Fermenti 238
Periodico a carattere culturale, informativo, d’attualità e costume
Il numero 238 della rivista “Fermenti”, fondata nel 1971 da
Velio Carratoni, è densissimo e articolato, includendo contributi, a livello
saggistico e testuale, che spaziano dalla narrativa ai testi poetici,
dalla musica alla fotografia, dall’arte al costume, dagli aforismi al cinema,
dalla saggistica alle riproposte, dal teatro all’attualità.
Nel panorama odierno delle riviste a carattere
culturale, pubblicate in Italia, “Fermenti” occupa un posto significativo, non
solo per il livello dei suoi contenuti, ma anche per la sua corposità.
Altro dato è che questo numero della rivista può
essere considerato un vero numero da collezione.
Per la lunga durata nel tempo, “Fermenti” può
essere definita rivista storica, nel nostro panorama letterario.
Da sottolineare, a questo proposito, il fenomeno
della fine di molte testate di poesia e letteratura in Italia, anche dopo
l’uscita di pochi numeri.
“Fermenti” non è solo un periodico letterario,
offrendo una panoramica sfaccettata del mondo in cui viviamo, nel quale gli
stessi fenomeni artistici sono il risultato dei tipi di società in cui siamo
immersi, per dirla con Focault.
Il comune denominatore dei contributi di critica
e varie arti, è l’alta qualità dei suoi connotati e questo riguarda sia gli
autori già affermati, sia i giovani. La copertina risulta intrigante, con
l'icastico collage a inchiostro di Giovanni Fontana, architetto, poeta,
scrittore di teatro e autore di romanzi sonori, nato a Frosinone nel 1946, opera
che rappresenta un occhio, presumibilmente di un bambino, una parte di un viso
femminile, (una bocca sensuale con rossetto rosa sulle labbra), parte di una
capigliatura e un cuoricino e la scritta it’s cool to have a soul.
Nel panorama culturale italiano, dominato dai
mass-media, televisione e internet, nonché dai quotidiani e dai rotocalchi, che
senso può avere l’esistenza di tale periodico, nel nostro postmoderno
occidentale, dominato dai valori falsi del consumismo, come già stigmatizzava
Erich Fromm negli anni Ottanta nel suo Avere o essere?
Più che mai attuale in controtendenza
all’appiattimento della vita contemporanea “Fermenti” emerge come un
serbatoio di linfe nuove per dare vita all’immaginario, attraverso la grazia
e la cultura nelle sue poliedriche manifestazioni.
L’inserimento nei vari numeri della rivista di
nomi rilevanti della nostra società letteraria, di artisti e critici, tra i
quali i poeti Umberto Piersanti, Marina Pizzi, Franco Buffoni, Dario Bellezza,
Antonio Spagnuolo e Valentino Zeichen, e dei critici Giorgio Bàrberi Squarotti,
Giacinto Spagnoletti, Stefano Lanuzza, Mario Lunetta, per citarne solo alcuni,
dimostra la riuscita dell’operazione.
Nell’impossibilità di un’analisi globale di tutti
i testi, dai quali è costituito “Fermenti” 238, ci soffermiamo su un certo
numero di parti dell’insieme, che ci sembrano più rilevanti.
Emergono analisi sulla situazione odierna della
critica letteraria a firma, tra gli altri, di Domenico Cara, Lucio Zinna,
Antonino Contiliano, Gualtiero De Santi, Flavio Ermini, Gualberto Alvino,
Marcello Carlino, Emiliano Alessandroni, Donato Di Stasi, Maria Lenti ecc.; per
la saggistica approfondimenti su Giorgio Manganelli, su P.P. Pasolini
tanto trattato, poco letto, con intervista a Antonio Tricomi; da Cesare a
Pasolini (Antonella Calzolari), Reperti di poesia (Massimo Mori),
Creatività (Cesare Milanese) ecc. Ricche le rubriche di Interviste (Melania
Mazzucco), Teatro (Roberto Bolaño), Riproposte (su Marianni, Comi), sulle
recensioni, sulla poesia, sulla narrativa, l'arte, sulle traduzioni
(dall'ucraino a cura di Paolo Galvagni e dal greco a cura di Crescenzio
Sangiglio).
Tra le interviste, degna di nota è quella ad
Antonietta Serci da cui emerge il ricordo di Giulio Seniga, che avrebbe
sottratto, durante il periodo della Guerra fredda, soldi al Partito Comunista
per metterli in salvo, utilizzandoli a favore di iniziative più prettamente
culturali.
Puntuali gli interventi di Gualberto Alvino nel
suo “Bloc Notes”, riguardanti autori dell'altra letteratura trattati allo spiedo
con geniali interventi storico-interpretativi. Qualche esempio: Niccolò Messina,
Vincenzo Consolo, Angelo Guglielmi, Aldo Nove, Maurizio Dardano, Filippo
Secchieri, Franco Brevini, Michela Toppano, Remo Cesaroni, Claudio Damiani,
Federico Sanguineti, Andrea Cortellessa ecc. Alvino non guarda in faccia a
nessuno. Per lui esiste il testo, il titolo, la storia della scrittura. Il resto
è macchinazione e forzatura. E' lì che si mette di traverso o lancia i suoi
strali di mastino, fuori dal coro. O sta zitto.
Molto vasta la panoramica sulle testimonianze
video e audio presenti sul sito della casa editrice (www.fermenti-editrice.it),
riguardanti presentazioni e interventi su scrittori e poeti del Novecento.
Consistenti i brani di poesia e narrativa.
