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Grate e
cancelli da ogni | parte…; | finestre tutte inferriate; | letti
affiancati |…accatastati | senza distacco | e senza pausa; | ciascuno circondato
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dalla privazione | della propria libertà: lo steccato
disadorno, il quadrato di spazio concesso all’escluso della società. Qui il
segregato, numero senza dignità, vegeta oggettivato, cosificato. Il suo
quotidiano? L’ora d’aria, gli incontri, con scadenzario predeterminato, coi
familiari: frazioni di minuti mangiati, divorati, consumati in balbettii di
banalità: il concreto, il nucleo dei pensieri in sospensione nel labirinto delle
idee. Aborto di idee, larve e crisalidi che non adultizzano in parole, vagolano
nei dedali di una solitudine infinita: azzera ogni ipotesi di futuro.É
il prezzo del contagio quando | ti si ficca dentro il corpo | mettendoci
radici | che non
riesci | più a estirpare. Espiazione? riscatto? Giusto? ingiusto?
La poesia,
nella fattispecie quella di Paolo Ruffilli – è di lui e delle sue Stanze del
cielo che stiamo parlando – non indaga, non istruisce processi
all’intenzione,non disseppellisce cause per produrne effetti: con percorsi ed
itinerari tra il romitaggio dei reclusi narra, comunica, partecipa in maniera
distaccata, rinnegando pretese didascaliche o morigeratrici. La musa ed il
poeta sanno che il mondo è un dilagare di devianze e che l’uomo,
costituzionalmente fragile e socialmente degradato,ne è succubo. Di qui il
bisogno del Ruffilli di dare valenza ad una realtà cruda da rappresentare senza
veli, senza retorica ed infingimenti, senza pseudo buonismo e sentimentalismi
edulcorati, senza accuse e vituperi. L’intento è preservare il portato della
poesia da emozioni plateali, viscerali e caduche, labili ed estemporanee:
ingerenze esterne, disperative od allucinanti, contaminandoli, potrebbero
snaturare i brevi, acuti frammenti in melodrammi o sceneggiate di piazza. Per
l’io narrante la poesia, nella sua libera creatività e genuinità, ricusa
aggettivazioni limitative per raccontare autonomamente, senza la velleità di
suggerire panacee o rimedi palingenetici. Perciò, scagliato all’aria il dardo
dell’invettiva e del patetismo, il tono dei componimenti è pacato, misurato,
sommesso, dosato nella lingua spaludata, contestualizzata e normalizzata sul
buon uso della tradizione. Con una tale struttura linguistica il dettato versale
da colloquio sa tramutarsi in monologo con i connaturati requisiti della
razionalità e della conseguenzialità; monodia orbitante intorno allo spazio e
al tempo: l’uno angustia di vecchie fortezze scure | di castelli antichi;
l’altro è senza essere | mai stato, | un’attesa senza luce | e senza fine;
ossessionata da un ritornare continuo | all’ amante, | sognata
ed inseguita, | ma non conquistata. Spazio relegazione ambientale,
tempo infinito/indefinito della tossicodipendenza i punti nodali di una
scrittura poetica che ha il suo fulcro nell’essenzialità, libera da orpelli ed
infiorettature, etichettazioni ed epiteti esornativi: il decorativismo di
maniera non è nelle corde del Ruffilli e della sua indole: lo pugola a proporre
all’attenzione del lettore una tipologia di emarginati salva da sovrapposizioni
diaframmatiche fuorvianti. Non poteva essere altrimenti: le indorature di
facciata non consuonano con il susseguirsi di giornate passivizzate da ordine
dappertutto…il tavolo e la sedia | il piccolo scaffale | con pochi libri
addosso | e al centro di tanto squallore lui, il rifiuto, il
detrito della società con la celata aspettativa di levarsi giù dal volo,
ma ha la consapevolezza di non riuscire a smettere da solo. Realtà
incontrovertibile: ad essa il Ruffilli si accosta in punta di piedi senza
pretendere di cambiarla o sradicarla ab imis: il suo verso ritmico,
sobrio, cadenzato, trasmette con pregnanza ed efficacia il disagio, lo
smarrimento, il disadattamento dell’individuo afflitto dalla condizione di
desolato abbandono. Nel carcere – tocchiamo l’acme del pessimismo soffuso,
peraltro, nell’intera silloge – anche il prete si configura come un impiegato:
al pari degli altri lavora suo malgrado | per il numero delle ore | che è
pagato.
Solo con sé
stesso, la vittima del sociale deturpato si dibatte in un andare su e giù |
come un leone | dentro la gabbia: preda di disperazione cocente insegue le
immagini delle persone care: ad intermittenza gli si parano sulla retina nelle
attitudini abitudinarie: scavano un tunnel | dentro la montagna del dolore.
Il ricordo di ciò che fu e più non è lo convince che forse anche il
cielo | è fatto a stanze | e non si può abitarne | più di una. Probabilmente,
lui che abita la più bassa, vicina al pianeta terra, è un privilegiato per gli
sprazzi di evasione che gli regala la visione di un pesco in fiore | e il suo
tornante rifiorire: mai considerato prima, ora è il simbolo di quello
che… manca e che si è irrimediabilmente perduto.
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Recensione |
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