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Voce dei miei occhi
Flavio Almerighi, l’autore del libro che prendiamo in considerazione in questa
sede, è nato a Faenza nel 1959; le sue prime liriche risalgono al 1976; Voce
dei miei occhi è una raccolta di poesie non scandita, caratterizzata da un
notevole equilibrio formale; la voce poetante è sicura e tutte le composizioni
sono felicemente risolte. La poesia eponima, in apertura del testo, è molto
icastica ed è strutturata in cinque brevi strofe; si tratta di un componimento
di carattere solipsistico, nel quale l’io poetante pare dialogare con se stesso
e, anche per questo, in essa, troviamo una valenza filosofica; il tono in
Voce dei miei occhi è generalmente stringato scabro ed essenziale. A
livello stilistico, nella raccolta, ci sono poesie strutturate in un unico
periodo ed altre formate da varie strofe; molto spesso è la quotidianità a fare
da sfondo alle situazioni descritte, che spaziano dal pubblico al privato.
Diverse figure di donne vengono cantate dal poeta, tra le quali la
pittrice Charlotte Salomon; come scrive Maria Grazia Calandrone, nell’acuta
prefazione, questa ragazza condivise la medesima sorte di Anna Frank, ma se
Anna affidò alle parole i diari della sua breve vita, la Salomon usò delle
immagini per fare resoconto dello stupore e dell’inguarito dolore di quei
terribili anni. La Salomon di Almerighi dice che le cose sarebbero state le
stesse anche senza il suo sguardo. Ma invece, grazie a lei, una vita ha
minuziosamente attraversato i decenni, ci è arrivata nonostante i dettagli,
nonostante la morte, nonostante l’atrocità dell’ Olocausto. Leggiamo la
poesia Charlotte Salomon:-“ lascio vestiti e mani a una gruccia/ il
veleno del verme mi ottunde/ ha colore simile al sangue, m’inquina// passo su
una pavimentazione precisa/ progetto affatto mio nei limiti/ di tele spente
anzitempo// sulla dorsale l’osservatore distratto/ m’indica le cose, sarebbero
le stesse/ anche se non ci fossi// in assennata visione di deserto/ io piccola
piango,/ unica acqua per milioni di miglia/ e tutto l’impianto gemendo cresce/
nella stanza da letto spretata/ dov’è carezze trascorse ancora qui/”- si
tratta di un componimento articolato in cinque terzine ed i versi proseguono, in
esso, in lunga ed ininterrotta sequenza e senza nessun segno d’interpunzione,
tranne due virgole; un’ icasticità potente sottende questo testo, icasticità che
deborda in una certa forza espressiva, a partire dalla prima strofa nella
quale è detto addirittura che il dolore del verme ottunde l’io poetante: vengono
detti pianto e gemito, descrizione dei sentimenti di una vigilia di morte a
causa della crudeltà del nazismo.
Nonostante il fatto che il testo non sia scandito, non si può dire che
esso abbia una valenza poematica: infatti non esiste un filo conduttore, un filo
rosso che leghi tra loro i componimenti, che si presentano tutti come quadri
ognuno separato dall’altro; accomuna tutte le poesie una tensione verso la
scoperta del senso della vita, una ricerca di una possibile, se non felicità,
almeno serenità, nell’esserci nel mondo; del resto anche la suddetta Charlotte
Salomon, più o meno presaga della sua tragica sorte nel campo di sterminio,
trovava la forza di dipingere, quasi come se i suoi quadri potessero esorcizzare
il mondo e l’atmosfera che la circondava.
Emblematica sembra essere la composizione e, due di uno:-“ A
nulla servirà non smettere/ di guardare il buio gettato dentro/ mentre due
chiocciole cumuliformi/ si spostano lente in alto/ come i loro traslati/ uguali
ai mari di naufraghi e pesci/ che si accorgono di te/ solo quando stanno per
cadere// E, due di uno, api operaie/ cresciute a rose e scogli noi/ siamo filo
rosso/ che le tigne mai/ sapranno scomporre/”- Questa composizione è giocata
tutta sulla ricerca del senso; è una poesia che sembra avere per tema la ricerca
di un’interiorità profonda che pare essersi del tutto persa nell’epoca del mare
magnum dei mass media che ci bombardano di notizie che non c’interessano e delle
quali faremmo volentieri a meno. Viene detto il buio gettato dentro, che
potrebbe, simbolicamente simbolizzare la condizione di precarietà in cui si
trova l’uomo nel postmoderno occidentale, un buio profondo che pare in modo
labirintico estendersi in chiocciole nelle spirali delle quali si cerca
rifugio. Poesia a tratti visionaria quella di Flavio Almerighi, poesia che nulla
concede al lirismo.
A questo punto viene da chiedersi il perché del titolo Voce dei miei
occhi. A questa domanda risponde acutamente Mariella Bettarini nell’acuta
prefazione; secondo la Bettarini Voce dei miei occhi è un titolo che
subito suggerisce la “vocalità” (potremmo dire la “vocazione”) dello sguardo (e
sappiamo quanto “voce” abbia a che vedere -per coloro che scrivono- con
“poesia”, e questa, a sua volta con “voce”). Tale titolo pare suggerire una
circolazione che – a partire dagli occhi e dallo sguardo- si manifesta come
voce/poesia, voce poetica. Almerighi parla fisicamente della propria poesia,
come di una vita che, subito dopo la vita, incomincia a giacere sulla carta-
come se egli fosse inseguito dalla solita urgenza di chi scrive, forse perché il
giacere della parola si spera sempre più durevole del giacere del corpo; un
esercizio di conoscenza, dunque, quello del nostro che si estrinseca sulla scia
del ricomporsi di visione, parola e scrittura fisicamente impressa sulla pagina.
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Recensione |
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