Da mettere in rilievo i due scritti in
Anteprima, sezione dedicata all'analisi della società, che apre il volume:
intitolati rispettivamente Elite, classi dirigenti, intellettuali, l’Italia
alla ricerca della leadership perduta, saggio di Andrea Ambrogetti,
e Tumulti Horreyya, che include le recensioni di Velio Carratoni a
Tumulti: Scene dal nuovo disordine planetario. di Augusto Illuminati e Tania
Rispoli e a Horreyya, La rivoluzione delle donne egiziane. Se non ora quando?
di Valeria Brigida e Carmine Cartolano.
Ambrogetti propone una riflessione di carattere
generale a partire dalla situazione di “crisi”, allargando il termine “critica”
alla più ampia questione dello stato della salute della “cultura”.
Si tratta di una rapida rassegna di spunti
meritevoli di ulteriore approfondimento e confronto.
Se per elite si intende un gruppo molto
ristretto, che si trova ai vertici della società e ne gode i benefici, grazie a
posizioni di dominio, ebbene ve ne sono in tutto il mondo, anche nei paesi più
poveri dell’Africa.
Lo sviluppo economico, la diffusione del
benessere e la scolarizzazione di massa avevano, negli ultimi decenni, reso
marginale la questione delle elite nei paesi occidentali.
Oggi sembra che la contrapposizione tra elite e
massa sia tornata di attualità. La tendenza a leggere nei termini di “casta” un
determinato gruppo (quello che fa politica a livello internazionale) è il
segnale del riaprirsi di una frattura sociale netta, che sembrava consegnata
alla storia.
Ci potrebbero essere, continua il nostro, e forse
ci sono state anche in passato, elite che hanno reso un servizio utile alla
crescita complessiva della società, quella liberale dell’Ottocento?
Oggi sembra di assistere a un fenomeno duplice:
da una parte la fuga delle elite dal nostro paese: i migliori cervelli italiani
emigrano verso università e aziende estere e, dall’altra, la conquista del
potere, almeno in senso istituzionale ad opera di un’armata brancaleone di
ignoranti, puttanieri e mafiosi.
Nel secondo scritto di Anteprima
Tumulti/Horreyya leggiamo le due recensioni di Velio Carratoni ai libri
citati.
Nella prima è scritto che da troppo tempo non si
fa che organizzare manifestazioni, generando scontri nelle piazze.
Tutti pensano di protestare, esprimere reazioni
contro, mentre un governo tecnico cerca di rattoppare troppe controversie
sociali. Tutti si sono ribellati
Dai pastori agli agricoltori, dai poliziotti ai
precari, dalle popolazioni della Susa, ai lavoratori in cassa integrazione,
dagli insegnanti agli ospedalieri.
Ma i risultati lo stesso sono deludenti.
Le popolazioni proseguono a languire, mentre
troppe categorie sono allo sbando.
I giovani risentono dell’inesistenza di diritti
sociali e restano ad attendere, sentendosi rinnegati e trascurati, pur sapendo
che qualcosa si dovrà risolvere.
Ma quando? Il posto fisso è un sogno d’altri
tempi. Mettere su famiglia è un’illusione da paese dei balocchi.
Pur vivendo nell’inesistenza, sono quelli che
abbozzano, forse non ponendosi i problemi da cui sono attanagliati.
Gli esponenti del precedente governo hanno fatto
finta di arrendersi a Monti, temendo di scomparire. Ma le loro tattiche non
sempre convincono. I giornali di famiglia dell'uomo che vorrebbe rientrare in
campo, non hanno fatto che demolire il premier tecnico.
Tutto poteva essere risolto e migliorato.
Ma, a causa della loro inerzia o della politica
dell’interesse a senso unico, tutto è diventato fallimentare e solo proiettato
in un futuro di là da venire.
I danni restano e chi li paga sono i soliti
squattrinati.
Eppure si sentono spesso maggioranza, anche se le
frantumazioni, le impostazioni sono del tutto diverse, le capitolazioni interne
hanno dissolto ogni tipo di situazione del tempo delle elezioni del 2008.
Acquistando parlamentari, creando il
trasformismo, si sono dileguati, pur credendosi invincibili e insuperabili, da
non permettere alcuna riforma della giustizia, non volendo sentir parlare né di
rigettare la corruzione, né garantire una riforma equa e anticlientelare della
Rai, evitando i soliti politici delle tresche.
Così si protesta bloccando tutto.
Le rivoluzioni anche per noi sono state
iniziative di folli e di malintenzionati. Gheddafi è stato tolto di mezzo,
pensando che il caso si sarebbe risolto da sé, senza prendere posizioni.
La Tunisia e l’Egitto si sono sgretolati, non
tenendo presente che troppi profughi hanno invaso paesi e città, senza che il
sintomo della protesta venisse sanato in tali terre.
Anzi, per dirla meglio, per lunghi periodi se n’è
parlato poco e male. Così l’Egitto è rimasto in stato di ebollizione interna e
di colpa apparente, mentre l'aria di fondamentalismo incombe. Tra i militari e
tali gruppi non è dato sapere dove si andrà a finire.
In Tunisia c’è una situazione che non facilita
alcun progresso sociale.
In Libia dopo guerre, sommosse, stragi, c’è stato
un ritorno allo status quo per una normalizzazione sospetta, mentre venivano
ritrovati corpi trucidati e gettati nelle fosse comuni.
In Siria le sommosse e le carneficine gettano lo
scompiglio per le resistenze di un dittatore che nessuno riesce ad abbattere.
