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Le opere liriche tratte dai drammi teatrali di Victor Hugo

Seconda parte
• Lezioni del Master per Cantanti lirici (6 e 12 febbraio 2011) •

Prima parte
• Lezioni del Master per Cantanti lirici (16 e 23 gennaio 2011) •

L’interesse dei compositori d’opera per i drammi di Hugo: motivazioni estetiche

L’attività teatrale di Victor Hugo, come abbiamo visto negli incontri precedenti, suscitò un forte interesse da parte dei musicisti del suo tempo: ricordiamo che il libretto sul soggetto di Lucrezia Borgia fu richiesto esplicitamente da Donizetti a F. Romani, che lavorò sul testo originale francese; che il soggetto di Ernani, preso in considerazione e poi abbandonato da Vincenzo Bellini negli anni precedenti, suggerito a Verdi dal Conte Mocenigo, era sicuramente stato vagheggiato dallo stesso compositore quando, durante i suoi studi, leggeva una gran quantità di opere poetiche, narrative e drammatiche per costruirsi una base di cultura letteraria classica e moderna, e quindi ne suscitò subito l’entusiasmo; che Verdi stesso, ormai alle soglie della grande maturità, sollecitò da Piave il libretto da “Le Roi s’amuse”, considerando la figura del buffone gobbo Triboulet una delle massime creazioni del teatro drammatico di ogni tempo.

Ma l’attenzione dei musicisti per il teatro di Hugo riguardò anche autori cosiddetti “minori”: dal dramma “Angelo, tiranno di Padova” Gaetano Rossi ricavò il libretto dell’opera “Il Giuramento” di Saverio Mercadante, data a Milano nel 1837, capolavoro del suo autore sia per i valori musicali che per l’impegno drammatico, caratterizzata da grande libertà formale, ricerca di nuovi schemi, anticipazioni verdiane; successivamente Arrigo Boito ne utilizzò la trama per elaborare un libretto alquanto macchinoso e complesso che ricreasse le strutture del Grand-Opéra e che fu musicato da Amilcare Ponchielli con l’opera “La Gioconda”. Lo stesso Ponchielli, su libretto di Enrico Golisciani, mise poi in musica un altro dramma di Hugo, “Marion Delorme”, opera rappresentata al Teatro alla Scala nel 1885.

Contemporaneo di Ponchielli fu Filippo Marchetti, compositore appartenente a quella schiera di musicisti che, a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento, intendevano cercare nuove strade per il melodramma italiano che, al di là della figura di Verdi, sempre più impegnato con i teatri stranieri, stava languendo in una improduttiva immobilità; insieme a Boito, Gomes, lo stesso Ponchielli, Faccio ed altri, Marchetti realizzò alcune opere, il cui merito non è tanto quello intrinseco quanto quello di aver preparato il terreno per la Giovane Scuola, il Verismo e la nuova fioritura melodrammatica a cavallo dei due secoli. Marchetti, vissuto fra il 1831 e il 1902, scrisse, su libretto di C. d’Ormeville, l’opera “Ruy Blas”, tratta dal capolavoro teatrale di Hugo, al quale si era interessato lo stesso Verdi intorno agli anni Cinquanta. Questo lavoro, decisamente orientato verso lo stile verdiano, che Verdi stesso stava superando, nonostante una frequente concessione ai facili effetti melodici e teatrali, non resse al procedere dei tempi e finì nell’oblio come grandissima parte del repertorio minore scritto in quegli anni. La motivazione principale consiste nello squilibrio esistente fra le sollecitazioni e gli spunti soprattutto psicologici nel ritratto dei vari personaggi presenti nel dramma e l’insufficiente approfondimento della realizzazione musicale che, invece di scavarne ancora più a fondo la natura o di rivelarne ulteriori aspetti, si limita ad un superficiale, per quanto di ottimo mestiere, descrittivismo. È chiaro che il pensiero e la creatività di un Hugo avevano per forza di cose la necessità di trovare un musicista con almeno altrettanta capacità di far rivivere questi straordinari personaggi.

Quali elementi sono all’origine di tale interesse, che va senza dubbio oltre la semplice contrapposizione di sfondi storici, personaggi, destini, idee? Hugo cela sotto le sue trame messaggi di straordinaria modernità che non sono solo quelli politici (il modo in cui mostra i sovrani sulla scena ne destabilizza l’autorità, tanto che la censura ebbe ad occuparsene sia a proposito dei drammi originari che di quelli musicali) ma anche quelli di un’allucinante analisi sulla dissociazione dell’essere umano, che talora si proietta in due diversi e contrapposti personaggi (ad esempio Quasimodo ed Esmeralda in “Notre Dame”) e talora si riunisce in uno solo, in quella dialettica tra sublime e grottesco che abbiamo visto essere fra i capisaldi del nuovo teatro romantico, elencati nella famosa prefazione al “Cromwell” (soppressione della distinzione fra tragico e comico) e che darà origine sia a Lucrèce che a Triboulet. Nulla di più allettante per un compositore che avvalersi di queste suggestioni fondate sull’antitesi, che ispira direttamente la realizzazione musicale, arte che si avvale delle contrapposizioni per definizione (forte e piano, accelerando e rallentando, veloce e lento, acuto e grave, maggiore e minore, e così via.)

