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Le opere liriche tratte dai drammi teatrali di Victor Hugo
Seconda parte
• Lezioni del Master per Cantanti lirici (6 e 12
febbraio 2011) •
Prima parte
• Lezioni del Master per Cantanti lirici (16 e 23
gennaio 2011) •
L’interesse dei compositori d’opera per i drammi di Hugo: motivazioni estetiche
L’attività
teatrale di Victor Hugo, come abbiamo visto negli incontri precedenti, suscitò
un forte interesse da parte dei musicisti del suo tempo: ricordiamo che il
libretto sul soggetto di Lucrezia Borgia fu richiesto esplicitamente da
Donizetti a F. Romani, che lavorò sul testo originale francese; che il soggetto
di Ernani, preso in considerazione e poi abbandonato da Vincenzo Bellini negli
anni precedenti, suggerito a Verdi dal Conte Mocenigo, era sicuramente stato
vagheggiato dallo stesso compositore quando, durante i suoi studi, leggeva una
gran quantità di opere poetiche, narrative e drammatiche per costruirsi una base
di cultura letteraria classica e moderna, e quindi ne suscitò subito
l’entusiasmo; che Verdi stesso, ormai alle soglie della grande maturità,
sollecitò da Piave il libretto da “Le Roi s’amuse”, considerando la figura del
buffone gobbo Triboulet una delle massime creazioni del teatro drammatico di
ogni tempo.
Ma
l’attenzione dei musicisti per il teatro di Hugo riguardò anche autori
cosiddetti “minori”: dal dramma “Angelo, tiranno di Padova” Gaetano Rossi ricavò
il libretto dell’opera “Il Giuramento” di Saverio Mercadante, data a Milano nel
1837, capolavoro del suo autore sia per i valori musicali che per l’impegno
drammatico, caratterizzata da grande libertà formale, ricerca di nuovi schemi,
anticipazioni verdiane; successivamente Arrigo Boito ne utilizzò la trama per
elaborare un libretto alquanto macchinoso e complesso che ricreasse le strutture
del Grand-Opéra e che fu musicato da Amilcare Ponchielli con l’opera “La
Gioconda”. Lo stesso Ponchielli, su libretto di Enrico Golisciani, mise poi in
musica un altro dramma di Hugo, “Marion Delorme”, opera rappresentata al Teatro
alla Scala nel 1885.
Contemporaneo di Ponchielli fu Filippo Marchetti, compositore appartenente a
quella schiera di musicisti che, a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento,
intendevano cercare nuove strade per il melodramma italiano che, al di là della
figura di Verdi, sempre più impegnato con i teatri stranieri, stava languendo in
una improduttiva immobilità; insieme a Boito, Gomes, lo stesso Ponchielli,
Faccio ed altri, Marchetti realizzò alcune opere, il cui merito non è tanto
quello intrinseco quanto quello di aver preparato il terreno per la Giovane
Scuola, il Verismo e la nuova fioritura melodrammatica a cavallo dei due secoli.
Marchetti, vissuto fra il 1831 e il 1902, scrisse, su libretto di C. d’Ormeville,
l’opera “Ruy Blas”, tratta dal capolavoro teatrale di Hugo, al quale si era
interessato lo stesso Verdi intorno agli anni Cinquanta. Questo lavoro,
decisamente orientato verso lo stile verdiano, che Verdi stesso stava superando,
nonostante una frequente concessione ai facili effetti melodici e teatrali, non
resse al procedere dei tempi e finì nell’oblio come grandissima parte del
repertorio minore scritto in quegli anni. La motivazione principale consiste
nello squilibrio esistente fra le sollecitazioni e gli spunti soprattutto
psicologici nel ritratto dei vari personaggi presenti nel dramma e
l’insufficiente approfondimento della realizzazione musicale che, invece di
scavarne ancora più a fondo la natura o di rivelarne ulteriori aspetti, si
limita ad un superficiale, per quanto di ottimo mestiere, descrittivismo. È
chiaro che il pensiero e la creatività di un Hugo avevano per forza di cose la
necessità di trovare un musicista con almeno altrettanta capacità di far
rivivere questi straordinari personaggi.