Per non parlare di un’Africa sempre più devastata
ed irriconoscibile.
Nel secondo scritto il direttore della rivista
afferma che sembra una rievocazione in presa diretta di fatti recentissimi,
riguardanti la rivoluzione in Egitto di tanti giovani, contro una dittatura che
da trent’anni e più sembrava inamovibile.
Il suo esponente agiva esteriormente da saggio
illuminato.
E invece aveva generato una stagnazione
vergognosa, a causa della quale il lavoro era una risorsa per privilegiati,
l’istruzione e la cultura di cui a volte si parlava, erano ancorate a decenni e
decenni fa.
Con la mira delle vacanze rimaneva il palliativo
del paese prospero e beato Ma dietro c’era un’arretratezza che veniva nascosta
con apparati da turismo concorrenziale, la simpatia della gente verso visitatori
dediti a far niente.
In La critica letteraria oggi in Italia,
leggiamo lo scritto di Domenico Cara, Il significare per riflessioni (la
performance della critica in più usi), che è strutturato in trentatré brevi
frammenti.
In esso l’autore afferma che in troppi vogliono
ad ogni costo scrivere un’epigrafe alla critica protagonista, perché molti poeti
e narratori si sentono trascurati da essa, nella quale hanno posto sublimazioni
da emarginati su profonda indifferenza, assenza totale dal lavoro “poetico”,
sogni senza prospettive o salvezza per la massa che scrive, implacabilmente o
per sofisticate ossigenature.
La liturgia della critica abita un pianeta di
estraniazione roca e continua, soprattutto dagli ignoti nomi che non hanno
notorietà progredita, né capacita o dono di raggiungerla, perché lontana è la
stessa “militanza” rende infelice e arrogante, quantunque abiti il suo ambiente
naturale e umano nella tradizione che l’ha inventata o scoperta in ogni
geografia per farsi assiduo segno d’interpretazione
La scoperta di un autore non è semplice, in
quanto spesso si leggono madrigali, screzi tonti, squarci muti, e i “geni” non
sono fantasmi quotidiani, perché la fila degli aspiranti al verso è infinita, e
ormai le vocazioni critiche migliori non permettono pietà per effetto del numero
possente, che bussa alla porta del pensiero complice e delle insistenti
volizioni, e a volte algido anacronismo per la messa in questione del durare
attraverso la propria opera.
La critica è fatta da individui coperti di
necessità, usi e abusi sociali, corruzioni comode a cui comunque deve
sottostare: editori con i quali collabora, mass-media insistenti, consuetudini
meno utili, auree mitiche che impongono una spinta più selettiva, e guidata da
strategie professionali, non casuali o ovvie, ma accademiche, sapienziali,
militanti, disposti a fuggire a una lettura che dà fastidio.
E poi, indubbiamente ogni critico perpetuo o
effimero, ha sempre un libro in preparazione da ultimare, le sue ricerche
bibliografiche, la stessa routine a più strati e sfide felpate per ricamare un
cospicuo successo, quindi tutto impedisce un fare civile, generoso, amabile e
senza dimenticare l’intimo fuoco di ultimare la stura di un romanzo in forse
(come fanno tutti gli altri vanesi e ingenui della cordata).
L’assenza dell’interesse del critico (anche se
lavora tanto: convegni, conferenze, interventi, collaborazioni non saltuarie a
riviste) è ridotta a poche letture di prestigio, vista la vasta produzione
attuale, e tutto resta nutrito di nulla, anzi destinato al cestino come ultimo o
penultimo percorso, mentre la polvere cancella illusioni e sogni di lettura,
distanza da occasioni, d’altra lusinga, l’estenuazione insperata di chi legge
per professione, anticipando le opinioni pubbliche, non più tante o attive e
ampie.
In Malesseri e prospettive Lucio Zinna
afferma che si avanza da qualche tempo e da più parti l’ipotesi di una crisi
della critica letteraria in Italia, fatto che non dovrebbe allarmare più di
tanto, dato che i concetti di crisi e di critica sono
etimologicamente interconnessi e se la critica cogliesse l’occasione di
interrogarsi sul proprio ruolo e sulle proprie prospettive non potrebbe che
derivarne benefici effetti.
Vero è che qualcuno tende a presentare la
faccenda in maniera più fosca parlando di morte della critica letteraria o
quanto meno delineandone uno stato comatoso in alcuni casi in tandem con la
situazione reale della letteratura, vista nel suo complesso; in ogni caso in
contrapposizione a una florida salute della letteratura stessa, al contrario,
dunque, di quanto era avvenuto negli anni Sessanta e Settanta, in cui una
critica piuttosto agguerrita si era affannata a parlare di morte dell’arte, in
primo luogo di poesia e romanzo.
Non si può negare oggi una condizione di
malessere della critica letteraria e l’immagine di floridezza della letteratura,
se c’è, è più apparente che reale, affidata com’è, in prevalenza a una
esuberante produttività sul piano quantitativo.
È la floridezza ingannevole di chi, essendo in
sovrappeso, si trova alle soglie di un’obesità foriera di malanni e
complicanze.
Da qui, ma solo in parte, il disagio della
critica letteraria, dato che questa si trova a seguire (inseguire?) le
sovrabbondanze della produzione poetica e narrativa, avvertendone o
somatizzandone le carenze, i disagi, le malformazioni.
A tale sovrabbondanza pare fare riscontro un
prosciugamento e deperimento della critica, peculiarmente quella detta
“militante”.