Già nei due drammi che abbiamo esaminato nel loro percorso verso l’opera lirica, la contrapposizione e la composizione di questi contrasti sono evidenti e costituiscono una parte molto importante della struttura del melodramma. Il personaggio di Lucrezia, in particolare, assomma in sé due aspetti così opposti da divenire esempio di quella categoria del bello poetico che in Hugo deriva dalla convivenza forzata della simmetria armoniosa delle forme con l’orrido, il deforme e il ripugnante; l’estetica di Hugo identifica bellezza e oscenità, e il valore dell’una si definisce esclusivamente in rapporto all’altra.

In “Hernani” la deformità morale del re, che insidia la bellezza di Doña Sol e la ripugnanza fisica della vecchiaia di Silva, anch’essa rivolta contro la giovane bellezza femminile, vinceranno, sia pur in modi diversi, dell’ardente giovinezza, bellezza, coraggio, eroismo, lealtà ed onore del protagonista, in un gioco grottesco che si fonde col massimo del tragico, soprattutto in considerazione del fatto che anche gli oppressori ed apparenti vincitori, alla fine, sono sconfitti dal mancato conseguimento della propria aspirazione (Carlo, divenuto imperatore, rinuncia alla donna che ha corteggiato per tutta la prima parte della storia, e non è facile sapere se tale rinuncia gli sia costata molto dal punto di vista umano o se la nomina ad imperatore lo abbia consolato così rapidamente dal suo fallimento sentimentale, o ancora se le profonde e pessimistiche riflessioni di fronte alla tomba di Carlo Magno abbiano fatto di lui un uomo completamente nuovo. Silva, dal canto suo, si uccide subito dopo la morte dei due giovani, primo atroce messaggio del fallimento dei propositi di vendetta e della scelta del male per punire il proprio onore offeso, precursore del corrispondente, tragico fallimento di Triboulet). Nel personaggio di Triboulet l’identificazione tra grottesco (deformità fisica e morale, contrasto stridente tra il dolore fisico evidente nel personaggio e il ruolo di suscitatore di riso, perversione nello spingere alla depravazione fino alla noia il suo esatto opposto, il re Francesco I, bello, potente, felice) e sublime (il sentimento della paternità spinto ad un grado talmente alto da ritorcere le sue conseguenze contro l’oggetto del suo amore, al punto che nella scena finale del dramma il gobbo buffone, padre divenuto assassino della sua creatura, assurge alla più elevata categoria estetica dell’arte teatrale, suscitando pietà e commozione e trasferendo al pubblico e all’ascoltatore il proprio dolore, in un messaggio di cruda durezza morale e di indispensabile catarsi spirituale) si compongono in modo perfetto, realizzando compiutamente il principio estetico basilare dell’arte teatrale di Hugo, la coincidenza di bellezza e volgarità. Fu certamente la potenza nella realizzazione di tale assunto che colpì fortemente Verdi che considerava Triboulet personaggio degno del teatro di Shakespeare ed una delle creazioni più alte di tutto il teatro tragico.

Da “Le Roi s’amuse” a “Rigoletto”

La prima rappresentazione de “Le Roi s’amuse”, nel novembre 1832, rimane nella storia non tanto per il suo esito teatrale quanto per le reazioni politiche che, sotto la maschera di una supposta moralità offesa, suscitò. L’atto inaudito e quasi certamente arbitrario con cui prima un Ministro e quindi l’intero governo dell’epoca misero al bando il dramma di Hugo suscitò da una parte la ferma e forte reazione del poeta che, nell’introduzione premessa al testo del dramma pubblicato, solleva una serie di dubbi sulla legittimità e sulle reali ragioni del provvedimento, oltre a sottolineare l’assoluta moralità delle intenzioni del testo, e quindi della sua realizzazione e a rivendicare la sua reputazione di uomo, e quindi letterato, onesto e integerrimo. Il risultato di tale interdizione fu che il dramma di Hugo poté essere rappresentato sulle scene parigine solo cinquant’anni dopo, che ebbe alcune difficoltà anche in altri paesi e che la sua fama internazionale fu dapprima affidata all’opera che Verdi ne trasse, anch’egli dopo grandi fatiche con la censura, uno dei massimi e più popolari capolavori della storia del teatro musicale.

Vale la pena a questo punto di citare direttamente alcuni passi estremamente significativi della prefazione al dramma stampato, nei quali sarà possibile indirettamente ravvisare quanto la forza del messaggio dell’arte che stimola il pensiero e la consapevolezza interiore delle coscienze e delle menti sia temuto da coloro che agiscono, a livello politico, economico, sociale e culturale, in modo non corretto, privilegiando l’interesse personale a scapito del loro impegno pubblico: l’arte, la cultura, il teatro stimolano l’autonoma presa di coscienza del proprio valore di persona e quindi spingono l’individuo a reclamare i propri diritti e a chiedere a chi se li è assunti di tener fede ai propri doveri, soprattutto quelli nei confronti della collettività.

