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Relazione critica a
Voci al tramonto
di Maria Gargotta
Libreria Guida
Napoli, 27 gennaio 2011

Di scena, questa sera, Voci
al tramonto di Maria Gargotta, un dialogo-monologo che sgroviglia stati
d’animo contraddittori e sentimenti, troppo a lungo conculcati in una
incomunicabilità accidio-sa,intorpidita da ritardi, rimandi, rinvii, che
accentuano l’incomprensione con assoluti di silenzi.
Interlocutrici due donne: una
madre, una figlia; due mondi agli antipodi, due età del costume a confronto; due
creature che, antagonizzandosi, si svelano e, in un’altalena di astiosità e
tenerezze, si raccontano, al calare di un crepuscolo esistenziale, non ancora
notte, ma già sera inoltrata. Due coprotagoniste di uno spaccato di vita dai
forti dissidi interiori. Sono, per sintonizzarci con la Gar-gotta, ritagli di
ricordi, immagini strappate e a tratti ricucite: tra esse
s’inserisce la storia di oltre mezzo secolo, s’incuneano la cronaca, la
politica, la stasi o solstizio della cultura meridionale, anco-rata ad archetipi
e a immobilismo rancido.
Da archetipi e da pregiudizi,
in età diverse, come da fragorosa onda anomala, vengono travolte la figlia, dai
cambiamenti intergenerazionali del ’68, la madre, Tatiana,dall’anticonformismo:
ne è antesignana ante litteram, non allineata, in quanto sposa di un
siciliano, con l’arretratezza radi-calizzata della gente del sud, in particolare
della suocera che non vede di buon occhio quella nuora continentale, che fuma
dopopranzo, che ha le unghie laccate di rosso e che risponde come
una brava nuora non avrebbe dovuto.
Unghie laccate di rosso,
fumare dopopranzo, risposte anticonvenzionali s’inscrivono in un’ex lege
che non collima con la sudditanza e la ghettizzazione della donna del meridione
deputata, dalla na-scita, ad ammuffire tra le mura domestiche se, con il Pitrè,
ci riportiamo alla vieta usanza di gettare, quando nasce una femminuccia,
l’acqua con cui la neonatina è stata lavata la prima volta, sotto il letto o
sotto il forno, a significare che la donna deve rimanere in casa e, come se non
bastasse, sem-pre secondo Giuseppe Pitrè, mentre gli uomini pranzano, la moglie,
o la madre, o la sorella devono restare in piedi e servire. Donne escluse dalla
mensa anche nelle ville degli aristocratici. Dacia Maraini ne La lunga vita
di Marianna Ucrìa racconta che il duca Pietro invita gente alla sua
tavola, ma sempre senza la moglie, quella moglie che bazzica
continuamente la biblioteca contravvenendo a suo avviso, alla realtà
fatta da una serie di regole immutabili ed eterne a cui ogni persona di buon
senso non può non adeguarsi.
A sorvolare sulla digressione
infilatasi automaticamente nel discorso, per naturale e spontanea osmosi di
passato che si fa presente, la narrazione della Gargotta procede per flash e per
lampi di a ritroso: essi rivisitano esperienze, attualizzano
impressioni scandite sul metronomo di intolleranze e comprensioni, dissapori e
rappacificazioni. Intolleranza della figlia, ostativa del perbenismo e del bon
ton delle madri di stampo vittoriano, della religione catechistica con apparenti
scivoloni nel bi-gottismo.
La tua non è fede è
bigottismo grida con rabbia rancorosa, esplosa di scatto, d’improvviso come
i germi di una malattia a lungo covata. Ad essa segue l’anatema Brucerai
all’inferno per il tuo egoi
smo. Sfogo ab norme,
causticità verbale, parole al vetriolo legittimate dalla stanchezza
dell’as-sistenza, da torme di paturnie cumulate nell’arco di giornate
condensazione di un’intera vita. All’-istante, però, sulla bufera plana la calma
della bonaccia, il rivivimento dell’amore. Non ce l’ho con te,
mamma, ma Dio dov’è? L’hai tanto pregato tutta la vita. La
accarezza, la solleva dalla poltrona, la depone sul letto: una bambola di pezza,
un fagottino di panni per difendersi dal freddo patolo-gico. La cambia, la
pulisce, instaurando un rapporto di fisicità e fusionalità che è il modo
tangibile di dare, trasmettere, ricevere amore.
Sono comportamenti al limite
dell’alterità, spaccati di pensosità in sintonia con i rumori del quotidiano che
si attenuano; sono voci distinte/indistinte che provengono dal lontano. Si
incrociano, si intersecano, si placano, si attizzano, si acquietano ed
inaspriscono tra moti e turbamenti della giovane e della madre che ha allevato
una figlia spigolosa, polemica, in dissenso su tutto, preda di una
conflittualità magmatica, comprensibilissima e giustificata da quei momenti
terribili di preca-rietà esistenziale. Una figlia permanentemente in
controtendenza, che ha rifiutato di sposarsi, di avere un marito, una famiglia.
È tutta cuore, al contrario di Tatiana, tutta ragione. Diversamente avrebbe
capito che nulla si può contro l’amore;… che è l’amore
che sconvolge gli schemi;… l’amore che non si può
controllare;… che fa male… ma ti salva dal non vivere;…
l’amore che è fatto di mescolanza d’infinito e che non si
coniuga col bisogno di sicurezza, tranquillità, certezze immutabili della
madre. Immutabili come le regole del duca Pietro: dimostrano che tre
secoli di mutamenti epocali non hanno contribuito a rimuovere tabù e
preconcetti, demonizzati, secondo la madre, dalla figlia che insegue la musica,
la lettura, la scrittura. Le calzerebbe a pennello il Mo-dicum et non
videbitis me, et iterum modicum et vos videbitis me.
