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I cancelli del tempo
Sull’obbedienza cieca e assoluta della donna all’uomo, nell’arco dei secoli, sono state vergate pagine e pagine di letteratura, istantanee della società borghese, agiata, costituita dal pater familias, banchiere o facoltoso imprenditore, convolato a nozze con una vergine illibata, con buona dote, annullata nella volontà del marito come, prima del matrimonio, lo era stata in quella del genitore. Che aveva provveduto, senza rispetto dei sentimenti della figlia, ad accasarla con un pretendente posizionato e di prestigio economico. Una giovane formata, meglio plasmata, secondo i crismi del tempo: bon ton, ricamo, musica, letture per signorine: le riempivano la testa di fantasticherie, rimanendo, a menzionare Liala, fuori della camera da letto.
È la sorte statica, inamovibile delle signorine di lignaggio, di cui Maria Gargotta ne I cancelli del tempo ci fornisce un’ampia rappresentazione, introducendoci nel vissuto di nonna Apollonia, la cui personalità forte, icastica, iperdeterminata la scrittrice tratteggia con sincerità e naturalezza senza scivolare nei luoghi comuni della retorica e del sentimentalismo vieto: avrebbero falsato tempra e tenacia di una donna giovanissima, sostenitrice di una battaglia che, all’inizio del Novecento, rivendica dignità e aspirazione legittima alla parità con l’altro sesso, nella fattispecie padre e marito “padroni.” Malgrado clima e vicende rimandino indietro di oltre un secolo, quello della Gargotta non è appendice di un romanzo tardo Ottocento né calco di un Romanticismo esasperato alla Brontë con il vento che ulula e la tempesta che infuria sulle rocce rosse, dove le anime di entrambi gli amanti vagano e finalmente si uniscono. Nella Gargotta la scintilla della scrittura è attizzata dal ritrovamento singolare, ma fortuito, dei quaderni di Apollonia, un circostanziato compendio di vita, popolato di figure che si materializzano per non appassire tra i fiori di loto dell’oblio. Esse invocano la riviviscenza dall’abisso del caduco, del finito, non gradito neanche a loro che hanno lasciato la sfera del transeunte per vivere un’altra dimensione. La Gargotta, che non è alla sua prima esperienza narrativa, in cotesta nuova fatica, sequenzia impressioni e emozioni con tanta intensa affabulazione che, in qualche passo di particolare suggestione lirica, ho vissuto e pianto con Apollonia: mi ha tuffata in un remoto che, in merito al pianeta “donna” e al suo condizionamento socio-civile e politico, ha siglato anni di infelicità permanente. Esempio emblematico ne I cancelli del tempo Giulia, inquieta, fanatica del ballo: le consente, quando la silhouette non è deformata da gravidanza indesiderata di partecipare con gli amici alle feste della Tornino fin de siecle, miniaturizzata Ville Lumière. La Torino di sfondo alla prima sezione del romanzo della Gargotta è quella di Gozzano e della Guglielminetti; delle passeggiate al Valentino; della Fiat e de La Stampa, dei banchieri, del cinematografo e dei nascenti movimenti sindacali. Uno svecchiamento di facciata: mistifica stanco immobilismo e falsi principi, trasmessi dagli anziani, quali inalienabili Tavole delle Leggi. Codici stereotipati, interiorizzati da Alberto Demedici, non condivisi dalle figlie Giuseppina e Apollonia: avvertono il vento del cambiamento nelle donne che, in bicicletta o in tranvai, ogni mattina, raggiungono la fabbrica o l’ufficio; combattono per migliorare la loro piattaforma salariale; rivendicano il diritto di voto; anelano a equiparare il loro stato giuridico e politico a quello dell’uomo. La svolta è ambiziosa per le due sorelle: permetterebbe loro, signorine di ceto altolocato, di uscire dal letargo domestico e di realizzarsi nel settore impiegatizio, valorizzando la propria identità e dimostrando di avere una personalità fattiva, dinamica, versatile, abile a destreggiarsi nelle congiunture del quotidiano. In medias res ne I cancelli del tempo squarciano nuovi orizzonti con il trasferimento dell’attività orafa a Napoli, dove Alberto incontra quello che reputa il grande amore in Mariuccia: gli si attacca come cozza allo scoglio, seducendolo con il savoir faire delle donne di Napoli, vulcaniche come la montagna che ne sovrasta il panorama. A Napoli il mutamento è radicale. Lo testificano i quaderni dalla foderina nera, utilizzati dalla Gargotta come fonte e stimolo per tracciare il cammino degli antenati dal settentrione al mezzogiorno d’Italia. Una discesa al Sud, nella città più caciarosa dell’universo: Napoli, terra di fuoco e di feste, antidoto alla miseria ancestrale dei ceti indigenti. Napoli fagocita Apollonia; la inalvea nel suo grembo materno; ne fa una propria creatura; la napoletanizza, senza rimozionare le radici di quella Torino, che ha visto schiudere la crisalide in farfalla. Napoli le apre le braccia protettive e avvolgenti; le si dispiega nella fantasmagorica fisionomia dei borghi, dei quartieri, dei bassi, delle strade signorili; la