Il problema della censura ovviamente non poteva essere di tipo morale, giacché scene di seduzione e postriboli erano apparsi in teatro fin dall’antichità classica, così come la deformità fisica presa a pretesto di riso era un luogo comune abbastanza frequente nel teatro fino ad allora. Il problema era certamente nella figura del re Francesco I, il cui ritratto, non diversamente da quanto era avvenuto con Carlo in “Hernani", svilisce in maniera evidente il ruolo e l’autorità del sovrano, abbassandolo al rango di uomo comune, superficiale, dominato dall’istinto del piacere e del possesso, di cui indirettamente si serve il buffone gobbo per aizzarlo e quindi guidarlo su una strada di progressivo abbruttimento morale (il padrone è asservito dal servo al proprio piacere, così come il servo è nel pieno potere del suo signore); uomo che pone a repentaglio la propria vita, dalla quale dipendono sudditi e paesi, per i propri capricci e che utilizza le prerogative reali solo allo scopo di avere e conquistare, senza alcun dovere implicito nel suo ruolo; uomo monomaniaco che nella reiterazione continua fino all’assurdo dell’atto di conquista femminile puramente a scopo sessuale appare molto vicino alla figura di Don Giovanni, senza averne tuttavia le peculiarità sovrumane. La progressiva discesa del re, dalla donna nobile alla borghese alla prostituta di strada, così come il suo aperto e irriverente disprezzo per i suoi cortigiani (atteggiamento che lo accomuna a Triboulet) lo rendono una figura altamente spregevole, nonostante la bellezza fisica e l’allegria che ne contraddistinguono la vita (caratteri che sembra appartenessero realmente al re Francesco I), ennesimo esempio di fusione degli opposti e quindi creazione di un personaggio poetico esteticamente appartenente alla categoria del bello. Verdi capì benissimo questo aspetto del re e, nell’opera, in cui divenne un anonimo Duca di Mantova, lo pone al centro della vicenda, cardine attorno al quale girano tutte le altre esistenze, né più né meno di quanto avviene nel Don Giovanni mozartiano, opera alla quale Rigoletto fa chiaramente riferimento (Rigoletto come Leporello e Monterone quale Commendatore, con Gilda che assomma in sé, atto dopo atto, i caratteri delle tre donne dell’opera di Mozart). È chiaro che la carica eversiva e antimonarchica implicita nella vicenda di Hugo non poteva passare l’ostacolo della censura; nello stesso tempo l’alta moralità e il cupo pessimismo del messaggio trasmesso colpivano altrettanto forte: il ricorso alla violenza e al male per vendicare l’affronto subito dal bene è una via tortuosa e pericolosa che si rivolta contro il suo promotore; d’altra parte, il privilegiato della natura è anche il privilegiato della sorte e persino il Conte di Saint Vallier perdonerà il potente ma lascerà attiva la maledizione contro l’offeso, suo pari nella paternità ma suo inferiore di rango: quindi la forza del male precipita inevitabilmente verso il basso e chi cerca dal basso di farla salire a colpire colui che è troppo in alto, la vede ricadere su se stesso.

Il messaggio era forse ancor più sconvolgente di quello politico, poiché metteva in gioco le coscienze collettiva e dei singoli, ed è tuttora un messaggio di straordinaria modernità. Nella tragedia emerge un gioco continuo di simmetrie e rapporti fra i vari personaggi che, intersecandosi, sovrapponendosi e scambiandosi, crea una struttura drammatica di estrema forza ed incisività: abbiamo visto il rapporto perverso e reciproco tra il re ed il buffone, ma sono altrettanto forti: il rapporto fra Triboulet e Saint Vallier, uniti dalla paternità offesa, uno offensore dell’altro che a sua volta lo maledice avviandolo verso la rovina (soprattutto psicologica, giacché il turbamento originato dalla maledizione spinge il gobbo a comportamenti irragionevoli che ne determinano poi la sventura); quello tra Saltabadil e Triboulet, evidenziato in un monologo di questi, ripreso anche nell’opera; quello, più sottile, fra Triboulet e Maguelonne (deforme moralmente ma sublime fisicamente), entrambi assassini per interposta persona; quello fra la stessa Maguelonne e Bianca, che si rivela nel momento in cui quest’ultima spia i preparativi per l’omicidio dell’amato; quello fra le due coppie Triboulet/Bianca e Saltabadil/Maguelonne, le cui reciproche relazioni volgono il dramma verso la catastrofica conclusione.

° ° °

Il primo approccio di Verdi con “Le Roi s’amuse” con l’intenzione di ricavarne un’opera è del 1849, l’opera sarebbe stata destinata al San Carlo di Napoli su libretto di Cammarano. Il progetto però sfumò dopo qualche mese. Nel febbraio del 1850, Piave informa Verdi delle intenzioni del Teatro La Fenice di commissionargli una nuova opera per la stagione 1850-51, con protagonista il baritono Felice Varesi, molto apprezzato dal compositore.

