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Nella prefazione a La trama strappata Donato Di Stasi fa una similitudine tra letteratura e vita; scrive il curatore che la vita apre e chiude il suo sipario con parecchi colpi di scena; tale è la letteratura, ombra vigorosa sui piccoli palcoscenici dei narratori e dei lettori. Un’antologia di racconti, nei suoi vari elementi, ci dà una visione traslata, rappresentata nella scrittura, del reticolo lacerato della socialità; tra l’inutile fragore della routine televisiva e i diversi destini che la creazione letteraria porta al centro della scena, sono di gran lunga da preferirsi questi ultimi: infatti la televisione presuppone un’imposizione di programmi per l’utente, gran parte dei quali sono vera spazzatura, mentre la fruizione della letteratura, nonostante la crisi ormai storica del libro, comporta, con modalità diverse, un arricchimento dell’interiorità del lettore, che può essere tale anche navigando su Internet, sui molti siti letterari on-line. Il titolo scelto La trama strappata, intende asserire che la vera partita della contemporaneità si gioca tra una finta e posticcia trasgressione e un’adesione convinta allo gliommero della realtà, ora ridotta in sfacelo in favore di una virtualità telematica che inchioda agli schermi dei personal computer e allontana (come Ulisse da Itaca) dalla vita vera seppur complessa, contraddittoria, dolorosa. Gli autori antologizzati sono nove: Laura Azzali, Silvana Baroni, Velio Carratoni, Gemma Forti, Assia Papp, Anton Pasterius, Enzo Rega, (con interventi di Claudia Iandolo e Ignazio Mugnaini), Gabriele Sabatini, Piero Sanavio; essi presentano racconti tra loro molto eterogenei per stile, forme e tematiche, tutti caratterizzati dal comune denominatore dell’alta qualità espressiva; anche attraverso l’antologia che prendiamo in considerazione, ci accorgiamo della forza della parola scritta, che resta sempre tale, anche nell’attuale società.

La prima autrice antologizzata è Laura Azzali, nata nel 1980; ci presenta il racconto intitolato On the way to Santiago, scritto in prima persona, che ha per protagonista la coscienza di un assassino; la natura del suo crimine resta imprecisata, avvolta nel mistero. C’è una grande introspezione e, come punto nodale della storia, incontriamo il pentimento dell’uomo che è braccato dalla polizia e riesce a farla franca. Il protagonista intraprende un viaggio di redenzione, ammesso che questa sia possibile nel suo caso, verso Santiago di Compostela, luogo mistico e sede del famoso santuario. Paradossalmente il racconto si apre con la scena del criminale che entra in un albergo e legge il libro della Genesi. L’io narrante è molto autocentrato e appare a noi lettori, una figura fortemente inquietante. La prosa è scattante e, attraverso questa, ci accorgiamo che la personalità del protagonista è pervasa da una forte lacerazione interiore e l’io-narrante avverte molto il senso del male e del peccato commessi. Avendo una forte propensione per il misticismo si rivolge a Dio, ringraziandolo di essere in luoghi ameni e non in carcere. L’intreccio è intrigante e il tempo della narrazione è sempre al presente, non essendoci analessi o prolessi. Come scrive Di Stasi, Laura Azzali compone un diario pieno di dettagli riguardo ai giorni segnati da ascensioni solitarie e brevi immersioni nella civiltà urbana: la Spagna vibra come la patria del sentimento, nella quale echeggia un segreto, capace di sottrarsi al calcolo e alle fatiche del male. Il racconto si chiude con l’accorata preghiera del protagonista che chiede, senza mediazioni di confessioni o atti di culto, perdono a Dio entrando nel folto della nebbia, forse per suicidarsi. On the way to Santiago, può essere letto per certi suoi aspetti come un monologo interiore.

La seconda autrice è Silvana Baroni, medico psichiatra e psicoanalista. Il racconto Boomerang, che l’autrice presenta, risente del suo vissuto professionale, avendo per protagonista Leonardo, un giovane malato di mente. Esso è pervaso, visto l’argomento trattato, da una forte morbosità ed è suddiviso in brevi segmenti, pur avendo un carattere unitario. L’inizio della narrazione è caratterizzato da una fortissima drammaticità, con la minuziosa descrizione di un elettroshock subito dal giovane.

