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Itinerario verso il 27 agosto 1950

Torino. Notte tra il 26 e il 27 agosto 1950. Una stanza d’albergo, un mix di barbiturici: un uomo sta decidendo di lasciare la scena del mondo in solitudine, come in solitudine è trascorsa la sua esistenza, erosa dal tarlo del vizio assurdo.

Protagonista del tragico finale di partita non è uno sconosciuto senza identità, colto da raptus od insania improvvisa. Colui che, in preda a cocente scoramento, si impasticca è Cesare Pavese, un nome che non passa inosservato nella koiné del primo cinquantennio del Novecento; un intellettuale affermato che non è azzardato né velleitario rimuovere dal fior di loto dell’oblio e dalle stratificazioni di mode effimere e passeggere.

A rivisitarlo, a farlo scoprire ai giovani, in aperto contenzioso con il libro e con la cultura ufficiale, deteriorata dalla masscult, ha provveduto Giorgina Busca Gernetti. Il suo Itinerario verso il 27 agosto 1950, senza enfasi di maniera, ripropone il dramma del poeta e dello scrittore, lumeggiandone carattere schivo ed antipresenzialismo, insidiosa pena del vivere e dolente absence, peculiarità di una situazione psicologica di isolamento volontario e di inquietudine esistenziale. Premessa alle ragioni del suicidio.

Sì, perché un gesto così estremo è sempre supportato da ragioni che lo legittimano; ragioni a monte che l’autrice del saggio individua nel distacco dalla vita, nello sgomento endemico, nell’autolesionismo agnostico di chi si estranea da lotte e tempeste ma che,tuttavia, anela a liberarsi dal cappio della solitudine e, soprattutto, dalla incapacità di rapportarsi con le donne. Con questi presupposti, macchinazione assurda ed improponibile la congettura del raptus.

L’ Itinerario in discorso, monitorando con discrezione i meandri di una scelta di vita improntata al solipsismo, dipana il bandolo dell’atto persecutorio, pensato, meditato, rinviato, accarezzato, assurto ad alter ego, a male oscuro, insidiatosi nel poeta per cause personali (fallimento amoroso e consequenziale misoginia) e cause contingenziali (nella Torino, che fu di Gobetti e di Gramsci, molti coetanei vedono nel suicidio la soluzione dei loro problemi). Della stessa convinzione il giovane Pavese.

A convalida la Busca Gernetti riporta stralci di due lettere inviate all’amico Mario Sturani. Nel primo, con assoluta pacatezza, Cesare immagina il sussulto della rivoltella quando l’avrà appoggiata contro una tempia per spaccarsi il cervello. Stessa tematica nella seconda missiva: …Sono tre mesi che ho vissuto in passione continua: tira, molla, lo faccio, non lo faccioCon lultimo innamoramento, quello della ballerina, mi era parso di essere giunto definitivamente al punto, ma non ne ho avuto il coraggio.

Ferite cancrenose il tradimento e la delusione d’amore: incentivano l’ossessione che gli rode dentro e che si accentua quando l’amico Elico Baraldi progetta il suicidio doppio per amore, il suo e quello della fidanzata, ferita di striscio dal colpo mortale che, invece, uccide l’amato.

Un classico degli amori impossibili il suicidio doppio. Il pensiero corre a Rodolfo d’Asburgo e a Maria Vètsera a Mayerling, a Kleist e ad Enrichetta Vogel, due esempi che conferiscono, a ricordare «1934» di Moravia, un carattere di assolutezza allamore. Nella spirale dei due archetipi, Pavese sembra appagarsi nell’immobilità e nella stabilità della morte.

Pure, a seguire l’analisi della Busca Gernetti, a dare pulsione al deserto dell’io dello scrittore, ad insegnargli a relazionarsi e comunicare con gli altri e con il mondo, potevano fungere da chaperon, le tante donne con le quali Cesare intrecciò storie fugaci e momentanee, dalla giovane, che gli disse sempre di no, Fernanda Pivano, la nube | intravista fra i rami (…) a Tina Pizzardo, la donna dalla voce rauca, da Bianca Garufi, un po amore un po musa a Costance Bowling, l’allodola, proveniente dall’America. Però, nessuna delle partner menzionate sa penetrare la condizione psicologica dell’innamorato: a lui si accompagnano più per fatuità e vanagloria che per autenticità di sentire.

E dire – si sottolinea nell’Itinerario – che nell’amore Pavese cerca l’ideale della donna che lo sposa e lo attende a casa, del figlio da mettere al mondo con lei…, cifra e valenza della favola antica ed elementare della vita.

Di qui i prodromi della misoginia, correlata con la tentazione del suicidio, rovello ed assillo che trasmette alle sue creature, riverbero dei suoi inquietanti stati d’animo.

Unico e singolare il caso Pavese? Assolutamente no! La storia letteraria ne registra di emblematici: Saffo, Werter, Ortis. Tutti sono epilogo di un tormento che macera fino allo spasimo e al disfacimento totale. E se l’ultimo respiro di Saffo per Faone è vivi felice, se felice in terra | visse nato mortal; se Werter si accomiata da Lotte con il disperato Lotte, Lotte addio! Addio!; se Jacopo da Teresa con T’amai dunque, tamai e tamo ancor, Cesare, nel suo repertorio di uomo che ha sempre cercato l’amore, non ha nessuna donna, cui testimoniare la piena del suo sentimento. Può solo ribadire l’idea fissa e dominante: Basta un po di coraggio (…). Sembrava facile a pensarci… Ci vuole umiltà, non orgoglio. Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più.

È il 27 agosto 1950. Il vizio assurdo ha vinto e con esso la malattia intimistica pavesiana, di primogenitura e derivazione romantica, analizzata da Giorgina Busca Gernetti con la profondità di un investigare circostanziato; col nitore della sua scrittura; con il pudore e il riserbo di chi si introduce nell’altrui vissuto in punta di piedi, per non disturbarne la privacy; con la sensibilità del pianista che suona in sordina, per deliziare spirito ed orecchio dell’ascoltatore, frastornato dalle troppe assordanti percussioni di un quotidiano distante anni-luce da un poeta e da uno scrittore della complessità di Cesare Pavese.

Recensione
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