Nell’aprile 1850 Verdi propone quindi il dramma di Hugo, considerandolo un soggetto di straordinaria grandezza, soprattutto per la presenza di un personaggio che, secondo lui, è una delle più grandi creazioni del teatro di tutti i paesi e di tutti i tempi, Triboulet.

Il problema che immediatamente si pone è quello della censura, dati i precedenti del dramma teatrale ed il sospetto di cui è circondata la figura del repubblicano Hugo, che di lì a poco, opponendosi alla dittatura di Napoleone III, sarebbe stato costretto all’esilio. Piave, sollecitato da Verdi che sa benissimo quanto rischioso sia questo soggetto, richiede l’approvazione anticipata della censura, prima di iniziare il lavoro ed ottiene alcune assicurazioni verbali che inducono Verdi ad iniziare il progetto, dal titolo “La maledizione”, quanto mai generico, per allontanare ogni riferimento immediato all’originale ma nello stesso tempo assolutamente pertinente alla vicenda.

A metà agosto 1850 compaiono i primi problemi e Piave, che conosce bene il carattere di Verdi, che ormai si è messo al lavoro, essendo stato da lui tranquillizzato circa l’accettazione del soggetto, fa presente al Teatro che il soggetto non è più crudo o immorale di tanti altri già accettati e che non c’è comunque più tempo per cambiarlo. Verdi tiene troppo a questo dramma per rinunciarvi, e in questi scambi epistolari si comprende benissimo quale era il metodo di lavoro del compositore, che prima di scrivere meditava ed approfondiva il soggetto per creare nella sua mente il cosiddetto “colore musicale”, trovato il quale, la musica veniva da sola. In ottobre il libretto de “La maledizione” è terminato ed è stata decisa anche la primadonna.

11 novembre 1850: l’Imperiale Reale Direzione Centrale d’Ordine Pubblico di Venezia chiede l’invio del libretto, in quanto il nome e le vicissitudini di Hugo e del suoi dramma hanno messo in sospetto i censori, nonostante la provata onestà di Piave e Verdi. Il libretto, che riproduce fedelmente la trama di Hugo, viene respinto: era impossibile portare sulla scena lirica i libertinaggi del Re di Francia.

Piave propone di rimodulare il libretto e scrive “Il Duca di Vendôme” con numerose modifiche rispetto all’originale. Verdi accetta solo l’eliminazione della scena che si trova all’inizio del secondo atto e che, riproducendo l’originale di Hugo, viene bollata come della “massima sconcezza” ma su tutto il resto non transige: la grandezza del soggetto originale è stata deturpata e la sua potenza è ridotta a “cosa comunissima”. Verdi ritiene Piave responsabile di tutto questo e lo liquida brutalmente.

Intanto però esce il cartellone che annuncia una nuova opera verdiana, senza titolo; ci sono gli artisti già scritturati, c’è la volontà di Piave di riallacciare i rapporti col maestro, c’è il teatro che preme per avere l’opera. Verdi propone lo “Stiffelio”, nuovo per Venezia e dato nell’estate 1850, ma il teatro rifiuta; nel frattempo l’autorità di Polizia pare disposta ad accettare il libretto con qualche lieve modifica. Il 27 dicembre Piave e il segretario generale del teatro partono per Busseto per discuterne con Verdi e pochi giorni dopo viene stilato un verbale con le seguenti modifiche:

- non la corte di Francia ma un anonimo Ducato indipendente di Francia o d’Italia;

- cambiano i nomi ma restano i caratteri originali del dramma di Hugo;

- si sostituisce la scena della chiave con altra (diventerà l’aria “Parmi veder le lacrime”);

- il re o duca si recherà alla taverna da Maddalena attiratovi con l’inganno;

- Verdi deciderà all’atto pratico la destinazione della scena del sacco;

- l’opera non potrà andare in scena prima del 28 febbraio.

Il segretario del teatro torna a Venezia mentre Piave rimane a Busseto a lavorare. Il 10 gennaio 1851 il nuovo libretto, con il titolo “Rigoletto”, è terminato e il giorno dopo viene presentato alle autorità di polizia veneziane; il 24 dello stesso mese si sa che sarà approvato con la modifica di qualche nome e finalmente, il 26 gennaio, il libretto rientra alla Presidenza del teatro. Verdi completa la musica, il duetto finale, e termina il 5 febbraio. Il 19 febbraio Verdi è a Venezia per iniziare le prove e l’opera va finalmente in scena l’11 marzo 1851, con deciso successo di pubblico e tredici repliche che la consacrano fra i massimi e più popolari capolavori del teatro musicale di ogni tempo.

Da “Angelo, tyran de Padoue” a “La Gioconda”

V. Hugo scrisse nel 1835 “Angelo, tyran de Padoue”, dramma teatrale in tre parti, che ebbe un immediato e grande successo. Come Lucrèce, Hernani e Le Roi s’amuse, anche questo dramma è ambientato nel XVI secolo, per la precisione a Padova (sotto il governo della Serenissima) nell’anno 1549.