Parliamo di una figlia
latitante dalla casa come lo era stata lei, Tatiana, per dare lezione ai figli
dei signori. Allora la piccina, caparbia e bambino-centrica, per reazione
rifiutava il cibo,scagliava in aria i giocattoli che non le scoccavano baci, non
le prodigavano carezze, non le sussurravano amore.
Sequenze narrative e
flashback si alternano con squarci di luminosità e di cupezza nell’interlo-quire
tensivo di due monadi che ora leniscono patemi e ferite, ora ruggiscono come
leoni in gabbia, compulsate da divergenze radicalizzate nel profondo tra l’una
impositiva e l’altra trasgressiva, emancipata, femminista, ma non in senso
deteriore e degenerativo del movimento, in senso concre-to, con capacità
sceverative, con autonomia d’intendere e di volere; libera di andare
controcorrente e contro quei canoni stereotipati che anonimizzano in uno
qualunque, tra mille senza volto e senza identità.
Teatro dell’acrimonia, nel
lungo racconto della Gargotta, una stanza di angoscia e trepidazione, d’attesa e
di paura dell’attesa, Pure, lo spettro della morte in girotondo non inibisce
esplosioni di ostilità e incomprensione. Finalmente non puoi gestirmi più;
si sono invertiti i ruoli… sei final-mente punita per la tua
cattiveria, magari inconsapevole; cattiveria per tutte le volte in
cui mi hai costretta a scavare un posticino vicino al tuo cuore,
inflessibile, solo per me. Alla razionalizazione educativa di
Tatiana – perché di razionalizzazione educativa si tratta – alla sua assenza di
parteci-pazione emotiva, fa riscontro il bisogno d’amore della figlia, bisogno
d’amore analogo a quello di Roberto, figlio del marito di Anna, protagonista de
La nemica di Dario Niccodemi.
Anche lì una tela di ostilità
di Anna verso Roberto, che la ama visceralmente, ritenendola madre naturale, non
putativa. Al fratello Gastone, il prediletto di Anna, confida: Sì,
mamma è diventata per me la nemica della mia vita, della
mia felicità, del mio avvenire. Eppure tu non sai, nessuno
sa la mia passione per lei. Proprio passione! Non c’è altra
parola per definire questo sentimento;… l’amo come un artista deve
amare un capolavoro, perché vedo in mamma il capolavoro della
donna; la donna nella sua più alta espressione.
Ancora attriti e sofferenze
che si pianificano in quel nome Mamma!, gridato tre volte, a conclu-sione
della vicenda, quando Anna in Roberto abbraccerà e ritroverà il suo unico,
amato, perduto Gastone.
Allo stesso modo nelle pagine
della Gargotta attriti e frizioni, asti e rancori si stemperano, addolci-scono e
sulle rovine dell’ieri e dell’oggi sbocciano i fiori del bene: aprono il varco
alla funzione catartica di quel dialogo-monologo di interiorità e di intimità
che durerà oltre la vita, tramite tra finito ed infinito. La testa china,
come a leggere un dolore dentro, la madre osserva la figlia eletta, con
l’incalzare della malattia che si fa spietata, al ruolo d’infermiera: bende,
garza, ossigeno per respirare refoli di vita, e la figlia che non ha mai avuto
per lei moti di tenerezza, adesso avverte il bisogno tattile e carnale di
carezzarle i capelli, radi, sottili quasi finti di bambola.
Ritorni di slanci affettivi e
rovesciamento dei ruoli. Quella scheggia di ossa è ormai una creatura fragile;
una creatura che la figlia-madre consola con parole che mai le aveva detto.
Ti amo, bambolina mia. Non è vero che mi hai regalato solo paura,
mi hai regalato tutta la tua forza, la tua energia.
Perdonami, mamma, ora che sei quasi incorporea.
Povera creaturella mia, tesoro. Ti dico tesoro per la prima volta
e mi rispondi tesoro.
Involontaria e spontanea si
apre la via della comunicazione, della tenerezza, del sentire allo stesso modo.
Non a torto Fromm osserva:L’amore è possibile solo se due persone
comunicano tra di loro dal profondo del loro essere. Solo
in questa esperienza profonda è la realtà umana, solo là è la vita;
solo là è la base dell’amore.
Ad un passo dalla fine – il
dramma volge al suo epilogo – aleggia la distensione degli spiriti, avvolti in
una spirale di pace e di serenità. Sono labili, fugaci spiragli di intese e di
afflato sincero: ravvicinano le due eroine che si sono, dopo affanni ed
ombrosità, incontrate e riconciliate sul sen-tiero dell’amore. Il silenzio è
totale, assoluto nella lunga notte di ansia e di timore. Schiude per la moritura
un’alba azzurra e fa capolino all’orizzonte un sole che più non la riscalderà.
Nel sole madre e figlia guardano insieme l’ultima volta il mondo dialogandosi e
lasciandosi alle spalle, nella trasfigurazione della morte che avanza e nel
grigiore della vita che continua, il giorno, anche per loro, pieno di lampi.
Maria Gargotta con il suo
romanzo breve-racconto lungo ha liricizzato un aspetto scottante del sistema
educativo. L’ordito narrativo, infatti, si snoda in punta di penna e con
modulazioni scrittu-rali che ricusano infingimenti e contaminazioni didascaliche
od alchemiche, per privilegiare il col-loquio a presa diretta con il lettore
coinvolto nella problematica, ma anche e soprattutto affascinato dal modo con
cui l’io dicente ha saputo sciogliere un canto a due voci; voci che si
compendiano e si fondono in un unico cantico d’amore controverso.
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