Ma non siamo al collasso né ci pare si possa
parlare, per usare un’espressione di Mario Lavagetto, di eutanasia della
critica.
Paolo Fabbri, in un’intervista del 2008, faceva
notare che in giro non ci sono più critici e che nessuno fa più un discorso
critico.
In effetti la critica letteraria in atto non
sempre riesce a muoversi adeguatamente nei propri recinti, limitandosi piuttosto
a ciondolare nei dintorni di se stessa, disperdendosi in pubblicazioni di
carattere divulgativo, in voci di enciclopedia (specialistiche o popolari che
siano) e simili, per non dire delle recensioni, sempre più espunte dalla stampa
quotidiana o dai periodici a larga diffusione in cui figurano ridotte e
frettolose schede illustrative, con ampia prevalenza della narrativa.
Della poesia si tende a parlare sempre meno,
mentre per quanto concerne la saggistica, paiono privilegiati i testi storici
con agganci all’attualità o quelli che trattano di attualità sociologica o
politica, meno di estetica o di teoria della letteratura.
Per uscire da questi asfittici schematismi
nell’attività recensoria bisogna rivolgersi, ovviamente, alle riviste
specializzate, che restano pressoché estranee alla maggior parte del pubblico
dei lettori.
Ne esistono ancora di notevole livello ed
affidabilità, anche se per lo più, introvabili o messe in difficoltà
dall’abolizione della riduzione delle tariffe postali per l’editoria. Altre,
come “Poesia”, non si trovano dato che secondo alcuni edicolanti non ci sono
richieste.
Interessanti anche al riguardo (in una massa
confusa e indistinta) alcuni siti on-line, sempre che facciano cultura e
non estemporaneo sfogo di gusti personali, svelati solo per fare effetto o per
facilitare tresche e accoliti di base. Spesso i gruppi sono circoscritti,
rappresentando solo sé stessi.
In Per la critica, contro la malapianta
dell’evasione testuale, Marcello Carlino afferma che capitava, ormai
parecchi anni addietro, che di critica si disquisisse vivacemente dal vivo,
magari scontando talvolta qualche approssimazione, o che se ne tastasse
semplicemente il polso, i più avvertiti, preparati diagnosti dal buon fiuto,
constatandola debole e malata, da preoccuparsene non poco, da destinarle
prognosi infauste.
In anni più vicini, per curiose coincidenze di
imprese editoriali e forse in previsione – davvero troppo ottimistica – di una
domanda accresciuta della riforma degli atenei, con un mercato per ciò stesso
impensabilmente, improbabilmente creduto rimesso in moto, è capitato pure che da
più parti ne sia stata riassunta la storia in agili prontuari, in
microenciclopedie da aulette universitarie, frattanto dandosi avviso così, certo
preterintenzionalmente, e dunque senza responsabilità alcuna degli autori
interessati e dei direttori di collana committenti, che s’avviava ad essere roba
da museo, la critica: reperto posto ormai a distanza di sicurezza, corpo
imbalsamabile, da trattare igienicamente con le giuste eviscerazioni e i giusti
additivi chimici per un discreto curriculum di uno studente di media cultura da
laurea triennale, non più – comunque come un tempo – perno, ponte verso
l’esterno, funzione nodale della comunicazione letteraria sulla quale
arrovellarsi e accapigliarsi perfino.
Oggi più niente, e davvero non sembrano aver
fatto e neppure annunciato primavera le notizie rincuoranti degli scavi –
rimbalzavano da Segre, per esempio, lieto allora di ricredersi e di captare
qualche segnale di vita – sull’onda delle quali non tutto poteva presumersi
coperto per sempre, per mai più non risorgere, dalla sequela di crolli
susseguenti al sisma che si battezzò poststrutturalista – e a cui subito
certificarono l’appartenenza alla categoria del postmoderno – e che seppellì
affatto il mestiere e le armi della critica.
Oggi più niente, tanto che è fortissima la
tentazione di dichiararla scomparsa e quasi in predicato di morte presunta, o di
considerarla quanto meno da lunga data in pensione, dimissionaria la critica.
In L’interpretazione del testo Flavio
Ermini scrive che di fronte a un testo il compito del pensatore è presentire e
descrivere la pura, albale lingua che vi si cela.
Il processo avviene per frammenti. Il pensatore
non può che portare alla luce frammenti della vera lingua. Tale è la distanza
che separa la lingua da noi parlata e interpretata.
“Ogni opera d’arte contiene un ideale a priori,
una necessità di esistere”, ricorda Novalis.
Quell’ideale a priori va illuminato a partire dal
testo da interpretare, ben sapendo che il testo da interpretare – agitato dalla
sua necessità di esistere – non nasce dal nulla, bensì dalla casa natale della
vera lingua ovvero dal chaos: tanto che non è inesatto dire la vera
lingua è del chaos la messa-in-forma.
Il pensatore deve dunque sapere che “quell’ideale
a priori” è solo una soglia e che – in verità – è il chaos originario
l’elemento da cogliere, nella lingua da interpretare quando per un istante nella
forma da interpretare raffiora.
Ecco il tratto essenziale: il pensatore deve
cogliere nella lingua da interpretare, la lingua dello stato primordiale, quella
lingua originaria in cui non c’è scissione tra cosa da trasmettere e atto della
trasmissione.
È necessario accedere alla lingua che pensa
per noi, prima ancora che il singolo – il poeta – sia giunto a parlare in
proprio.
L’interpretazione critica è una meditazione sul
modo di poesia-pensiero che dalla lingua fa da motore a ogni testo.