Il nucleo della vicenda, ossia la rivalità amorosa di due donne, è ispirato a Hugo dalla sua situazione personale: Tisbe e Caterina rispecchiano le due donne che allora occupavano la sua vita sentimentale, la moglie Adéle, allora amante del critico letterario Sainte-Beuve, e l’attrice Juliette Drouet, che rinunciò ai suoi numerosi e ricchi amanti per rispetto verso lo scrittore; il legame che Rodolfo ha con le due rivali riflette l’amore ormai platonico di Hugo verso la moglie e quello sensuale e fisico verso l’attrice. Se nella vita reale tale intreccio amoroso era trattato con una certa indulgenza da entrambe le parti, nell’opera il conflitto fra le due donne e la reciproca gelosia si esprime con accenti di odio profondo che pone ancor più in rilievo il contrasto netto, che si materializza nel momento in cui Tisbe salva Caterina per gratitudine verso colei che sottrasse alla morte la madre e che, dopo averla cercata in tutti i suoi pellegrinaggi di attrice nelle varie città d’Italia, la riconosce grazie al crocifisso che le aveva donato la vecchia donna in segno di gratitudine.

La rappresentazione del conflitto femminile è l’autentico asse portante del dramma, giacché la figura del protagonista passa in realtà in secondo piano, così come quella dell’altro personaggio maschile che appare esclusivamente in funzione del ruolo che le due donne hanno in rapporto a lui. Quello che diventerà nell’opera di Ponchielli uno degli scontri più famosi tra due donne innamorate dello stesso uomo è già presente in Hugo, forse addirittura con maggiore potenza e violenza verbale, non indebolita della magniloquenza fantasiosa di Boito. Tisbe, colei che diverrà Gioconda, così si rivolge a Caterina:

“...non valete più di noi, signore! Quello che noi diciamo apertamente a un uomo in pieno giorno, voi lo balbettate vergognosamente la notte. Non cambiano che le ore! Noi vi prendiamo i vostri mariti, voi ci prendete i nostri amanti. È una lotta. Benissimo. Lottiamo! (...) no, perdio, voi non valete quanto noi. Noi non inganniamo nessuno, noi! Voi ingannate il mondo, ingannate le vostre famiglie, voi ingannate i vostri mariti...”

L’azione del dramma, rispetto alla maggiore concisione e linearità di “Lucrèce Borgia”, “Hernani” e “Le Roi s’amuse”, presenta un intreccio più complesso in cui però i rapporti fra i personaggi non hanno le simmetrie, la profondità, le implicazioni filosofiche e morali che si presentano negli altri, rimanendo più a livello di narrazione drammatica e descrittivismo storico ed ambientale che di scavo psicologico o di analisi interiore. Ma la complessa, intricata vicenda, ricca di colpi di scena tipicamente teatrali, non poteva non raccogliere grande successo all’epoca del “feulleiton” e dei romanzi storici e popolari alla Dumas di cui la Francia letteraria era intasata in quegli anni.

Una trama passionale e patetica che sembrava nata per ispirare il melodramma romantico suscitò quasi subito l’interesse dei compositori. Già due anni dopo la sua prima rappresentazione, “Angelo” ispirò la sua prima versione melodrammatica: su libretto di G. Rossi, Mercadante compose “Il Giuramento” che, rappresentato nel 1837, rimane il suo capolavoro teatrale; in quell’occasione, il librettista mantenne la struttura e l’intreccio della vicenda originaria, pur trasferendola in epoca anteriore (XIV secolo) e in Sicilia. Mercadante fu sempre estremamente apprezzato, sia come prolifico compositore teatrale (oltre sessanta melodrammi, di varia matrice, dal Neoclassicismo di stampo rossiniano al pieno romanticismo preverdiano) che come autore di musica strumentale, cameristica e sacra. Grandi musicisti del suo tempo, da Liszt, che ne ascoltò un’opera a Venezia, allo stesso Verdi, lo tennero in alta considerazione. Ragioni legate probabilmente al cambio di gusto del pubblico avvenuto durante la sua lunga vita determinarono la scomparsa dal repertorio dei suoi lavori, alla pari di quelli di altri validi compositori (Pacini, ad esempio) che però non riuscirono a rinnovarsi e non poterono contrastare l’inarrivabile termine di paragone offerto dalla produzione verdiana. Così anche “Il Giuramento”, pur caratterizzato da indiscutibile valore musicale, da una drammaticità che prelude a quella verdiana, attraverso la ricerca di nuovi schemi teatrali e grande libertà formale, non è tuttora rientrato stabilmente in repertorio, benché molti musicologi sostengano che, tra gli autori cosiddetti minori dell’Ottocento, Mercadante è quello che potrà riservare grandi sorprese, una volta che la sua produzione fosse studiata e riconsiderata con la dovuta attenzione critica.