Quali
elementi sono all’origine di tale interesse, che va senza dubbio oltre la
semplice contrapposizione di sfondi storici, personaggi, destini, idee? Hugo
cela sotto le sue trame messaggi di straordinaria modernità che non sono solo
quelli politici (il modo in cui mostra i sovrani sulla scena ne destabilizza
l’autorità, tanto che la censura ebbe ad occuparsene sia a proposito dei drammi
originari che di quelli musicali) ma anche quelli di un’allucinante analisi
sulla dissociazione dell’essere umano, che talora si proietta in due diversi e
contrapposti personaggi (ad esempio Quasimodo ed Esmeralda in “Notre Dame”) e
talora si riunisce in uno solo, in quella dialettica tra sublime e grottesco che
abbiamo visto essere fra i capisaldi del nuovo teatro romantico, elencati nella
famosa prefazione al “Cromwell” (soppressione della distinzione fra tragico e
comico) e che darà origine sia a Lucrèce che a Triboulet. Nulla di più
allettante per un compositore che avvalersi di queste suggestioni fondate
sull’antitesi, che ispira direttamente la realizzazione musicale, arte che si
avvale delle contrapposizioni per definizione (forte e piano, accelerando e
rallentando, veloce e lento, acuto e grave, maggiore e minore, e così via.)
Già nei
due drammi che abbiamo esaminato nel loro percorso verso l’opera lirica, la
contrapposizione e la composizione di questi contrasti sono evidenti e
costituiscono una parte molto importante della struttura del melodramma. Il
personaggio di Lucrezia, in particolare, assomma in sé due aspetti così opposti
da divenire esempio di quella categoria del bello poetico che in Hugo deriva
dalla convivenza forzata della simmetria armoniosa delle forme con l’orrido, il
deforme e il ripugnante; l’estetica di Hugo identifica bellezza e oscenità, e il
valore dell’una si definisce esclusivamente in rapporto all’altra.
In
“Hernani” la deformità morale del re, che insidia la bellezza di Doña
Sol
e la ripugnanza fisica della vecchiaia di Silva, anch’essa rivolta contro la
giovane bellezza femminile, vinceranno, sia pur in modi diversi, dell’ardente
giovinezza, bellezza, coraggio, eroismo, lealtà ed onore del protagonista, in un
gioco grottesco che si fonde col massimo del tragico, soprattutto in
considerazione del fatto che anche gli oppressori ed apparenti vincitori, alla
fine, sono sconfitti dal mancato conseguimento della propria aspirazione (Carlo,
divenuto imperatore, rinuncia alla donna che ha corteggiato per tutta la prima
parte della storia, e non è facile sapere se tale rinuncia gli sia costata molto
dal punto di vista umano o se la nomina ad imperatore lo abbia consolato così
rapidamente dal suo fallimento sentimentale, o ancora se le profonde e
pessimistiche riflessioni di fronte alla tomba di Carlo Magno abbiano fatto di
lui un uomo completamente nuovo. Silva, dal canto suo, si uccide subito dopo la
morte dei due giovani, primo atroce messaggio del fallimento dei propositi di
vendetta e della scelta del male per punire il proprio onore offeso, precursore
del corrispondente, tragico fallimento di Triboulet). Nel personaggio di
Triboulet l’identificazione tra grottesco (deformità fisica e morale, contrasto
stridente tra il dolore fisico evidente nel personaggio e il ruolo di
suscitatore di riso, perversione nello spingere alla depravazione fino alla noia
il suo esatto opposto, il re Francesco I, bello, potente, felice) e sublime (il
sentimento della paternità spinto ad un grado talmente alto da ritorcere le sue
conseguenze contro l’oggetto del suo amore, al punto che nella scena finale del
dramma il gobbo buffone, padre divenuto assassino della sua creatura, assurge
alla più elevata categoria estetica dell’arte teatrale, suscitando pietà e
commozione e trasferendo al pubblico e all’ascoltatore il proprio dolore, in un
messaggio di cruda durezza morale e di indispensabile catarsi spirituale) si
compongono in modo perfetto, realizzando compiutamente il principio estetico
basilare dell’arte teatrale di Hugo, la coincidenza di bellezza e volgarità. Fu
certamente la potenza nella realizzazione di tale assunto che colpì fortemente
Verdi che considerava Triboulet personaggio degno del teatro di Shakespeare ed
una delle creazioni più alte di tutto il teatro tragico.