Scrive Di Stasi che questo racconto bianco entra nel senso delle cose, con una tristezza così abissale, da toccare il suo contrario, il comico, quando compare un’infermiera grassa, una portantina con le chele di gambero per l’elettroshock, insieme ad un improbabile psichiatra: si crea tra paziente e psichiatra un rapporto vittima-carnefice. Le atmosfere sono molto inquietanti, nell’annullarsi della personalità umana. Le descrizioni turbano spesso il lettore per l’amara ironia. C’è un forte sadismo da parte dello psichiatra.

La grammatica storica del giovane malato di mente Leonardo passa attraverso una corporeità lacerata e dolente per giungere all’anima e alla coscienza stessa scissa e inebetita.

Il terzo narratore che incontriamo è Velio Carratoni, giornalista, scrittore e poeta che, nel 1971, ha fondato la rivista Fermenti, periodico a carattere culturale informativo, con annessa casa editrice. L'autore ci presenta due racconti; il primo è Le ultime parole; ove prevale un profondo scavo psicologico nelle menti di Sara e del nonno, i protagonisti della vicenda. Tra Sara e il nonno c’è un rapporto conflittuale che, forse, ha la sua matrice, nell’incomunicabilità tra due generazioni diverse. Le ultime parole, come dal titolo, sono quelle che il nonno rivolge a Sara, alla quale dice che non basta la presunta avvenenza, dovendosi approfondire materie e nozioni, anche le più inutili, compresi certi doveri. Sara è vittima di tranelli e lusinghe. È uno scenario intrigante, quello messa in scena dall’autore, nel quale si evince l’eterna dialettica tra il mondo dei giovani e quello degli adulti, caratterizzati da diverse intrinseche differenze nell’accostarsi alla vita quotidiana e nell’approccio alle cose. Come scrive il curatore, Sara, ventiduenne universitaria, mantiene molti tratti dei più riusciti personaggi carratoniani, esponendosi nella sua dimensione paranoica, deformante, burattinesca. Le ultime parole risulta una storia a soggetto, un dialogo muto tra una nipote, decisa a farsi profanare da chiunque per sentirsi viva, e un nonno visionario, epitome dell’incapacità attuale di trasferire un benché minimo sistema educativo alle nuove generazioni. Il secondo racconto che il nostro ci presenta è intitolato Altro che Stefania e ha per protagonista Lentini, un anziano professore di Latino e Greco nei licei statali. Egli pensa che lo squallore provenga da tanti risultati alterati e logori. Lentini ritiene che la crisi della scuola sia dovuta ai mass-media, televisione e internet, che determinano negativamente le capacità cognitive dei ragazzi, sostituendosi alla scuola stessa e alla famiglia. Tanti alunni si erano confidati, ma lui non si sentiva un confidente. Stefania subisce ambigue attenzioni da parte di un professore di Educazione Fisica e ne parla con Lentini che, durante le lezioni, sottolinea l’importanza di una felicità epicurea. Anche lui, però, risente del fascino di Stefania.

Secondo Di Stasi, per ripartizioni, definizioni e giochi conflittuali, un motivato Velio Carratoni imbriglia la sua natura libertaria e scrittorialmente libertina per aristotelizzare riflessioni di sicuro valore estetico e antropologico. Si crea una complicità mentale tra Stefania e l’anziano professore; la ragazza ha una dolorosa storia alle spalle, essendo suo padre un capo spacciatore di droghe pesanti, con varie permanenze in carcere, durante l’età della crescita della figlia. L’uomo era arrivato ad usare Stefania come scudo, quando si era barricato in casa e gli agenti, per restituirlo alla giustizia, avevano esploso colpi di arma da fuoco.

Ad un certo punto, la ragazza riferisce a Lentini di un approccio in macchina del professore di Educazione Fisica e di come lei avesse pensato di sollevare la propria gonna, mostrandogli ciò che desiderava, per calmare la sua agitazione. Lentini allora, durante la narrazione, immagina di confidarle che a sua volta desidererebbe toccarla, pensando però che così si sarebbe irrimediabilmente compromesso.

Anche in questo racconto è presente il tema del conflitto generazionale tra il professore e la ragazza. Lentini, per l’entrata nella sua vita di Stefania, accede ad un’altra ottica del suo approccio alle cose, esce dal suo guscio di serioso docente, tramite la presenza di Stefania che lo turba e l’intriga; così egli arriva a mettere in discussione tutti i suoi valori, sedimentati da anni nella sua coscienza, per riemergere alla vita nevrotico e vulnerabile.