Non è un compito facile. C’è la necessità di
accostarsi all’opera da interpretare muniti di molte categorie filosofiche in
grado di dischiudere l’interpretazione.
È una forma di critica che Benjamin a buon
diritto definisce “critica filosofica”, in cui il rapporto filosofia-critica è
istituito dialetticamente secondo una duplice direzione.
Per un verso, infatti, è l’elaborazione
filosofica a orientare la critica: per un altro verso è invece il confronto con
il testo a suggerire le categorie filosofiche idonee all’interpretazione.
La compiutezza dell’opera è sempre apparente e
così la sua armonia. Va registrato il movimento segreto che interrompe il ritmo:
è al privo-di-espressione, che volge lo sguardo il pensatore.
Nell’ammutolire della bellezza, infatti, c’è il
disvelamento del chaos originario. In questa cesura sta la libertà
della produzione conforme e al senso e, subordinata ad essa, la fedeltà alla
parole albale.
Va sventrata la parola filosofica che interpreta.
Va aperta a nuove possibilità critiche. Va altresì liberata da qualsiasi impegno
sistematico.
Il testo sarà così attratto nell’area del lavoro
interpretativo e consegnato all’anti-pensiero (ovvero alla parte in ombra del
pensiero), l’unico in grado di disporsi all’ascolto.
In Narrativa leggiamo i seguenti racconti:
Baby doll di Mario Lunetta, Così prendo congedo dalla poesia di
Massimiliano Chiamenti (a ricordo della sua dipartita), LI-precari di
Laura Azzali, La mia gamba sinistra di Giuseppe Casa, La sonnambula
in gelido calore di Velio Carratoni, Racconti di Marcella Leonardi,
Gloria di Gemma Forti, Barbison per prendere sonno di Bruno Conte,
Specchio di redenzione di Nino Velotti e Raffaele Piazza. Vari aspetti
del narrare per dimostrare che non può esservi storia se non deriva da una
realtà che si logora, si sfida, si dilata, pur rimanendo esigenza di vita
caotica decomposta. Secondo i nostri tempi frantumati.
In Arte incontriamo Sinergia e
così sia, immagini e testi di Giovanni Fontana, titolo che include uno
scritto del nostro che si potrebbe definire di estetica, alcuni collage e poesie
intitolate “Alcuni spari”, tratte dalla raccolta Il corpo denso.
Nel suo saggio, originale perché costituito in
prevalenza da periodi brevi o brevissimi o anche da una sola parola leggiamo:
-“Ecco. Arrocco. Strabocca e blocca il flusso della contaminazione
inquietante. Quella che stempera la densità dei segni. Ecco le confluenze. Quali
le intersezioni. Quali le interferenze. Diritto dritto al pluripotenziale.
Colori. Architetture. Corpo e gesto. Grafie. Manie. Rumori. Suoni. Un disastro.
Demolizioni. Sedimenti. Azioni di recupero. Quando il gioco è poetico.
Quando la voce è inscritta nelle pieghe. Negli
interstizi dell’interlinguaggio. Dove la glottide apre bolle fluide e sgrana
bolle variopinte. Chiuse. Monta e smonta.
Percorre. Scassa. Rimuove. Assegna. Raccatta ed ha funzione riparatrice.
Portante. Strutturale.
Benedicente quando mira a cosce tornite
Correttamente abbronzate. La voce catalizza e media. Organizza. Dinamizza.
Ri-testualizza. Suda sulle carte. L’oralità traspare. La vocalità precipita.
Come sali in soluzione satura.
Qui la fotosfera s’ispessisce di giorno in giorno
e il suono è fluido. Lo affida al grido talvolta. Per ibrido attraverso tempo e
spazio. Ti può seguire sempre e ovunque.
Per questo la riorganizzazione del progetto
poetico appare urgente. L’interazione tra vocalità e scrittura, quando l’ una
attraversa l’altra e viceversa, offre speciali zone d’universo.
Ecco che l’elettronica richiede le sue sintassi.
Allora. Ecco una scrittura che non produce testi. Ma sesti e archivolti spinti
oltre confine”-.
Efficaci e armonicamente strutturati i collage
policromi nei quali il nostro ci mostra oggetti e scritte e anche numeri, che
nell’insieme rimandano a significati polisemici e articolati; da essi scaturisce
un senso di magia e mistero.
Nelle poesie, tratte dalla raccolta citata,
notiamo una vaghezza della forma e una forte dose di drammaticità.
Da mettere in rilievo che tutti i testi in
questione sono scritti in lunga ed ininterrotta sequenza.
In particolare nelle poesie sullo sparo si
riscontra una corporeità intrisa di tragicità.
C’è da notare che tutte le poesie iniziano con la
lettera minuscola e che questo fattore ne accentua la carica di sospensione,
come se avessero un’arcana provenienza.
Prevale un tono surreale, ma, talvolta, le
composizioni sono affabulanti e hanno un andamento narrativo e sono
caratterizzate da icasticità e chiarezza..
Si tratta di poesie antiliriche molto concentrate
e magiche e il tema erotico è trattato con finezza.
A volte vengono utilizzate modalità da poesia
visuale con caratteri dal corpo grandissimo o grande che si alternano a quelli
standard.
In L’universo girovago di Francesca Gargano
di Mario Lunetta, che include cinque immagini policrome della pittrice, che
tendono all’astrattismo e all’informale, il critico afferma che se nella
costante avventura onirica della ricerca dell’artista c’è un dato che non trova
ospitalità è quello dell’evanescenza.
