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Contemporaneità e mito nelle Parole d'ombraluce

Leggere e recensire, a lume delle impressioni trasmesse, la lirica di Giorgina Busca Gernetti è sublimazione dell'animo sgombro, per brevi/lunghi attimi, dalla corrività del contingente e naufrago, per inopinabile magia, in una dimensione incontaminata da codici di imbarbarimento: imbrattano, talvolta, la pagina bianca con troppa sorprendente faciloneria e surrettizi consensi. Niente, di quanto oggi, sotto le mentite spoglie di poíēsis, è mera cantabilità ed infingimento, deturpa la visione della Busca Gernetti, l'auscultare i moti dell'io, l'evocare miti e rinverginarli con filigrane di ordito e tessiture linguistiche culturalmente elitarie. Senza che la commistione classico-contemporanea adombri immediatezza comunicativa ed ufficio orfico della parola La parola-sigillo, mi si perdoni il bisticcio, suggella gli itinerari dell'inconscio, l'entronautarsi senza spasimi plateali; presentifica il mito, vivifica le macerie esposte alla corrosione del Tempo edace. A lui d'intorno non Siedon custodi ... le Pimplèe che fan lieti/di lor canto i deserti, ma la grandiosità della storia con il suo universo di attimi ed eternità, inalterabilità e staticità persino dell'aria circostante: mozza il respiro ammirativo del visitatore per dar fiato solo alle favole del vento: d'istinto salva dall'oblio la fulgida memoria del passato. Mai rimosso e trasportato nella polvere del nulla dal panta rei. Paesaggi e spettacoli della Magna Grecia rievocano civiltà intramontabili: con esse la poetessa sembra consustanziarsi, interiorizzare la quiete antica e, leopardianamente, confondersi coi silenzi del loco. Al pari, cullata e, metaforicamente abbracciata dallo smeraldo-mare Ionio, la triste veste umana ... disperde e, con proteismo in pectore, metamorfizza in creatura marina. Il tutto con la complicità affabulante della parola d'ombraluce, selezionata con razionalità e sensibilità, qualificata a narrare, musicare le onde del mare, carezzare le immagini poetiche fascinose e delicate pur nella loro pregnanza icastica; a dare nerbo e spessore alla fabula, ossequiosa del classicismo ma autonoma e svincolata da esso.

È vero che gli idoli della Busca Gernetti (Saffo Ibico di Reggio Teognide Mimnermo Virgilio Orazio Dante Petrarca Leopardi, da ultimo Pascoli) sono i maestri adorati, venerati con deferenza, quella stessa esternata dal Sommo Poeta quando vede adunar la bella scola/di quel segnor de l'altissimo canto, ma è pur vero che, alla stregua di Dante, il leggerli e rileggerli con intelletto d'amore consente di instaurare con loro un colloquio pacato e sereno, monodico ed unidirezionale; un ideale narrarsi in sordina con il calco del proprio sentire e della propria temperie storica. La situazione, senza tema di smentite, si compara ai Poemi conviviali e al loro autore. Lì Solon Alexandros Il cieco di Chio Achille Odisseo sono rivisitati dal Pascoli con spirito visibilmente decadente. (Bruscagli-Caretti-Luti) Analoga l'operazione della Busca Gernetti e delle pennellate tonali della parola d'ombraluce, densa di armonia nell'intera estensione poematica, a partire dalle Aegritudines, solitudine di un'anima alla deriva, zattera che nereggia sola sul mare, ignara di un vortice letale. Vortice, varco verso la chiara luce/che appaga e in cui pur vivo sopisce/lo spirito, sono tòpos rappresentativi dell'auscultarsi e dell'auscultare il ritmo segreto del movēre interiore: pizzica le corde del cuore e imperla di linfa la creazione versale, il cesello verbale, la tensione emotiva, i patemi psicologici: erompono dal subconscio con deflagrazione disattesa ed improvvisa.

Allora il cristallizzato senso del pudore, le remore dell'inconfessato affiochiscono e i sentimenti soffocati nel profondo con malcelate punte di risentimento sprigionano, frangendo, con meditata consapevolezza, la catena del silenzio troppo a lungo durato. Caduti i freni inibitori del dire/non dire, affiorano momenti rosa/grigi del processo di adultizzazione con il corteo delle incomprensioni ancestrali tra madre e figlia, nella fase in cui la preadolescente non è ancora donna, non è più bambina. L’eden dell'infanzia-fanciullezza dorata eclissa come sole all'ovest; in bocca distilla l'amaro dell’irrecuperabilmente perduto. Lo stadio di transizione è traumatizzante: deprivata di coccole baci moine materne, la ragazza si aggroviglia nel riccio del mutismo. Tra madre e figlia diradano intese e confidenze, colpevole, forse, il rigore di un'educazione di conio e tradizione spartana. Laconismo, monosillabi, incomunicabilità incrinano il rapporto da ambo le parti. Ma quando la madre, lasciata la sfera del transeunte, percorre una candida landa/fiorita di asfodeli, la corrispondenza di amorosi sensi, un dì sopita, compie il miracolo della riconciliazione. Si riapre il canale della conversazione: la figlia, mentre depone ... vivide rose rimane a parlare silente dinanzi al... sepolcro. Dialogo lieve, sommesso dall'uno e dall'altro margine di una soglia, senza interruzione fino a quando vivranno soltanto/i petali leggeri delle rose. È il grumo dell’Epicedio per mia madre, pamphlet nel corpo della silloge, compendio di emozioni che dal personale, dal privato slargano al socio-civile. Clip di tragedia greca Nella scuola di Beslàn il coro lacerante che fa della disperazione di una mamma una pagina di dolore universale e cosmico. Ciò nonostante, per Giorgina Busca Gernetti suona azzardo il canto dell'amore morto quando la poesia sa evocare il mito e sposarlo, con la suggestione della parola d'ombraluce, con ansie e pene del contemporaneo, senza velature distoniche disturbanti.

Recensione
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