Negli anni Settanta dell’Ottocento, Arrigo Boito, su commissione di Ricordi, partì dalla trama del dramma per ricavarne un macchinoso e spettacolare libretto che l’editore, nume tutelare della musica teatrale in Italia, affidò da musicare ad un compositore non più giovanissimo ma che, dopo anni di gavetta e sofferenza, aveva conosciuto le sue prime affermazioni, Amilcare Ponchielli. Questi perciò non scelse volontariamente il soggetto della sua opera ma si trovò a comporre su esplicita commissione della casa editrice e su un libretto già confezionato: erano cambiati i tempi, cominciava il dominio dell’industria editoriale che controllava indirettamente anche i cartelloni teatrali; i problemi con la censura non esistevano più nella forma in cui si erano presentati prima dell’Unità d’Italia e comunque questo dramma di Hugo era stato uno dei pochi a passare indenne questo problema anche nella sua versione originale; inoltre, Ponchielli, al di là delle capacità musicali e creative, non aveva il carattere combattivo ed autoritario di un Verdi, per cui fu sempre disponibile ad accettare quanto gli veniva richiesto.

La vita di Amilcare Ponchielli non ha nessuna di quelle caratteristiche e quegli episodi che fanno sempre parte della biografia dei grandi geni predestinati. Nato in un paesino di campagna, dopo i primi studi musicali entrò al Conservatorio di Milano, dove fu notato per il suo talento e dove si diplomò. Stabilitosi a Cremona, si manteneva dando lezioni di pianoforte e suonando l’organo; fortunatamente, un ricco commerciante lo aiutò con uno stipendio mensile affinché potesse scrivere con tranquillità un’opera. Fu “I Promessi Sposi”, che venne eseguita con il contributo di ammiratori e amici nel 1856. Nonostante il grande successo locale, Ponchielli per alcuni anni fu costretto ad assolvere il modesto incarico di direttore della banda, prima a Piacenza e poi di nuovo a Cremona. In quegli anni scrisse alcune opere che non ebbero più di una risonanza locale, se non addirittura esito negativo. Nel 1868 partecipò al concorso per la cattedra di contrappunto e fuga al Conservatorio di Milano e risultò il primo della terna dei vincitori. Ma la nomina ministeriale, su pressioni forse di Ricordi e Boito, andò a Franco Faccio, e l’episodio fu passato quasi totalmente sotto silenzio. Ma con l’esecuzione, l’anno dopo, de “I Promessi sposi” di Petrella, ci si ricordò dell’opera dello sconosciuto cremonese e la si volle porre a confronto con questa: fu l’occasione per Ponchielli di realizzare una nuova versione della sua opera su libretto ampiamente rimaneggiato. La rappresentazione data a Milano nel 1872 fu il primo successo che proiettò il compositore fuori dalla sua realtà locale. Le critiche entusiastiche spinsero l’editore Ricordi ad affidargli un’altra opera, che fu “I Lituani” su libretto di Ghislanzoni, data alla Scala nel 1874, e successivamente ad affidargli il libretto che Boito aveva creato ispirandosi all’ “Angelo” di Hugo e che divenne “La Gioconda”. L’editore, come tutto il mondo musicale italiano, era alla spasmodica ricerca dell’erede e continuatore di Verdi, ora che il grande compositore sembrava aver chiuso, con “Aida” e la “Messa di Requiem”, la sua attività artistica; di volta in volta furono acclamati in tale ruolo Marchetti, Gomes, Gobatti, e finalmente Ponchielli, che più di tutti meritò e mantenne questo titolo simbolico. “La Gioconda” tenne impegnato il suo autore per altri tre anni, fino alla sua versione definitiva del 1879. L’anno dopo Ponchielli ebbe finalmente la cattedra al Conservatorio di Milano ed ebbe fra gli allievi Puccini, di cui comprese perfettamente il talento e che aiutò in tutti i modi affinché potesse disporre di un libretto, comporre la sua prima opera e rappresentarla (fu “Le Villi”) e Mascagni. Scrisse ancora due opere, tra cui “Marion Delorme”, anch’essa su libretto tratto da V. Hugo ed elaborò una nuova versione de “I Lituani”. Morì all’inizio del 1886 di broncopolmonite.

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La trasformazione del dramma di Hugo che Boito realizza per la scena lirica va nella direzione della spettacolarità erede del Grand Opéra francese. A partire dagli anni sessanta dell’Ottocento, nell’ambito di quella ricerca di nuove vie per il melodramma italiano che aveva chiuso la fase cosiddetta “risorgimentale”, al di là della personale evoluzione di Verdi, ormai nume tutelare del teatro musicale italiano ma sempre più impegnato a scrivere per i teatri stranieri, si inquadra anche la tendenza a riprodurre in chiave italiana le caratteristiche che, nei quarant’anni precedenti, avevano fatto la fortuna del Grand-Opéra francese. Accanto all’isolato ma significativo tentativo boitiano con il “Mefistofele”, tutti i compositori del tempo, nella loro ricerca di nuove vie, affrontano almeno un titolo che riproduce le strutture formali della grande opera francese che aveva avuto in Meyerbeer il suo nume tutelare e che Rossini e Donizetti avevano affrontato con grande successo; Verdi stesso, in quegli anni, dopo “Les Vêpres siciliennes” del 1855, presentò il “Don Carlos” e “Aida”. Tali enormi meccanismi teatrali riprendono dalla tradizione francese alcune caratteristiche strutturali quali: il soggetto storico, disposizione in quattro o cinque atti, gran numero di personaggi, numerose scene di massa con cori e balletti.

