Lo scrigno del dialetto
Meli - Porta - Belli - Di Giacomo
Nino Borsellino, autore del saggio che prendiamo
in considerazione in questa sede, ha insegnato Letteratura italiana e Storia
della critica letteraria alla “Sapienza” di Roma.
È stato redattore dell’ Enciclopedia dello
spettacolo.
Ha diretto la “Rivista di studi
pirandelliani” e con Walter Pedullà La storia generale della letteratura
italiana (1999, 12 volumi); ha scritto numerose opere di saggistica.
Lo scrigno del dialetto è stato pubblicato con il
contributo della Fondazione Marino Piazzolla di Roma, presieduta da Velio
Carratoni, poeta, scrittore, saggista e giornalista, fondatore della Fermenti
Editrice e direttore della rivista “Fermenti”, fondata nel 1971.
Il testo comprende quattro monografie dedicate a poeti che, tra il
Settecento e l’Ottocento, in Italia, si sono espressi in dialetto (Meli
palermitano, Porta milanese, Belli romano e Di Giacomo napoletano).
I suddetti autori sono esponenti classici di
un’eccentrica e tutta italiana modernità; come è scritto nella nota
introduttiva, optando per il dialetto, attuano, diversamente e prodigiosamente,
la conversione del popolare nel poetico.
Situazioni, personaggi e ambienti non fanno
folclore, ma teatro, racconto e anche musica e diventano occasioni per i
versi in vernacolo.
La poesia di questi versificatori è frutto di un’ars poetica
coscientemente perseguita; per questo si tramanda, oltre che con la lettura e
l’ascolto, con un esercizio assiduo d’interpretazione, come per tutti i
classici.
Il dialetto è la lingua nativa dei parlanti
dell’Italia peninsulare e insulare e, usato in poesia, con uso consapevole,
giunge ad esiti di vaga bellezza e originalità.
Quando si formalizza in lingua scritta è una
scelta; è un atto di scrittura che riflette una poetica e produce effetti
mimetici diversi da quelli prodotti dalla lingua standard.
Secondo il parere di chi scrive, i suddetti
risultati espressivi sono legati, in senso antropologico, a sostrati e
microcosmi, a luoghi e siti, sottesi a radici culturali molto differenziate tra
loro, che s rivelano nei vari linguaggi.
L’uso del dialetto è stato tanto integrale
quanto parziale.
In prosa ha indotto alla contaminazione, al
pastiche, ma in poesia la sua adozione, con l’eccezione del maccheronico, è
rimasta incontaminata.In Natura e ragione. L’Arcadia di Meli viene delineata la figura
di Giovanni Meli, che nacque nel 1740 a Palermo.
La città era diventata da qualche anno sede
vicereale di un regno di dinastia francese; tale dominio era succeduto dopo
complesse vicende di guerra e altrettanti complicati accordi diplomatici sul
trono di Napoli con Carla di Borbone.
L’aspetto di Palermo era da tempo, quello tipico delle capitali
europee.
Meli aveva coscienza delle problematiche causate dalle condizioni
civili e sociali dell’isola, nelle quali era coinvolto come borghese di media
estrazione.
Costretto dalle circostanze dovette, per vivere, fare il medico, senza
averne la vocazione, indossare la veste di abate senza essere sacerdote, per le
visite nei conventi.
Incontrava spesso gli aristocratici, che pure
disprezzava come ceto ozioso e parassitario.
La produzione poetica di Meli gli diede una notevole fama di cui egli
non si vantò e della quale non godette i benefici.
Pur padroneggiando, in versi e in prosa l’italiano, il nostro decise di
scrivere in dialetto.
Questa scelta fu consapevole, culturale e artistica, risultato di
un’avvertita coscienza letteraria.
Per Meli il siciliano non era una lingua
subalterna. Usò il vernacolo rozzo per puro divertimento.
Per contraffare la parlata popolare si espresse
in dialetto; si sentiva depositario di una grande tradizione, come erede del
greco – siculo Teocrito, massimo autore di idilli.
Meli volle ripristinare in dialetto questo genere di poesia; gli
:assegnò la funzione di esprimere la fertilità della natura e l’aspirazione ad
un ideale irenico, come nel sonetto II della “Buccolica”.