La dimensione del sogno dell’artista risalta da
sempre intrisa di fisicità, al punto che è inevitabile riconoscere come la sua
pittura, prima ancora che a un’urgenza materica in senso tecnico, risponda ad un
appello assolutamente corporale.
Per Francesca la pittura conosce un solo modo di
liberazione ed autonomia dentro Veteronomia dell’esistente: quello che al
centro della conoscenza e dell’immaginazione fissa primariamente una strategia
dei sensi che assorbe in sé la memoria e il progetto.
La sua docilità è fatta di aderenza a un
orizzonte tattile passibile di un’immediata trasmutazione in sostanza da
degustare, al punto che – tra ironia e serietà – si potrebbe parlare di un fondo
nient’affatto oscuro, ma piuttosto festoso di cordiale cannibalismo nei
confronti delle forme.
Quello che circola nelle arterie di questa
pittura è un’inquietudine positiva, una curiosità indenne da contraddizioni
violente.
Ecco che allora costruirsi uno spazio delimitato,
una sorta di area di sicurezza, o al minimo di discrezione, diviene il problema
che, oltre ogni lacerante drammaticità, nella fase più recente del suo lavoro,
Francesca Gargano si prova a definire e risolvere.
Non è quindi un caso che nella sequenza, che
l’artista ci presenta, le opere siano realizzate prevalentemente su supporti
leggeri (carta, cartone o al limite compensato), con piglio agile, volante,
perfino ludico, tutto ruoti con movimenti di danza, aerei e avvolgenti.
In Le geometrie mistiche di Gianfranco
De Palos, Giuseppe Langella, afferma che allo sguardo superficiale che
scivola distratto sulle cose, le opere di De Palos, potrebbero sembrare magari
dei passatempi d’artista, dei banali divertissement: biglie attaccate
come tante piccole lampadine a improbabili cornici aperte, colorati listelli di
legno di varia foggia, dimensioni e spessore, sparsi sulla tavola come i
bastoncini degli sciangai, o ancora riposti, prima del gioco, in un tubo
trasparente: figure geometriche elementari (cerchi, sinusoidi, eliche, ellissi,
croci e soprattutto raggiere) e perfino l’immagine stilizzata di un tetto, come
parrebbe disegnato da un bambino, con tanto di comignolo e fumo che sale.
Ma come l’occhio, vinto dalla sorpresa, si
sofferma a osservare, interrogando questi curiosi manufatti alla ricerca di un
senso riposto, scopre che le forme somigliano a segni ieratici di un misterioso
alfabeto, che le singole serie di sfere e di legnetti, trascolorando secondo le
varie colorazioni cromatiche di questa o quella tonalità dominante, evocano
biblici arcobaleni, che soprattutto la disposizione rigorosamente geometrica dei
materiali non ha nulla a che vedere con l’intricato ginepraio degli sciangai
quando vengono gettati sul tavolo, terribile simbolo del caos, della materia
inerte, del non essere, dell’informe, ma obbedisce e rinvia a una visione
“cosmica” del mondo.
Le opere di De Palos sono sempre costruite
intorno a un centro prospettico, di norma a forma di cerchio, occasionalmente
anche ellittico, schiacciato in figura di occhio vuoto, o per meglio dire
invisibile, come quei fantomatici buchi neri di cui parla l’astrofisica, ammasso
di materia tanto concentrata da risultare oscura a tutti i nostri strumenti di
rilevazione, ma capaci di una forza di attrazione spaventosa, quasi
inimmaginabile.
La presenza di questo centro genera nelle
composizioni di De Palos, un sistema gravitazionale tale per cui tutta la
materia sembra disporsi radicalmente a corona in maniera ogni volta originale,
ma sempre razionale secondo studiatissime simmetrie.
Il centro strutturale delle composizioni appare
così, con tutta evidenza, principio di ordine e di armonia.
Del resto esso è l’alfa e l’omega di tutto ciò
che esiste. La materia, o quanto l’artista dispone nello spazio dell’opera,
palesemente da esso trae origine e ad essa ritorna.
Altri artisti inseriti: Eduardo Palumbo (nella
ricorrenza del suo ottantesimo compleanno), Antonio Pandolfelli, Cosimo Budetta,
Primarosa Cesarini Sforza, Edolo Masci, Antòn Pasterius, Barbara Giacopello ecc.
Nella sezione Cinema leggiamo Lotta di
una minoranza per la propria affermazione sociale. La trilogia X-Men alla luce
dell’11 settembre di Lapo Gresleri, che scrive che l’attacco al World Trade
Center dell’11 settembre 2001 è stato il primo evento mediatico globale del
nuovo millennio: nello stesso momento migliaia di persone fissavano sui loro
schermi i due aeroplani che penetravano nelle Torri Gemelle, provocandone il
conseguente crollo, facendo dell’11/9 una data immediatamente riconducibile a
quell’unico avvenimento.
Forse proprio il carattere così fortemente visivo
dell’attentato terroristico ha portato il cinema statunitense a trovarvi nuovi
riferimenti narrativi e figurativi che hanno segnato buona parte della
produzione di questi ultimi anni.