Pur nell’evoluzione dei tempi, Gomes con “Il Guarany”, Marchetti con “Ruy Blas”, lo stesso Ponchielli con “I Lituani” andarono in quella direzione, il cui massimo risultato fu “La Gioconda”, probabilmente il miglior melodramma realizzato all’epoca al di fuori delle opere verdiane, tanto che Ponchielli si trovò da compositore quasi sconosciuto ad assumere in poco tempo il ruolo di erede designato di Verdi.

Boito parte dal testo di Hugo ma lo tratta quasi come un canovaccio, rielaborando ambientazione e situazioni a scopo melodrammatico e imprimendo a tutto il libretto il marchio della sua debordante personalità, al punto che mai viene fatta esplicita menzione del dramma originario. Il compositore si trovò in più circostanze non poco imbarazzato e, pur facendo le sue osservazioni e rimostranze, non aveva l’autorità e la forza di affermare le proprie decisioni. Il confronto fra il libretto originale e quello musicato rivela comunque il tentativo operato dal musicista di snellire la struttura di alcune scene ed anche interessanti modifiche nel segno di un maggiore approfondimento psicologico di alcuni personaggi.

Boito (che si firmò con l’anagramma Tobia Gorrio) impostò il libretto sul modello del “grand-opéra”, concedendo grande spazio a scene corali e d’assieme ed a forti contrasti drammatici, sacrificando però alla complicazione dell’intreccio - dovuta anche alla presenza di un sesto personaggio che in Hugo è solo citato (La madre cieca) ed allo sdoppiamento del protagonista Angelo in due personaggi, Alvise Badoero e Barnaba, che acquista anche alcune caratteristiche di Omodei, spia del Consiglio dei Dieci - l’evoluzione psicologica dei protagonisti che, a parte qualche sussulto di tipo psicotico e nevrotico della protagonista (realizzato da Ponchielli con un canto sostanzialmente “di sbalzo”, caratterizzato da ampie arcate melodiche e grandi intervalli, tutti logicamente inseriti nel contesto armonico ma difficoltosi per il continuo passaggio di registro che richiedono all’interprete), rimangono statici, quasi pedine di un gioco del destino che li pone in rilievo su un’enorme sfondo corale ma che non permette loro alcuna libera e personale iniziativa.

La modifica fondamentale, dalla quale dipendono tutte le altre, è il trasferimento da Padova a Venezia del luogo della vicenda e lo spostamento in avanti di circa un secolo della stessa. Per quanto Padova possa vantare importanti monumenti, palazzi e chiese, e per quanto all’epoca fosse sotto il dominio della Serenissima, l’ambientazione veneziana risulta teatralmente più spettacolare e, se aggiunge al cupo dramma di Hugo, che non presentava scene di folla, un elemento scenografico di sicuro impatto, potendovi inserire scene all’aperto con danze, processioni, barcarole, gondolieri, la regata, un intero atto a bordo di una nave e così via, tuttavia ne limita il truce e lugubre intimismo, il cui spirito viene rievocato solo nella torbida, soffocante, mortifera atmosfera lagunare del quarto atto. Tale ambientazione giovò non poco alla carriera internazionale dell’opera ma soprattutto servì a portare in evidenza l’elemento malefico che si incarna nel potere dello stato attraverso la sua autorità costituita (Alvise) e attraverso i delatori (Barnaba). Boito, nel descrivere questo aspetto terribile della realtà storica della Serenissima, si ispirò ad un monologo del protagonista di Hugo che descrive l’autentica realtà della Venezia del suo tempo.

“Del resto, balli, feste, fiaccole, musiche, gondole, teatri, carnevale di cinque mesi, ecco Venezia. Voi, Tisbe, mia bella attrice, voi non conoscete che questo lato; (...) E sapete che cos’è Venezia, povera Tisbe? Venezia, ve lo dirò subito, è l’inquisizione di stato, è il Consiglio dei Dieci. Oh! Il Consiglio dei Dieci! Parliamone sottovoce, Tisbe, poiché c’è forse qualcosa che ci ascolta. (...) Nulla che li riveli agli occhi, nulla che possa farvi dire: costui ne fa parte! un segno misterioso sotto le loro giacche, al massimo. (...) - bocche fatali che il popolo crede mute e che tuttavia parlano (...) poiché esse dicono ad ogni passante: denunciate! Una volta denunciati, si è presi. (...) A Venezia non si muore sul patibolo, si sparisce. All’improvviso in una famiglia manca un uomo. Cos’è successo? I piombi, i pozzi, il Canal Orfano lo sanno.”

