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La vita e la morte
La vita prematuramente falciata,
la materia e lo spirito, il finito e l’infinito, il dolore e l’angoscia, nella
silloge di Tito Cauchi Francesco mio figlio, si compongono
nell’esternazione di una disperazione cocente, suscitata dalla fine tragica di
un adolescente,vittima di una violenza perpetrata per vanagloria e divertimento.
Il che è la negazione e la profanazione della vita, tanto più grave se gli
artefici sono balordi, che si realizzano nella demenzialità del branco,
tabula rasa di intelletto e di amore. La lirica del Cauchi, dai toni
saggiamente equilibrati, si configura, nella fattispecie, come lo strumento più
idoneo per veicolare un dolore immane, una lacrima di mondo su un dramma che, da
privato, dilata in dramma di una generazione ottusa, moralmente bacata, e di una
società in ascensionale fase di decadenza e di pervasività. Il descrittivismo,
delicato e misurato del Cauchi, coglie e rappresenta i postumi del luttuoso
evento con l’obiettività di una scrittura in versi che si sofferma ora
sull’adolescente, ora sui genitori, cui la propria creatura viene estirpata e
sacrificata sull’altare, pagano e sacrilego, di un bullismo gratuito e fine a sé
stesso.
La psiche sconvolta, la mente
deragliata, la madre e il padre di Francesco, trafitti nella loro stessa carne,
vivono di ricordi, di passato che si fa presente e che umanizza del figlio gli
oggetti più cari. Con essi, metamorfizzati in medium ed anima pulsante, i
genitori vivono di Francesco e con Francesco, lo vedono seduto fare i
compiti o accarezzare il pianoforte. Scorre in flashbeack il
quotidiano, nell’avvicendarsi meccanico delle albe e dei tramonti, delle notti
e dei giorni, della primavera e dell’autunno, dell’estate e dell’inverno in
dicotomica disparità con l’immobilismo sovrumano della casa. Lì la vita si è
fermata, esangue, nella cortina di solitudine del padre che, dalla impalpabilità
immateriale dell’adolescente, trae stimolo per non soccombere. Dolore
incommensurabile. Di esso, in termine di unità di grandezza, è impossibile
stimarne l’entità, soprattutto perché la nera signora ha falciato, per mano
assassina, di un giardino al risveglio, le tenere erbe e i fragili virgulti in
procinto di schiudersi in gemme fiorifere. Correlativo il momento delicatissimo
dell’adultizzazione, stadio psicologicamente ed emotivamente ibrido, in cui non
si è più fanciullo, non si è ancora giovane. Del suo fiore in boccio, ogni
figura parentale, smaterializzata in ombra, silente ma vigile ed attenta, spia
le inclinazioni, la tendenza all’introversione od estroversione del carattere,
le frequentazioni, le illusioni e le delusioni, le esaltazioni e le
frustrazioni che si manifestano via via che dalla crisalide sbozzola l’uomo o la
donna. Ai genitori di Francesco, invece, è accordato troppo poco tempo per
rendersi conto della metamorfosi del figlio. Al pari al ragazzo sfugge come
meteora la stagione in cui scrive nell’aria… il nome della fanciulla che
gli fa sbalzare il cuore dal petto solo per sussurrarle my lovy.
Impercettibilità del panta rei!
Nessun sentore, nessun segno premonitore
è intercettato, sia pure a livello inconscio, dalla madre. Ma, una volta colpita
da sì grande sventura, può una madre sopravvivere allo strazio di una tale
perdita? Una madre è una madre, ieri come oggi, come domani, come da sempre e
per sempre. Sulla inconfutabilità di questa verità incontrovertibile il Cauchi
ritrae la costernazione della madre di Francesco nel momento in cui, con la
velocità del vento, la notizia
ferale le giunge sull’ala del passaparola. La prima spontanea reazione è
sicuramente si sbagliano,
mentre già le sanguina il cuore dilacerato dalla stessa spada che trafisse Maria, cui nella lauda
di Jacopone il nunzio comunica lo tuo figliolo è priso. Non c’è
distanza nella immensa sfera della lontananza tra le due donne. Al
Com’essere porria della Vergine fa eco il sicuramente si
sbagliano della madre di Francesco. Entrambi i passi, pur nella diversità
dello stile
e dell’ordito
poetico, racchiudono la tensione tragica del dolore universale e trascendente,
al di là delle categorie spaziali e temporali.
Un dolore quello della madre
sul figlio morto non circoscritto da confini o da indicatori geografici, se
dalla Terra Santa al Lazio si esprime con lo stesso identico struggimento.
Dolore senza limitazione di tempo e tanto più disperativo quanto più viene
iniettato non a stille ma scagliato come una catapulta. Dolore ineguagliabile,
assorbito ed interiorizzato con una carica tensiva che fa della silloge del
Cauchi una rappresentazione tragica; una tragedia che apre una finestra sul
cainismo degli uomini, purtroppo e ancora « cosi/ con due gambe »che
fanno tanta pena…». Il tutto senza grido protestatario o velleità di
denuncia, ma solo per non dimenticare e per, come scrive il Cauchi nella
prefazione, onorare la memoria degli assenti mostrando il coraggio di non
sopperire al loro vuoto, recriminando chi ce ne abbia privato. | |
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Recensione |
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