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Appartenenza
La poesia di Angelucci ha la freschezza di una
limpida fonte, e la silloge “Appartenenza”, con la quale ha vinto il 2° premio
Città di Pomezia, inizia proprio con i versi: “Limpida, pura / voglio che
sgorghi l’acqua / dalla mia sorgente.”
Le sue liriche, di medio respiro, si susseguono
concatenando e nello stesso tempo dilatando la sua relazione con il mondo che lo
circonda. Si diffonde in tutta la raccolta un senso d’amarezza dovuto
all’abiezione dell’uomo d’oggi, che ha perso la coscienza vendendosi ad ogni
tipo di corruzione, e che ha rovinato forse irrimediabilmente l’habitat
necessario alla sua stessa vita. Questo messaggio s’insinua indirettamente nel
lettore, poiché Angelucci non manifesta né rabbia né condanna verso gli altri.
Il suo è un discorso intimo, quasi un’introspezione. Egli si raffronta con
l’universo con l’animo di un fanciullo e la mente di un uomo maturo; così il
testo è ricco di riflessioni profonde e pregnanti, ma anche di abbagli e di
sussulti per lo splendore di ciò che lo circonda. Vi è soprattutto la necessità
di un’anima incontaminata, ed a questa l’unica risposta è la fede.
La sua non è speranza che esista un Dio che ci ami,
ci guidi, ci attenda, bensì certezza: “Tra questi flutti, / dove sembra
svanire la speranza, / io mi mantengo a galla / sicuro dell’appiglio / al quale
ancora/ e prima o poi dovrò affidarmi. / Perché c’è un’altra terra / per le mie
radici / e un altro cielo / per i miei germogli.”. Tale certezza gli dà la
forza di superare ogni ostacolo, di emozionarsi di fronte ad ogni elemento
naturale, di accogliere le tensioni, i momenti negativi, le piccole sofferenze e
il gran dolore. Vorrebbe poter purificare tutto ciò che è stato contaminato, in
modo che il mondo tornasse all’equilibrio e alla sua folgorante bellezza. Un
pensiero senz’altro utopico, ma se ci fermassimo un momento per riprendere
contatto con la coscienza, forse qualcosa potrebbe succedere.
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Recensione |
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