In questo testo il poeta si rivolge al dio
Pan, chiedendogli di difendere la pace dei campi dalla violenza delle fiere e
dai pericoli degli ambiziosi e dei profani.
I brani sono riportati sia in siciliano che nella “traduzione”
italiana, elemento che rende intrigante la fruizione degli stessi.
Il poeta descrive una natura incontaminata, nella quale sono immersi il
dio Pan e la ninfa Siringa da lui amata.
Si entra così nel consueto repertorio
settecentesco, sfruttato fino alla sazietà dalla letteratura arcadica.
I poeti di Arcadia si travestono da pastori e assumono nomi fittizi.
Le donne sono vagheggiate come ninfe e
pastorelle e la campagna diviene un’oasi erotica e sentimentale.
Per Meli la vita campestre era sinonimo di un Eden sereno, per chi ama
la pace e la quiete, lontano dalle ansie della città.
Nonostante le apparenze, il poeta non assecondava convenzionalmente la
moda arcadica.
Visse realmente a contatto con la natura,
soprattutto nei cinque anni trascorsi a Cinisi, paese vicino Palermo.
Qui scrisse un trattato scientifico-filosofico, Le riflessioni sul
meccanismo della natura, affermando che è difficile fissare il significato
della parola natura.
Infatti per Meli non esiste altro
termine, che sotto un dato segno, contenga un numero così grande di idee così
varie e diverse.
La natura era per il poeta un ambito di costante riferimento; la
considerava sia dal punto di vista filosofico, sia da quello estetico, oltre che
da quello biologico.
Come artista trovò un accordo tra arte e natura,
invece di contrapporre i due termini..
Anche il dialetto poteva servire a questo scopo;
esso forniva la possibilità di dare forma, tramite lo strumento della lingua
naturale e parlata, a pensieri, idee, sentimenti maturati come risultato di
cultura.
In questo modo la poesia avrebbe ritrovato la
sua ingenuità primitiva.
La semplicità della poetica di Meli non deve
trarre in inganno.
È la risultante di un assiduo riflettere, che si
sviluppò a contatto con i testi fondamentali della cultura del suo tempo, dal
sensismo, all’enciclopedismo degli illuministi.
Meli era convinto che la natura fosse materia
sottoposta ad un continuo movimento di forze.
Tali energie tendono, anche disordinatamente,
alla conservazione della totalità.
Il nostro era contrario ad ogni interpretazione
metafisica dell’universo.
Non concordava con quella diffusa in Sicilia,
dai seguaci di Spinoza, che ritenevano il mondo come risultato di un’unica
sostanza divina compresa nella natura.
L’origini de lu munnu
è un poema burlesco - filosofico che non ha intenzioni esclusivamente
umoristiche.
Meli seguiva moderatamente l’insegnamento di
Rousseau; tuttavia presupponeva una forte diffidenza verso un troppo ostentato
primato della filosofia.
Il poeta vedeva nel connubio tra natura e
ragione l’origine dell’equilibrio morale.
La sezione del testo dedicata a Carlo Porta è
intitolata Recital Porta. I grandi monologhi. Con le poesie del poeta milanese, cinquanta
componimenti, pubblicati nel 1817, s’inaugura la stagione moderna della poesia
dialettale.
L’opera si è accresciuta via via nelle
successive raccolte, fino a comprendere 165 testi nell’edizione definitiva dei
Meridiani Mondadori, (Milano, 1975).
La stagione antica della poesia in vernacolo
l’aveva chiusa Meli, calando malinconicamente il sipario del teatro delle
maschere d’Arcadia.
Porta vanta con Meli un esercizio d’arte
dialettale.
Tale pratica non si applica solo a componimenti
brevi, lirici o satirici che siano; infatti si realizza anche in quelli di lunga
durata, se non epici o narrativi.
Il contesto milanese era molto diverso dalle
ambientazioni e dalle atmosfere descritte da Meli.
Lo spazio poetico dell’autore siciliano,
contiguo a quello dei narratori del suo secolo, è più animato di realtà
quotidiana.
Nell’immaginario di Porta non si ritrovano più
travestimenti simbolici o mitologici, che tendono ad universi pastorali o
rurali, parodie epico cavalleresche.
Si ricrea la dimensione umana, individuale e
sociale.