soggioga con la sua storia millenaria; con il suo folklore, che le infonde levità e allegria; con l’incanto del mare di Santa Lucia; con il fascino della collina di Posillipo. A Napoli, sciolta dagli schemi del tacere e dell’obbedire, la giovane si sente cittadina del mondo; a Napoli la neo-sposa (espulsa dalla casa paterna e privata del diritto di eredità, al compimento del diciottesimo compleanno ottiene da Alberto licenza di contrarre matrimonio con Francesco), esperisce le sue qualità gestionali nel ménage familiare, economicamente prospero, perché la bottega orafa del marito rende bene e non avrebbe conosciuto periodi di stagnazione, se gli effetti della grande guerra non si fossero rivelati deleteri per il medio e piccolo artigianato. Ancora una volta, dai famosi quaderni, la Gargotta, sebbene gli spaccati storico-politici siano distanziati in zona d’ombra, coglie il disagio e lo scontento, seguiti alla firma dei trattati di pace. Si ripresentano i problemi annosi: disoccupazione, mancata sistemazione di reduci e invalidi, stasi nella produzione industriale. Insofferenze e delusioni degenerano in tumulti di piazza e in scioperi, che slittano in atti di violenza, preludio alla violenza che sconvolgerà le traballanti Istituzioni con la presa di potere di Mussolini. Col fascismo al Governo le strade sono infestate di squadristi, nei quali vengono inglobati guappi e camorristi: continuano a delinquere col salvacondotto del Fascio e del manganello, sostituto del coltello a serramanico. Brutti ceffi, arroganti e prevaricatori, hanno mandato di controllare e perseguitare i dissidenti, facilmente individuabili in chi si è rifiutato di iscriversi al partito e di accoglierne, quale segno di appartenenza, la tessera. Francesco è tra costoro. Un giorno nella bottega in Via Gennaro Serra riceve la visita di due camicie nere. Si impossessano di gioielli a portata di mano e, senza mezzi termini, appongono i sigilli al negozio con conseguenziale interruzione della produzione. Come reagisce Apollonia? Ancora una volta parlano i quaderni: da essi emerge una donna che, senza mai crogiolarsi nel vittimismo sterile; senza cedere a pose tragiche o drammatiche della disperazione, nottetempo, con l’operaio di Francesco, si conduce al negozio, elude la vigilanza di due militi distratti, viola i sigilli, entra, riempie una borsa di preziosi, riappone i sigilli, torna a casa con un bottino che lascia il marito basito. Grazie a lei, quell’oro sarà l’assicurazione del loro futuro. Un futuro che non si prospetta fiorente per la scelta politica di Francesco, per il tracollo economico, che lo obbliga a traslocare da Chiaia al Corso Garibaldi, dove recupera un posto di portiere. Come sempre accade, la storia privata dei singoli si intreccia con quella che la Gargotta, a ragione, definisce «la grande Storia»: essa estrae ogni individuo dal proprio guscio e lo immette nella temperie collettiva, che incide sulle coscienze e sull’assetto sociale. Nello specifico lo scoppio della seconda guerra mondiale: le corse ai rifugi, i bombardamenti a tappeto, i cannoneggiamenti, le deportazioni, i rastrellamenti, i saccheggi, il razionamento alimentare aprono scenari ai quali il mondo non è preparato. La catabasi del conflitto entra e si incunea nella tragedia privata di Apollonia, affranta per la morte di Francesco. La donna è prostrata: il dolore cocente è quello, come lei stessa annota in una delle ultime pagine dei quaderni-diari, di una donna “vuota”; una donna che ha molto amato e molto sofferto, conservando integra la saldezza dei propri principi, esposti a libecciate, che sradicano alberi, scoperchiano tetti, trascinano nella bufera cose e persone, quali flessili fuscelli. Ma Apollonia non è un fuscello preda delle forze della natura e del contingente. Dai quaderni, con sorpresa, forse, della stessa Gargotta, che della nonna ricorda coccole e carezze, erompe l’icona di una donna-roccia; una donna-fenice, pronta a rinascere dalle proprie ceneri. Perseverante, fiera, decisa, camaleontica, con duttilità di pensiero e di azione, sa adattarsi alle circostanze e piegarle alle sue esigenze e a quelle dei suoi cari, senza rinnegare sé stessa e le proprie idee. Non saprei aggiungere altro su Apollonia, per non cadere in qualche diversione, che potrebbe suonare disturbante. In sintesi, la Gargotta, con la sua scrittura accattivante, con la sua sensibilità di donna e di scrittrice, mi ha trascinata dentro la vita di Apollonia, che è vita e storia del Novecento, secolo dalle mille sfaccettature e contraddizioni, che accendono tuttora il dibattito dei contemporanei. In quel secolo Apollonia si muove come figura che non si scotta e non si brucia al fuoco di quei cancelli del tempo, perennemente aperti, per narrare a chi vuole ascoltare la sua storia di attimi e di eternità, che mi ha lasciata, a ricordare la Sagan, con un certo sorriso, quello dolce-amaro di un passato, che si rinnova ombreggiato di malinconia. |
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