Gemma Forti, poetessa e scrittrice vive a Roma dove è nata. E’ presente nell’antologia con due racconti. Il primo è Il maestro di Ikebana, nel quale la vita coniugale di Paula e Gildo viene messa a dura prova dalla presenza di un terzo, il maestro di Ikebana Hoko, che, entrando fisicamente come presenza fissa nella loro villa, diviene l’amante di Gildo: questo il punto nodale della vicenda.

Osserva Di Stasi, a proposito della scrittura di Gemma Forti, che basta mettere in opera il reagente chimico del delirio e della bellezza, della spavalderia e del nichilismo, per infilarsi nelle storie ideate da una scrittrice che diviene sempre più brava, precisa e rilassata. Sotto le sembianze di tacite convenzioni espressive, ribolle un mondo agli antipodi, un intero albero genealogico di individui avvelenati dall’eccesso di denaro o frustrati dalla sua eccessiva mancanza. Il racconto è in terza persona. Gildo è un regista e conosce Paula durante la produzione di un film hard e i due vivono un’intensa storia d’amore, che si concretizza nel matrimonio. La ragazza aveva studiato seriamente all’Accademia.

L’autrice utilizza il sistema di vari piani temporali della narrazione, della diegesi. Prima di incontrare Gildo, Paula aveva avuto diversi flirt con coetanei che considerava inconcludenti, ma non era stata mai innamorata; la ragazza aveva accettato le avance di Gildo, più grande di trent'anni. Gildo l’aveva portata a vivere nella sua lussuosa villa, dove condividevano un armonico rapporto di coppia. Il regista parte per il Giappone per lavoro e torna con Hoko. In un passaggio drammatico della trama, Paula, insospettita, esce di notte per seguire Gildo e lo scorge mentre amoreggia con Hoko. Così, come in una reazione chimica, per l’entrata di un nuovo elemento nella dualità Paula- Gildo, viene ad infrangersi l’idillio tra i due sposi. Anche il rapporto quotidiano tra Paula e Hoko diviene così invivibile e insopportabile. L’ultimo ricordo di Paula è quello relativo ad una cena sofisticata con i due uomini. La donna ricorda di avere messo nei cocktail a base di rum e succhi di frutta, una forte dose di sonnifero. C’è suspense e vaghezza nella narrazione perché Paula non sa cosa sia avvenuto, ma poi ricorda situazioni che restano taciute nel racconto. C’è un passaggio in cui Paula viene fatta salire con violenza in una macchina e portata in una prigione. Tutto resta imprecisato. Ad accrescere vaghezza e mistero, nella parte finale, la protagonista scoppia in una enigmatica e fragorosa risata. Pare che la trama abbia un andamento ellittico con il finale che si ricongiunge all’inizio, in cui troviamo Paula stordita, con la testa che le scoppia ed è portata via da una macchina. Veniamo a sapere che sono giorni che non mangia, non vive, non respira. In Il maestro di Ikebana colpisce l’originalità degli eventi narrativi e ci sono nello stesso tempo chiarezza e oscurità.

In Presa diretta, il secondo racconto, in terza persona, che Gemma Forti ci presenta, la protagonista è Selina, che, inizialmente, troviamo davanti a delle telecamere televisive durante un'intervista. Un narratore onnisciente descrive la vita della protagonista, che ha svolto il lavoro di domestica per tutta la vita, avendo lavato tonnellate di tovaglie e reso splendenti pile di piatti, vasellame e pentole; ha impastato pizze e dolci con le sue mani forti e grassocce e pulito chilometri di pavimenti; tutto nella narrazione è costellato da un crudo realismo e si incontrano diversi livelli narrativi; ne emerge una figura che ricorda vagamente certe donne di Cassola; Selina ha perso il suo bambino di un anno e poi ha avuto un aborto spontaneo. Il marito, un operaio edile, si è rivelato nel matrimonio violento e la donna è vissuta in una condizione di miseria. L’uomo è morto investito in un incidente stradale e Selina, fatto saliente, alla fine del racconto rivela, davanti alle telecamere, di avere provato felicità alla sua morte. Il cinismo della televisione in generale e della domanda che l’intervistatore pone a Selina, coincide, nel tono, con la risposta della donna. Protagonisti ideali del racconto sembrano essere il male e il dolore nelle loro varie sfaccettature.