Da “Le
Roi s’amuse” a “Rigoletto”
La prima
rappresentazione de “Le Roi s’amuse”, nel novembre 1832, rimane nella storia non
tanto per il suo esito teatrale quanto per le reazioni politiche che, sotto la
maschera di una supposta moralità offesa, suscitò. L’atto inaudito e quasi
certamente arbitrario con cui prima un Ministro e quindi l’intero governo
dell’epoca misero al bando il dramma di Hugo suscitò da una parte la ferma e
forte reazione del poeta che, nell’introduzione premessa al testo del dramma
pubblicato, solleva una serie di dubbi sulla legittimità e sulle reali ragioni
del provvedimento, oltre a sottolineare l’assoluta moralità delle intenzioni del
testo, e quindi della sua realizzazione e a rivendicare la sua reputazione di
uomo, e quindi letterato, onesto e integerrimo. Il risultato di tale
interdizione fu che il dramma di Hugo poté essere rappresentato sulle scene
parigine solo cinquant’anni dopo, che ebbe alcune difficoltà anche in altri
paesi e che la sua fama internazionale fu dapprima affidata all’opera che Verdi
ne trasse, anch’egli dopo grandi fatiche con la censura, uno dei massimi e più
popolari capolavori della storia del teatro musicale.
Vale la
pena a questo punto di citare direttamente alcuni passi estremamente
significativi della prefazione al dramma stampato, nei quali sarà possibile
indirettamente ravvisare quanto la forza del messaggio dell’arte che stimola il
pensiero e la consapevolezza interiore delle coscienze e delle menti sia temuto
da coloro che agiscono, a livello politico, economico, sociale e culturale, in
modo non corretto, privilegiando l’interesse personale a scapito del loro
impegno pubblico: l’arte, la cultura, il teatro stimolano l’autonoma presa di
coscienza del proprio valore di persona e quindi spingono l’individuo a
reclamare i propri diritti e a chiedere a chi se li è assunti di tener fede ai
propri doveri, soprattutto quelli nei confronti della collettività.
Il
problema della censura ovviamente non poteva essere di tipo morale, giacché
scene di seduzione e postriboli erano apparsi in teatro fin dall’antichità
classica, così come la deformità fisica presa a pretesto di riso era un luogo
comune abbastanza frequente nel teatro fino ad allora. Il problema era
certamente nella figura del re Francesco I, il cui ritratto, non diversamente da
quanto era avvenuto con Carlo in “Hernani", svilisce in maniera evidente il
ruolo e l’autorità del sovrano, abbassandolo al rango di uomo comune,
superficiale, dominato dall’istinto del piacere e del possesso, di cui
indirettamente si serve il buffone gobbo per aizzarlo e quindi guidarlo su una
strada di progressivo abbruttimento morale (il padrone è asservito dal servo al
proprio piacere, così come il servo è nel pieno potere del suo signore); uomo
che pone a repentaglio la propria vita, dalla quale dipendono sudditi e paesi,
per i propri capricci e che utilizza le prerogative reali solo allo scopo di
avere e conquistare, senza alcun dovere implicito nel suo ruolo; uomo
monomaniaco che nella reiterazione continua fino all’assurdo dell’atto di
conquista femminile puramente a scopo sessuale appare molto vicino alla figura
di Don Giovanni, senza averne tuttavia le peculiarità sovrumane. La progressiva
discesa del re, dalla donna nobile alla borghese alla prostituta di strada, così
come il suo aperto e irriverente disprezzo per i suoi cortigiani (atteggiamento
che lo accomuna a Triboulet) lo rendono una figura altamente spregevole,
nonostante la bellezza fisica e l’allegria che ne contraddistinguono la vita
(caratteri che sembra appartenessero realmente al re Francesco I), ennesimo
esempio di fusione degli opposti e quindi creazione di un personaggio poetico
esteticamente appartenente alla categoria del bello. Verdi capì benissimo questo
aspetto del re e, nell’opera, in cui divenne un anonimo Duca di Mantova, lo pone
al centro della vicenda, cardine attorno al quale girano tutte le altre
esistenze, né più né meno di quanto avviene nel Don Giovanni mozartiano, opera
alla quale Rigoletto fa chiaramente riferimento (Rigoletto come Leporello e
Monterone quale Commendatore, con Gilda che assomma in sé, atto dopo atto, i
caratteri delle tre donne dell’opera di Mozart). È chiaro che la carica
eversiva e antimonarchica implicita nella vicenda di Hugo non poteva passare
l’ostacolo della censura; nello stesso tempo l’alta moralità e il cupo
pessimismo del messaggio trasmesso colpivano altrettanto forte: il ricorso alla
violenza e al male per vendicare l’affronto subito dal bene è una via tortuosa e
pericolosa che si rivolta contro il suo promotore; d’altra parte, il
privilegiato della natura è anche il privilegiato della sorte e persino il Conte
di Saint Vallier perdonerà il potente ma lascerà attiva la maledizione contro
l’offeso, suo pari nella paternità ma suo inferiore di rango: quindi la forza
del male precipita inevitabilmente verso il basso e chi cerca dal basso di farla
salire a colpire colui che è troppo in alto, la vede ricadere su se stesso.