Inoltre, alcune vicende che in Hugo sono narrate, come il soccorso dato da Caterina alla madre di Tisbe, vengono da Boito abilmente integrate nell’azione assieme a scene desunte fedelmente dall’originale. Nel quarto atto invece, l’invenzione di Boito regna sovrana: Gioconda ha salvato per la seconda volta Laura dalla morte, dandole un sonnifero al posto del veleno ma Enzo, convinto che essa abbia assassinato per gelosia la sua amata, sta per ucciderla. In Hugo il dramma qui giunge al culmine e Rodolfo ammazza Tisbe prima che Caterina si ridesti; nel libretto e nell’opera, Laura si risveglia appena in tempo per fermare Enzo e quindi, con la fuga dei due amanti, si delinea un inaspettato lieto fine. Ma gli imprevisti non mancano: Barnaba, i cui tratti caratteristici (anche musicali) anticipano fortemente lo Jago verdiano, torna a reclamare da Gioconda il suo diritto di possederla in cambio della salvezza di Enzo, ma la donna, in un ulteriore colpo di scena, si uccide, lasciando a Barnaba solo il proprio corpo senza vita.

Ponchielli, abbiamo visto, cercò di venire a capo di questo complicato libretto, modificandone alcuni versi per meglio adattarli alla musica; utilizzando due fondamentali temi musicali che si rincorrono per tutta l’opera, dal preludio all’ultima scena, uno cupo e sordo nella sua ostinata figurazione ritmica e che si lega al personaggio di Barnaba, uno assai melodico (uno dei temi forti dell’opera) che rappresenta l’idea del rosario; ispirandosi probabilmente al trattamento musicale che Boito aveva fatto di Mefistofele per il personaggio di Barnaba; mettendo fondo a tutte le sue risorse di acclamato compositore di musica per balletto; ritraendo la psicosi di Gioconda attraverso un canto la cui linea melodica a grandi intervalli tende sempre ad aggrovigliarsi su sé stessa.

La lunghezza e complessità del libretto è dovuta alla grande quantità di numeri musicali, ora singoli ora uniti, che lo caratterizza e che presentano una straordinaria varietà: cinque arie solistiche, due arie solistiche con intervento corale, duetti, terzetti, cori, un concertato, danze. Tale varietà origina una certa frammentarietà, che Ponchielli riesce a tenere insieme grazie al ricorso costante ai due temi principali, ad una scrittura vocale specifica per Gioconda e ad una costante ispirazione melodica che difficilmente cade nel banale e che si fonda su una ferrata scienza della composizione. Non mancano di conseguenza episodi, anche numerosi, in cui la scrittura musicale ed il senso drammatico del brano toccano vertici assai alti, soprattutto riguardo il personaggio di Barnaba; ad esempio, l’episodio della sommossa da lui fomentata nel primo atto è il chiaro modello (tempo di sei/ottavi e tonalità iniziale di si minore) cui fa riferimento Verdi nel brindisi del primo atto di Otello, situazione drammaturgicamente assai simile (del resto Barnaba è il modello musicale e vocale di Jago). Giustamente apprezzati e famosi sono i balletti ed anche la scrittura corale, sia fugata che libera, presenta i segni di un’attenta cura d’impronta scolastica ma talora ravvivata da sprazzi che rivelano un autentico talento. Senza mai indulgere al facile effetto musicale, nell’insieme Ponchielli riesce ad elaborare un’opera che offre una notevole quantità di invenzione, di varia qualità, il cui principale difetto consiste nella lunghezza eccessiva, talora originata anche da continue ripetizioni dello stesso testo: il terzetto dell’ultimo atto è significativo al riguardo tanto che, pur abbreviato da due tagli tradizionali, rimane comunque sempre eccessivamente lungo in una situazione in cui è invece richiesta rapidità d’azione. Tuttavia, a compensare questa prolissità musicale, della quale il compositore non aveva che una parte di responsabilità, vi è la ricchezza di spunti melodici di grande interesse, dal carattere originale, riconducibili ad una tendenza che voleva superare la melodia ritmicamente regolare, senza perdere però la possibilità di diventare popolare, per la sua linearità e incisività, e cercando di stare al passo con l’evoluzione del linguaggio musicale di quegli anni. In sostanza, pur essendo stato Ponchielli il maestro, fra gli altri, di Puccini e di Mascagni, le sue opere, e “La Gioconda” in particolare, non sono tanto un ponte tra Verdi e il Verismo quanto fra il Verdi degli anni Sessanta e Settanta e quello di “Otello”. Quest’opera rimane perciò come un grande esempio di quel teatro musicale che cercava di percorrere vie sempre più nuove ma senza staccarsi dalla tradizione italiana del canto melodico né dalla spettacolarità delle grandi scene d’assieme; e proprio per tale motivo il capolavoro di Ponchielli, dopo ripensamenti e rimaneggiamenti che portarono a quattro versioni, l’ultima delle quali è quella normalmente eseguita in teatro, si è affermata subito come una delle opere più popolari del repertorio italiano.

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