Sono moltissimi i film che fanno riferimento all’
11 settembre come Fahrenheit 9/11 ((M. Moore, 2004), United 93
(P. Greengrass, 2006) o World Trade Center (O. Stone, 2006), ma ancora
di più sono i titoli che vi si legano in modo indiretto, rimandando – con una
serie di richiami iconici, tematici e scenografici – a situazioni ed emozioni
vissute in quell’occasione che, attraverso la commistione coi diversi generi ed
i loro tratti distintivi, mettono in luce un’ideologia nazional – popolare
rilanciata proprio in questi anni, in modo tanto efficace quanto accattivante,
in un momento fondamentale per la storia del Paese e per la popolazione ferita,
bisognosa di sentirsi sicura, protetta e allo stesso tempo incoraggiata e spinta
alla reazione. come suggeriscono Terminator 3: le macchine ribelli
(J. Mostow, 2003), Die Hard – Vivere o morire (L. Wiseman, 2007) o
John Rambo (S. Stallone, 2008).
In diversi casi il cinema è riuscito a ribaltare
questi elementi nazionalistici allo scopo di far riflettere e far riflettere
criticamente sulla condizione dell’uomo (americano) medio contemporaneo e sulla
sua Nazione dopo la catastrofe.
Proprio su questa tipologia di film si vorrà
porre l’attenzione in questo lavoro, in particolare sul genere cosiddetto
“supereroistico” e in specifico su come i tre capitoli della trilogia X-Men
(X-Men, B. Singer, 2000, X-Men 2, Singer, 2003; X-Men: Conflitto finale, B.
Ratner, 2006) abbiano affrontato e rappresentato l’11 settembre e il
contesto sociale da esso scaturito.
Il genere supereroistico nasce negli Stati Uniti
negli anni ’80, quando il Paese guardava all’estero e all’Unione Sovietica come
a una minaccia da controllare e contrastare.
La politica reaganiana proponeva un nuovo modello
di uomo e americano patriottico, impavido e virile, legato ai valori
tradizionali, pronto a intervenire per la giusta causa e per questo sempre
vittorioso, in pratica un eroe.
Sono questi gli anni dei film con Stallone, A.
Schwartzenegger e B. Willis, eletti in breve a modello estetico ideale di una
nuova mascolinità, fatta di muscoli coraggio e forza bruta.
I primi film sui supereroi rispecchiavano
esattamente questo modello; non a caso le storie dei vari Superman e Batman
(come i fumetti degli anni ‘40 da cui traggono ispirazione) raccontano il
sacrificio di una vita anonima e agiata dei due personaggi Clark Kent/ Superman
e Bruce Wayne/ Batman in nome di giustizia, libertà e sicurezza della
popolazione difese con una straordinaria forza fisica il primo e con l’ausilio
di una di una efficacissima tecnologia il secondo, in strenue e continue lotte
contro il villain di turno, acerrimo nemico dell’eroe e spesso suo
opposto negativo (Lex Luthor e Joker, solo per ricordare i principali) o da un
outsider, emarginato e reietto dalla società, carico di odio e disprezzo
per l’umanità, proprio a causa dalla sua esclusione dalla vita civile della
Nazione (si pensi a Pinguino).
In questo panorama l’orizzonte è piuttosto netto:
o si accettano le norme vigenti o si è annientati dalle stesse; o con l’America
o contro di essa.
Ma cosa distingue il secondo filone del genere,
nato nel 1998 con Blake di S. Norrington e diffusosi poi con un impressionante
numero di titoli più o meno riusciti che ne hanno fatto in poco tempo una delle
maggiori fonti di guadagno ai botteghini di tutto il mondo?
Un aspetto fondamentale sono le serie di fumetti
di riferimento: salvo alcuni casi, i film di questi anni sono ispirati agli
eroi della Marvel Comics, storica casa editrice americana fondata negli anni ’60
da S. Lee, che con il suo ingegno ha rivoluzionato l’universo fumettistico non
solo nazionale, dando alla luce personaggi entrati a pieno diritto
nell’immaginario collettivo mondiale, come i Fantastici Quattro, Spider-Man,
Capitan America, Iron man e gli stessi X-Men.
Altre valide firme della sezione Cinema: Sarah
Panatta ed Eloisa Guida.
Nella sezione Recensioni ne
incontriamo molte interessanti, tra le quali quella di Velio Carratoni al libro
di Francesco Cordelli L’ombra di Piovene, Le Lettere, 2012.
In essa il nostro, analizzando il testo di
Cordelli, afferma che nelle storie letterarie del Novecento, Guido Piovene, per
diversi anni, è risultato un nome immancabile.
Assieme a Moravia, Cassola, Soldati, Bassani,
Calvino ecc. risultava pure tra i nomi più letti. Da qualche anno è sempre più
sparito dal mercato.
Ci sono giovani che sanno poco o nulla di lui.
L’autore ha rinfrescato la sua memoria, avendolo trattato in convegni.
Confessa che certi titoli, come Lettere di
una novizia, Le furie, Le stelle fredde dimostrano la sua capacità di
narrare.
Anche se la sua scrittura era troppo
giornalistica o infarcita di tanti significati concettuali che la imprigionavano
in un moralismo libresco e pedissequo.
I suoi dissidi derivavano da una coscienza
conflittuale, da ex seguace di un fascismo e antiebraismo professati con
convinzione.
Per poi ricorrere a ipocriti ripensamenti o
battutine di petto da tipico vicentino della prassi bigotta e dottrinaria.
Così lo chiamavano il conte rosso, quando si
dichiarava marxista e cattolico di certe osservanze paradossali.
E i suoi personaggi perdevano della sua
freschezza originaria per divenire fantocci di fredda osservanza che cadevano in
un’astruseria d’occasione.
Eppure non si poteva non leggere, dato che la sua
posizione restava da super intelligente di meticolosità farcite da
sovrastrutture raggelanti.
Il suo aspetto migliore derivava da Mauriac, dai
francesi, dall’apparato ghiotto e analitico.