I contorni urbani ed ambientali, con uno
straordinario uso del linguaggio locale, delle risorse espressive in dialetto,
sono inscindibili come tutti i linguaggi poetici, da idee e gusto e da un
cervello che regoli le parole nel discorso.
Ritornando al versificatore palermitano, se si
prescinde dalla lingua, che li caratterizza in forma regionale, i suoi versi,
compreso il poema Don Chisciotti e Sancio Pancia, potrebbero essere
ambientati fuori dalla Sicilia, in un qualsiasi territorio letterario
immaginario.
I versi di Porta, invece, sono impensabili se
trasferiti fuori dal loro circuito cittadino.
Strade contrade botteghe tuguri e palazzi
signorili teatri osterie uffici amministrativi e di polizia chiese e conventi
fanno la topografia poetica della Milano giacobina napoleonica asburgica.
In questo ambiente il poeta visse dalla nascita,
nel 1775, alla morte, nel 1821, ad eccezione di pochi anni trascorsi a Venezia,
dopo il trattato di Campoformio del 1796.
In tale cornice l’autore collocò le storie dei
suoi personaggi umili e potenti.
Emblematica in questo senso è la tragicomica
avventura del primo grande protagonista narratore, Giovannin Boungee.
In essa il personaggio racconta a un notabile,
un “Lustrissem”, le sue “desgrazzi” per sfogo e solidarietà di sentimenti
antifrancesi.
La poesia è riportata in milanese e nella
traduzione in italiano; in essa Giovannin, asino di bottega come si definisce,
lascia il lavoro a notte inoltrata e se ne va verso casa zufolando, per farsi
coraggio nell’oscurità dei mali incontri.
Milano, la capitale del napoleonico Regno
d’Italia, è una città affollata di militari “prepotentoni”.
La ronda notturna della Guardia Nazionale
s’aggira carica di fucili che svettano alti come cardi e con uno strepito di
stivali ferrati strascicati come ciabatte.
Il galantuomo, primo spiacevole accadimento, è
fermato, indagato senza riguardo, sotto una vivida luce di lanterna; viene
interrogato come un delinquente; infine è lasciato andare con una brutale
lavata di capo.
Spaventato torna a casa, senza sospettare altri
rischiosi imprevisti; invece, trova il portoncino spalancato e sente per le
scale un grande fracasso.
Finalmente, nel chiarore della lampada di
strada, appare dal buio un militare francese con “sciabolone ed elmo a
criniera”; egli sta lì, e lo dichiara sfacciatamente, per godersi la moglie del
malcapitato, che è molto bella.
Giovannin difende il suo onore di marito, ma il
francese lo prende a schiaffi ed egli è costretto a lasciare il campo libero,
per evitare il peggio.
Al protagonista non resterà che la smargiassa
consolazione del debole che recita la parte del prudente.
Se fosse rimasto a litigare, avrebbe conciato
per le feste quel mascalzone, ma avrebbe commesso uno sproposito bestiale.
Giovannin è un personaggio delineato con molta
intelligenza e introspezione.
Eroe comico della sopportazione, Giovannin
Boungee esibisce le sue disgrazie con la bravura di un attore.
Riesce a strappare la divertita commiserazione
del pubblico.
La sua disavventura sembra riviverla col gusto
amaro dello scampato martirio.
Un parlato narrativo carico di espressioni
idiomatiche e di mimica teatrale scandisce il ritmo concitato del pericolo
ancora incombente.
Questo linguaggio fa sentire l’anelito del
sopravvissuto e la rievocazione ha l’evidenza del vissuto.
È evidente un perfetto taglio teatrale nella
messinscena degli incontri notturni e nelle battute del dialogo; queste, nella
smodata riproduzione dei diversi linguaggi, caratterizzano primari e comprimari.
Nelle poesie del poeta lombardo ricorre il tema
dell’infedeltà amorosa, della quale sono vittime anche personaggi femminili,
raffigurati in modo realistico, ironico, buffo, ma anche permeato dal dolore.
La parte del saggio dedicata a Giuseppe
Gioacchino Belli è intitolata: Roma by Belli un baedeker dai Sonetti.
La città di Roma contiene l’intero universo
poetico dei sonetti dello stesso versificatore (1791-1863).