Okkupiamo, scritto da Assia Papp, che vive a Roma, dove frequenta il liceo classico, è un racconto che ha per oggetto l’occupazione di una scuola superiore. Per quanto riguarda le pagine della giovane autrice, Donato Di Stasi parla di una ventata d’aria fresca; una scrittrice in erba si misura con temi non da poco: la distruzione della scuola pubblica, la cancellazione della cultura, la metamorfosi di un’intera generazione in una batteria di polli da allevamento. Si tratta di un racconto in prima persona e l’io-narrante è una ragazza diciassettenne, che guida l’occupazione in un liceo. La prosa è molto leggera Assistiamo, in questo racconto, alla descrizione di un mondo giovanile ribelle, controcorrente, ma non violento, se non in rari casi; attraverso i comportamenti dei personaggi, emerge un universo giovanile pieno di problemi, ma anche portatore di valori positivi. Nelle prime righe l’io narrante fa alcune riflessioni, più che delle descrizioni di eventi. I ragazzi che occupano sono intervistati dai giornalisti. Un intervistatore afferma che il commissariato di zona ha detto che dopo pochissimi giorni la polizia manderà a casa i giovani. L’occupazione viene raffigurata in modo minuzioso con descrizioni di stati d’animo e luoghi e oggetti. Il movimento tende ad una scuola più libera ed incontriamo un forte realismo nelle immagini descritte; non a caso Assia Papp è una studentessa di scuola superiore.

Nelle prime righe di Un incontro insulso, Anton Pasterius afferma, con intento programmatico, che le sue pagine raccontano un incontro tra due persone e si costituiscono di fatto come un piccolo saggio sull’inutilità delle relazioni umane, addolcite dalla loro fallacia. Nella finzione letteraria il narratore afferma di riferirsi a un fatto reale; il protagonista sarà Mr New-Rose Berg, mentre l’altro diverrà Mr Fred Erik Wiener. Il primo ricorda il suo incontro con uno psicoanalista, al di fuori di una relazione analitica, dall’ambito di una cura; New Rose esce deluso dalla sua esperienza e pensa che la sua relazione con lo psicoanalista non gli è servita a nulla e nutre scarsissima stima sulla sua professionalità, a causa del fatto che non sapeva rispondere a nessuno dei suoi interrogativi culturali sulla natura dell’umano, che New Rose avanzava per tutta la durata delle sedute. L’interlocutore dell’analizzato rimaneva silenzioso o, usando la maldestra tecnica di chi non sa, riproponeva la soluzione del problema al richiedente; New Rose era andato via a testa alta, riproponendosi di studiare in prima persona i testi della teoria e della pratica psicoanalitica. Poi New Rose incontra a Parigi un italiano che si occupa di psichiatria e di psicoanalisi, il cui nome il cui nome era stranamente Fred Erik Wiener . New Rose interroga pure Erik Wiener e giunge alla conclusione che Erik ha dei forti buchi cognitivi. Wiener invia all’amico una e-mail, nella quale gli dice di aver fatto un sogno interessantissimo che vuole rivelargli. Come scrive il curatore, il centro del racconto Un incontro insulso è un vero prodotto onirico e in esso c’è visionarietà e originalità. Niente meno Pasterius scomoda Sigmund Freud, in sogno per rapinare un’intervista a Gesù, che se ne sta inamovibile e prodigo a passeggiare sulle acque di un laghetto; il dialogo tra Freud e Gesù possiede l’ingrediente metapsicologico, adatto a mettere in moto la riflessione nei nostri tempi depistanti. Si nota un contrasto stridente tra il positivista Freud e Gesù, il primo fondatore delle psicoanalisi,, il secondo della religione cristiana; New Rose giunge alla conclusione che Wiener, nel sogno, si era identificato in Freud, che si permetteva di intervistare il figlio di Dio; nel sogno New Rose e Freud hanno un alterco continuo. La scrittura di Pasterius è densa e icastica e presenta dei caratteri surreali; è presente l’elemento di un atteggiamento ironico verso la psicoanalisi, in particolare quella junghiana.