Altri autori di suoi influssi personali,
Constant, Sénancourt, gli creavano complicate mancanze di risorse
extraletterarie di matrice ironica e giocosa.
Il freddo moralista lo rendevano un nichilista
ragionatore di un’osservanza distaccata e arzigogolata di matrice glaciale,
anche se a proposito di Romanzo americano Cordelli ammette che “della
gioventù conserva la gioia”.
Il merito di Cordelli è quello di avere
riproposto Piovene. Lo ha fatto per ragioni autobiografiche, dimostrando come
una volta fosse inevitabile, per il pubblico per se stesso, per ragioni
letterarie.
Oggi avviene che si mandano in cantina tante
firme che potrebbero documentare e farci sentire collegati con tasselli della
storia.
Non si può seguire la moda di condannare al
dimenticatoio per ragioni di mercato.
Se un autore ha avuto seguito e prodotto opere e
garantito presenze autentiche non dovrebbe essere cancellato, non essendo
gradito ai tanti direttori di collana.
E ciò dovrebbe avvenire anche per esponenti della
musica, dell’arte e del teatro ecc.
Le riserve di Cordelli nel ricordare Piovene
inducono a tante riflessioni. Così come il metodo frequente di girare alla
larga da lui.
Non c’è bisogno di santificazioni pregresse, né
di sentirsi lontano, né di rivisitazioni tardive, né di timore di rimanere
imprigionati dal novecentismo e dallo stilismo conservatore.
Chi fa della critica dovrebbe vagliare i testi,
non solo temere di compromettersi con le intenzioni e i contorni.
Gli editori hanno ragione a non puntare su autori
che non rendono. Ma le discrepanze rimangono senza giustificazioni.
I restauratori, i collezionisti, gli addetti alle
catalogazioni dovrebbero insegnare ai critici il metodo della freddezza
obiettiva e non già delle vesti stracciate o messe a punto.
È ovvio che non può piacere tutto, ma non c’è
bisogno di dirlo dato che le riserve non dovrebbero prevalere a senso unico.
Il problema è che si editano, sempre meno, testi
per ragioni storiche o per documentare epoche e periodi.
Mercato, fatturazioni, classifiche. Il resto fa
parte neanche più del cimitero dei testi.
C’è da evidenziare che il periodico è pubblicato
con il contributo della Fondazione Marino Piazzolla di Roma (www.fondazionemarinopiazzolla.it)
che ha all'attivo testi di autori europei e internazionali. La sezione della
rivista ad essa dedicata, contiene, tra l'altro, il recupero di un pregnante
intervento di Piazzolla su Apollinaire (definito “uno dei primi poeti a scoprire
la inesauribile funzione consolatrice della fantasia in un mondo che si
trasforma, giorno per giorno”), la seconda parte dell'intervista rilasciata dal
fondatore al Canale Culturale della Radio Nazionale Francese nel 1978, la poesia
del nostro Viaggio d’andata, tratta dalla raccolta Esilio
sull’Himalaya, “Il gioco musicale di Marino Piazzolla” di Canio Mancuso (“La
sua rivoluzione è nell'aver affrancato il canto dell'oggettività, senza
svuotarlo di senso, anzi facendo scorrere sul filo della musica una visione
rigorosa della storia”), “L’aspirazione dell’esilio” di Maria Lenti, in
notizie “Il senso del limite”, motivazione dell'assegnazione del Premio “Città
di Penne – Fondazione Piazzolla” 2012 per la “Poesia edita” a Franco Buffoni e
per l'“Opera prima edita” a Silvia Pascal.
La Fondazione svolge un’intensa attività di
carattere culturale (presentazione, incontri, assegnazione di premi letterari,
concerti e altro); prende nome dal suo fondatore Marino Pasquale Piazzolla,
poeta critico, filosofo, pittore, al quale sono stati dedicati recentemente due
convegni, i cui atti sono stati pubblicati nel volume intitolato Ci stiamo
abituando all’inferno, Fermenti 2012.
Piazzolla, nato nel 1910, è un autore che in
vita, in un contesto letterario,nel quale i poeti più importanti erano Montale,
Ungaretti, Quasimodo, Pasolini, Cardarelli e altri, è rimasto in una posizione
di outsider, anche se è stato riconosciuto il suo indiscutibile valore,
rimanendo appartato, rifiutando compromessi, disdegnando giochi o prebende.
Dopo la sua morte ha ottenuto una maggiore
attenzione da parte dei suoi lettori e i riconoscimenti postumi ne hanno
delineato la fisionomia di un versificatore interessante e originale, nonché
quella di un critico e di un intellettuale di grande intelligenza e di raffinata
cultura.
In Italia un’associazione di carattere culturale,
come la Fondazione Piazzolla, con le sue poliedriche attività, è sicuramente una
delle più importanti e attive, tra quelle che fanno riferimento al nome di un
poeta.
Per concludere ricordiamo due pregnanti
interventi della rubrica Attualità: “Deserto dei libri” di Luciana Riommi e “Il
tempo della crisi” di Giovanni Baldaccini. Il primo sulla presenza dei libri nel
panorama grottesco-surreale della sfera italica in cui sono troppi i miti finti
o logori e il secondo sul fenomeno della crisi che non finisce mai, anzi si
aggrava in tutti i ceti e gradi della nostra esistenza, ormai divenuto un di più
delle nostre presenze umbratili.
Rimane il consumare per timore di durare o
manifestarci. C'è solo immutabilità e nulla per percepire il senso della fine.
|