Ma l’immagine dell’arte millenaria, che viene
fuori dai duemilacentosessantanove componimenti, che formano uno dei più
imponenti canzonieri di tutti i tempi, è estranea alla tradizione celebrativa
della romanità, pagana o cattolica, repubblicana o imperiale.
È una raffigurazione prepotente, bizzarra,
impudica.
Lo sguardo che osserva i monumenti delle sue
civiltà, posti a volte in così stretta promiscuità da sovrapporsi e confondersi,
è un’occhiata dal basso.
È lo scrutare del popolano della Roma del primo
Ottocento; egli è stupito da tanta magnificenza, ma anche incline a dissacrarla,
per ignoranza o istintiva ironia.
Quando si aggira solo tra le arcate del
Colosseo, dove si esercitano pittori di rovine e passeggiano incantati
visitatori, il popolano si lascia trascinare da quel tanto di riflessione
morale.
Questa gli suggerisce il confronto tra la pace
dell’immane rovina e il tumulto spettacolare dell’antico anfiteatro nella feroce
esultanza per la carneficina di gladiatori a duello e cristiani straziati dalle
belve.
Il titolo del sonetto Riflessione immorale
sur Culiseo, si prende gioco del moralismo ingenuo del popolano
monologante; interferisce nella sua pronuncia dimessamente romanesca,
forzandola, per il piacere d’irriderla.
E infatti i titoli, che dovrebbero limitarsi
alla funzione neutra del cartello, a volte cedono al gusto del commento
parodistico.
Altra volta i monumenti nella bocca dei popolani
perdono la loro realtà fisica e artistica per acquistarne una puramente
nominale.
Si susseguono in una filastrocca elencatoria che
li ridicolarizza tutti con deformi pronunce dialettali.
Le chiese de Roma
(342) è un sonetto che trascina una coda troppo
lunga per citarlo tutto, proprio perché di chiese a Roma ce ne sono moltissime.
Basti perciò l’intreccio delle quartine e della
prima terzina che fanno da prologo ad altre tredici terzine con elenco di decine
di chiese.
In quella Roma della Restaurazione, con
un’economia depressa, una società irrigidita dalla netta separazione dei ceti,
un’aristocrazia laica ed ecclesiastica ostile alle riforme, la plebe costituisce
un mondo a sé, senza miglioramento culturale.
I libri ispirano a chi detiene il potere
diffidenza; non sono robe da cristiani, sono merci da eretici, da evitare,
predica il prete in chiesa.
Perciò che stanno a fare tanti banchi di
libracci tra i rigattieri e gli straccivendoli del mercato di piazza Navona,
come viene espresso nel sonetto 1120?
Nella Roma dei Sonetti la solidarietà non
sembra ispirata ad amore cristiano, ma ad una caritas corporale.
L’avocato Cola, La famijja poverella
(sonn. 1731, 1677), sono un parziale campionario di cronaca cittadina, che si
iscrive nel repertorio del realismo sociale ottocentesco, nel cupo teatro della
miseria.
Protagonista del sonetto 1677 è una madre tenera
e disperata per la fame insoddisfatta dei figli – che Vigolo confronta col
dantesco Ugolino –.
Figura principale nel sonn. 1731 è un avvocato
squattrinato che si lascia morire senza chiedere carità nella casa vuota su
“quella sedia” che, nella sua “semplicissima realtà”, concentra tutta la
situazione della composizione, commenta sempre Vigolo.
È una serie di sonetti che rivela il fondo di
malinconia del genio comico di Belli.
La sua poetica è inequivocabile, stando agli
argomenti a sostegno di questa ferma dichiarazione.
Ma vale soprattutto il significato di
“monumento”.
Esso è quello originario di “memoria”, ma anche
quello più corrente di oggetto d’arte, fissato nel tempo una volta per tutte,
perché colto come “cosa esistente” e “senza miglioramento”.
Va sottolineata l’opposizione tra romanesco e
romano di questo grande poeta romano con pronuncia romanesca.
Il valore oppositivo delle due qualifiche è
stato impresso con marchiatura popolare e canagliesca dalla Nanna di Pietro
Aretino nella seconda giornata del Dialogo, quando la narratrice
rielabora parodisticamente la vicenda di Enea e Didone, come exemplum.