Enzo Rega è nato nel 1958; in questa sede presenta il racconto La controra è l’ora giusta, con interventi di Claudia Iandolo e Ivano Mugnaini. All’inizio della narrazione, la voce narrante in prima persona, lascia la stanza da letto dove una lei dorme, dopo una mattinata di lavoro, e si distende sul divano con un libro in mano; è la controra, l’ora più calda di un’estate infuocata e il caldo entra nella stanza e fuori l’asfalto è arroventato. L’io – narrante è in vacanza e vengono minuziosamente descritti i preparativi per l’atto della lettura, in un modo che ricorda quello detto nelle pagine iniziali di Se in una notte d’inverno un viaggiatore, di Italo Calvino; quindi nella scrittura c’è il tema della lettura. Mentre l’io-narrante legge squilla il telefono e un interlocutore chiede al protagonista un racconto sul piacere della lettura, nella controra del Sud; il narratore inizia a scrivere il racconto, ma sente che non può farcela da solo e manda delle e-mail a Claudia e Ivano, per chiedere a ciascuno di loro un raccontino da interpolare al suo testo che farebbe da cornice. Cerca un raccontino che faccia da controcanto, nella controra di diverse esperienze di lettura. Intanto continua a buttare parole per parlare di altre parole. Claudia risponde inviando il raccontino Controra e si crea un gioco ad incastri. Scrive Donato Di Stasi che, con i toni languidi di una scrittura sudata, Rega compone un carosello folclorico di citazioni ammalianti e pacate, al di sopra delle quali aleggia soddisfatto un rinnovato piacere della lettura. Così il testo diviene complessivamente un ipertesto, attraverso il giustapporsi della cornice e degli inserti. In La controra, Claudia Iandolo scrive che la stessa controra era una specie di terra di nessuno, un tempo sospeso, in cui si fermano gli orologi. In La controra è descritto il ritratto di una figura femminile della quale è delineata efficacemente la personalità; è una cinquantenne che scende dalla metropolitana; la donna, tornando a casa, all’ora della controra, è presa da una forte ansia, per la preoccupazione di un quotidiano incombente; i figli e le scadenze da risolvere; poi torna tra le mura domestiche e si sente in salvo, coltivando ricordi lieti dell’infanzia, in un’atmosfera di onirismo purgatoriale; in questo brano è detto tutto il disagio della controra a livello psicofisico; segue un breve brano di raccordo di Rega, nel quale l’io-narrante apre il computer e trova la e-mail di Ivano, nella quale è contenuto un racconto, che è caratterizzato da una vena surreale. L’io narrante si definisce uno di Macondo, la città mitica di Marquez del famosissimo Cent’anni di solitudine. Il frammento di prosa è caratterizzato da un’aurea sognante; viene detto il personaggio Saro, che si è invaghito della parola; la voce narrante si compiace di manipolare il destino di Saro, personaggio da lui creato; nel finale del racconto, scritto da Rega, l’io narrante è a letto con la moglie che legge e legge egli stesso, in un’immagine che ricorda i personaggi del lettore e della lettrice, creati da Italo Calvino, sempre In una notte d’inverno un viaggiatore;. in sintesi in La controra è l’ora giusta, si mescolano onirismo, la passione per la lettura, i sentimenti e i luoghi, tutti all’ora della controra, che fa da sfondo a tutte le descrizioni che emergono dalle pagine.

In Libri a metà, di Gabriele Sabatini, protagonista è il tema della lettura dei libri che si portano a termine e di quelli che non si portano a termine. Scrive Di Stasi, commentando il racconto, che leggere è una forma spirituale di vita: significa educare la propria fantasia a trarre dal fondo delle cose il loro significato simbolico. Leggere comporta un disciplinatissimo amore per la forma, contro le minacce dell’informe, dell’irrazionale. Inizialmente assistiamo ad un dialogo sul tema della lettura; in esso uno degli interlocutori dice di non riuscire a portare a termine i libri che legge e che ciò gli crea una forte frustrazione e, addirittura, un vago senso di colpa. I due interlocutori sono due bibliofili, che si confrontano sui temi del libro e della lettura; c’è quindi il tema del libro nel libro, insieme a quello della scrittura, che riflette su se stessa; si tratta di due amici.. Il lettore si rammarica di non essere costante nella lettura; in Libri a metà il tema fondamentale è quello della lettura stessa; i libri stessi possono divenire un’ossessione. L’io narrante e il suo interlocutore camminano e arrivano a Villa Borghese, dove c’è una statua di Goethe, elemento che apre altre prospettive sul tema della letteratura; l’ambientazione è quella della città di Roma; una dei temi centrali è quello dell’amicizia tra i due interlocutori, rafforzata dalla comune passione per i libri. C’è una cura particolare nella descrizione dei luoghi e dei paesaggi e non manca un accurato scavo interiore negli animi dei protagonisti. A casa di Roberto, il lettore che si sente penalizzato, c’è un’enorme libreria bianca che è del tutto vuota e potrebbe simboleggiare l’idea del non detto. C’è morbosità nell’idea della lettura, che si fa Roberto, e i libri diventano essi stessi un problema e, a causa di essi, Roberto si mette a piangere e a scalciare come un bambino. I due amici finiscono con il catalogare i libri, per dare un ordine simbolico al caos in cui sono immersi. Un altro tema è quello dell’incomunicabilità, quando il protagonista manca ad alcuni incontri con Roberto. Il finale del racconto è tragico e patetico con la raffigurazione della scena della mamma di Roberto, che non vuole più ascoltare e con Roberto stesso che, al culmine della sua “nevrosi da libro”, è in preda a forti attacchi nervosi e chiede dell’amico.

