta e prosatore, Edizioni “Il Sapere”, Salerno 2000. [14] Dedica di Francesco D’Episcopo, in L’elogio del professore, Polidoro editore, Napoli 2014. 15 D. Alighieri, Inferno, a cura di G. Giacalone, A. Signorelli, Roma 1998, canto XXIV, p. 469, v. 151. 16 E. Andriuoli – L Porro, Francesco D’Episcopo tra poesia e prosa, cit; Libraccio, p. 24. 17 Ivi, Senza, p. 23. [18] Ivi, Figli, p. 28. [19] Ivi, Distrazione, p. 34. 20 Ivi, Attenzione p.35. 21 Ivi, Automi, p. 35. 22 Ivi, Sogni di carta, p. 40. 23 Ivi, p. 49. 24 Ivi, Chiacchiericcio, p. 64. 25 ivi, Asini, p. 45. 26 Ivi, Introduzione, p. 19. 27 Ivi, Viviamo, p. 43. 28 Ivi, [29] Ivi, p. 73. [30] Ivi, p. 81. [31]Ivi, p. 93. [32] Ivi, p. 78. [33]Ivi, p. 76. [34]Ivi, p. 77. [35]Ivi. [36] Ivi, p. 93. [37] Ivi. [38] Ivi, p. 92. [39] Ivi, p. 88. [40] Ivi, p. 83. |
|
|