E Belli trasferisce la marchiatura morale
aretiniana ponendo nell’Introduzione l’accento sul guasto e la corruzione
Tali sono elementi che caratterizzano la lingua
plebea dei suoi autori, comunque da collegare alla sua monumentalità.
La lingua è come la statua corrosa di Pasquino;
è la statua parlante; ad essa i romani del Rinascimento attribuivano la funzione
di portavoce satirico dei malumori contro i potenti, col vantaggio
dell’anonimato.
Osservati dal Pasquino di Belli, preti cardinali
papi perdono la loro sacralità; i grandi eventi della Chiesa sono abbassati a
un livello di cronaca umile.
Si evince uno spaccato a tutto tondo delle
varie, pittoresche e spesso popolari atmosfere della città di Roma,
nell’Ottocento, nelle sue molte sfaccettature, attraverso i sonetti di questo
versificatore.
Il brano dedicato a Salvatore di Giacomo ha per
titolo: “Play Di Giacomo, Parole e musica”.
Prima di essere riconosciuto come uno dei
maggiori lirici in dialetto di fine secolo, il poeta napoletano (1860-1934) ebbe
fama di grande paroliere.
Fu l’autore che diede versi rimasti
universalmente celebri e nome all’età aurea della produzione melodica
napoletana, detta da lui digiacominiana.
Lo stesso Di Giacomo faceva coincidere l’inizio
di questa età con un avvenimento pubblico e di grande effetto spettacolare.
Tale evento fu l’inaugurazione, nel settembre
1880, della funicolare per il Vesuvio, allora in normale attività eruttiva, con
tanto di pennacchio in cima.
La nuova ferrovia, partendo da Castellammare Di
Stabia, aggirava il pendio vulcanico; saldava panoramicamente mare e monte ed
espandeva le possibilità turistiche della Campania, dalla metropoli alla zona
costiera meridionale.
Anche l’inno che in onore del pittoresco
convoglio composero il giornalista Giuseppe Turco e il musicista Luigi Denza,
la notissima Funiculì Funiculà, fungeva da saldatura; univa qualcosa del
repertorio canoro napoletano.
Il ritmo della tarantella adattava al ritmo
dell’ascensione in trenino e al coro dei gitanti, un tema tradizionale, fatto di
ripulse e richiami d’amore.
Al tempo di Funiculì Salvatore Di Giacomo
studiava medicina ma gli esperimenti di vivisezione gli ispiravano orrore, per
cui decise di lasciarla.
E forse le prime novelle che Di Giacomo compose
– storie di un gusto orrido – scapigliato, alla Hoffmann, popolate da personaggi
eccentrici soggetti ad alterazioni impreviste, fisiche e mentali, di falso
ambiente germanico – riflettono lo stato dei fenomeni patologici, fino ad allora
osservati.
Le aveva pubblicate dopo aver abbandonato
l’università e dopo essersi dedicato all’attività letteraria e giornalistica,
abbastanza fervida in quello scorcio di secolo a Napoli.
Nannì
è un testo che il poeta rifiutò con altri tra i
primi; segnò nel 1882 l’inizio di una collaborazione di eccezionale importanza
per il rinnovamento della canzone italiana di fine secolo, quella tra Di Giacomo
e Mario Costa.
Costa era un musicista di qualità molto duttili,
capace di assecondare le inflessioni della poesia digiacomiana; non degradava
con facili effetti melodici una struttura verbale e ritmica, apparentemente
fragile
In realtà tale forma è controllatissima e tesa
a risultati fonici e sentimentali di grande semplicità.
Di Giacomo scriveva per lui testi destinati
all’intonazione canora e strumentale.
Costa ne musicava altri che il poeta componeva
autonomamente, sviluppandone l’implicita melodia.
Per esempio, nel 1884 Di Giacomo pubblicò tre
sonetti col titolo Nannina.
Costa musicò il primo che divenne la canzone
Uocchie de sonno; trascurò gli altri due e diede una particolare tensione da
monologo passionale a un componimento che ha svolgimenti colloquiali, benché
accorati, e contribuisce a definire una poetica.