In Die Thalmann Brigade, come scrive il curatore, Pietro Sanavio ricorre ad una scrittura piatta, densa e avvolgente, con la quale vuole dirci delle cose fondamentali: che la vita acquista senso solo a raccontarla, oppure che le relazioni sentimentali non arrivano mai a destinazione, giacché si perdono nella violenza e nell’ambiguità del destino labirintico e angosciante. La famiglia Scroto (orribile dicto) e l’io narrante non si appiattiscono sulla pagina, risultano come obelischi, con le loro incisioni conformistiche, sensuali, bugiarde, arrivistiche, umane, insomma, e, finalmente meditative. Il racconto descrive la storia di una famiglia e l’intreccio è movimentato. Nel racconto l’io-narrante interagisce con la famiglia Scroto. Fondamentale è la figura di Lia, che diviene l’amante dell’io narrante, in un punto della diegesi: i due vivono una dolorosa relazione. C’è il tema del racconto nel racconto, che crea una certa ridondanza, essendo l’io narrante uno scrittore. Il racconto è preceduto da un antefatto, che risale al secondo dopoguerra; infatti, in esso, sono presenti molti livelli temporali. Lia è un personaggio inquieto ed è al centro della narrazione e, col suo comportamento, crea inquietanti atmosfere., nelle quali sembrano prevalere la nevrosi, con il suo relativo male, e un tono umbratile. All’inizio della narrazione viene descritta la famiglia Scroto, composta da Erminio, che insegna Storia all’università, è deputato all’opposizione e che ha scritto un libro su Knox, che ha avuto un certo successo. Erminio e la moglie Fausta ricevono spesso accademici stranieri e invitano l’io narrante ai dopocena, affinché li aiuti nella conversazione. Lia è l’unica femmina, dei tre figli della coppia. Come i due maschi Lia era iscritta a Medicina, per avere acceso, dopo la laurea, ad un lascito di famiglia. La donna è un personaggio tormentato, pieno di ombre; quando l’io narrante le chiede se le sarebbe piaciuto fare il medico, lei risponde di no. Nella trama sono delineati vari personaggi, come l’avvocato Giorgio, amico dell’io narrante . Tutta la trama si gioca su vari livelli temporali. Slitta, ad un certo punto, il filo del discorso, di qualche anno, quando vengono detti due medici giovanissimi in un treno diretto a Roma, che parlano di Lia e della sua morte prematura, un suicidio. Carlo, uno dei fratelli di Lia, dice al protagonista che Lia si è suicidata e che da anni era alcolizzata e che, probabilmente, faceva uso di droghe. Nella morbosa storia di Lia c’è anche l’episodio di un aborto, che la ragazza si era procurato; il dolore caratterizza a tutto tondo questo personaggio nevrotico e che non era mai giunto ad un equilibrio e ad una maturazione e che, tra l’altro, fumava moltissime sigarette e beveva caffè a profusione. La scrittura di Sanavio è spezzata, frammentaria, e così diviene suggestiva ed efficace; nel leggere la storia sembra di affondare nella pagina, in un racconto caratterizzato da un crudo realismo, articolato nella sua verosimiglianza e intriso di un fortissimo pathos.

Recensione
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