In accordo con l’uso che Di Giacomo fa del
dialetto come espressione di sentimenti elementari, ma intensificati dalla
meditazione o da un’evocazione lieve, intraducibile per esempio nelle due strofe
di Fronna d’aruta:
Stu core mio stracquato e appecundruto
Io nun me fido d’ ‘o purtà chiuù mpietto:
ll’aggio atterrato e manco aggio arricietto,
e porto passianno a nu tavuto.
Ah, fronn’ ‘e rosa mia, frunnella ‘e rosa!
È muorto ‘e na ventina ‘e malatie,
e ogne tanto ‘o risusceta quaccosa,
cierti penziere, cierti ffantasie…),
la canzone interiorizza il repertorio
bozzettistico e folclorico.
Trasferisce il richiamo d’amore in situazioni
determinabili nel tempo e nello spazio, in memoria che torna col tornare della
stagione in cui quel sentimento nacque.
Così come tornano nel ricordo le strofe della
canzone cantata a due voci e con la dolcezza del canto, i particolari
dell’innamoramento, reali o simbolici, come in un componimento petrarchesco, ma
senza il dissidio della coscienza.
La biografia amorosa è qui solo poetica,
immaginaria.
Anche la più famosa delle composizioni
digiacomiane di questo periodo, A Marechiaro, la serenata a mare,
musicata nel 1886 da Francesco Paolo Tosti, ha un’origine letteraria e forse
addirittura erudita. “Marechiaro da mare planum. Vedi La Promenade a
Mergellina di Lancellotti”, annoterà molti anni dopo sul taccuino di
un’amica inglese lo stesso poeta con pedanteria un po’ snob, da fanatico
di toponomastica.
Prima di allora, Di Giacomo aveva riconosciuto
quell’insenatura di Posillipo solo come meta celebrata da settecentesche guide
della città e come scena di un’opera buffa di Francesco Cerlone.
E Benedetto Croce scrisse su Di Giacomo, in un
saggio del 1903, che lo consacrò scrittore d’importanza nazionale.
Nel 1907 il filosofo curò con Francesco Gaeta,
la prima raccolta delle sue poesie notando: “Il Di Giacomo ha il senso del
misterioso, del morto, dello sbiadito; vede figure e assiste a casi che non
appartengono alla vita della percezione immediata, ma a quella della percezione,
del sogno, dell’incubo”.
Amore e gelosia, il logoro binomio delle canzoni
amorose, era anche la realtà psicologica dello scrittore, che si autodefiniva
nevrotico.
Una figura, quella del nostro, che, vivendo nei
primi decenni del Novecento, sembra aprirsi, più degli altri tre poeti
analizzati nel saggio, alla modernità, che si manifestava anche nelle
innovazioni tecnologiche.
A mio giudizio, la poesia dialettale italiana,
prodotta tra il Settecento e l’Ottocento, spesso rimossa e relegata al silenzio,
ma sempre vitale, ritrova, in Lo scrigno del dialetto, una sua
rivalutazione e riattualizzazione; tali elementi si notano sia a livello
metodologico, che deontologico, realizzando il loro compimento, grazie alla
grande acribia dell’autore.
Il testo mette in luce gli aspetti fondamentali
di questa esperienza, inquadrando i poeti con accuratezza e analisi profonda,
nei contesti storici e culturali nei quale hanno svolto la loro attività.
Molto interessante la parte introduttiva,
intitolata Quattro classici del dialetto.
In essa lo studioso, secondo la cifra
distintiva, che caratterizza il saggio nella sua globalità, compie
un’indagine profonda dell’uso del vernacolo in poesia come fenomeno.
L’autore riesce a fare rivivere nelle sue pagine
le poetiche di quattro importanti poeti; tali nomi potrebbero sicuramente
rientrare, per l’alta qualità della propria opera, anche nelle antologie
scolastiche, nelle quali la poesia, in generale, è quasi sempre penalizzata.
I vari dialetti, usati dai versificatori,
divengono veri e propri linguaggi, assumendone la dignità e la complessità;
questo è messo bene in evidenza, nell’indagare un settore poco praticato dalla
critica contemporanea e che meriterebbe un’attenzione maggiore.
Alla storia della
letteratura del nostro Paese, non appartiene solo la poesia scritta in lingua
italiana, ma anche quella che trova la sua realizzazione nei vari vernacoli.
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