Il
messaggio era forse ancor più sconvolgente di quello politico, poiché metteva in
gioco le coscienze collettiva e dei singoli, ed è tuttora un messaggio di
straordinaria modernità. Nella tragedia emerge un gioco continuo di simmetrie e
rapporti fra i vari personaggi che, intersecandosi, sovrapponendosi e
scambiandosi, crea una struttura drammatica di estrema forza ed incisività:
abbiamo visto il rapporto perverso e reciproco tra il re ed il buffone, ma sono
altrettanto forti: il rapporto fra Triboulet e Saint Vallier, uniti dalla
paternità offesa, uno offensore dell’altro che a sua volta lo maledice
avviandolo verso la rovina (soprattutto psicologica, giacché il turbamento
originato dalla maledizione spinge il gobbo a comportamenti irragionevoli che ne
determinano poi la sventura); quello tra Saltabadil e Triboulet, evidenziato in
un monologo di questi, ripreso anche nell’opera; quello, più sottile, fra
Triboulet e Maguelonne (deforme moralmente ma sublime fisicamente), entrambi
assassini per interposta persona; quello fra la stessa Maguelonne e Bianca, che
si rivela nel momento in cui quest’ultima spia i preparativi per l’omicidio
dell’amato; quello fra le due coppie Triboulet/Bianca e Saltabadil/Maguelonne,
le cui reciproche relazioni volgono il dramma verso la catastrofica conclusione.
° ° °
Il primo
approccio di Verdi con “Le Roi s’amuse” con l’intenzione di ricavarne un’opera è
del 1849, l’opera sarebbe stata destinata al San Carlo di Napoli su libretto di
Cammarano. Il progetto però sfumò dopo qualche mese. Nel febbraio del 1850,
Piave informa Verdi delle intenzioni del Teatro La Fenice di commissionargli una
nuova opera per la stagione 1850-51, con protagonista il baritono Felice Varesi,
molto apprezzato dal compositore.
Nell’aprile 1850 Verdi propone quindi il dramma di Hugo, considerandolo un
soggetto di straordinaria grandezza, soprattutto per la presenza di un
personaggio che, secondo lui, è una delle più grandi creazioni del teatro di
tutti i paesi e di tutti i tempi, Triboulet.
Il
problema che immediatamente si pone è quello della censura, dati i precedenti
del dramma teatrale ed il sospetto di cui è circondata la figura del
repubblicano Hugo, che di lì a poco, opponendosi alla dittatura di Napoleone III,
sarebbe stato costretto all’esilio. Piave, sollecitato da Verdi che sa
benissimo quanto rischioso sia questo soggetto, richiede l’approvazione
anticipata della censura, prima di iniziare il lavoro ed ottiene alcune
assicurazioni verbali che inducono Verdi ad iniziare il progetto, dal titolo “La
maledizione”, quanto mai generico, per allontanare ogni riferimento immediato
all’originale ma nello stesso tempo assolutamente pertinente alla vicenda.
A metà
agosto 1850 compaiono i primi problemi e Piave, che conosce bene il carattere di
Verdi, che ormai si è messo al lavoro, essendo stato da lui tranquillizzato
circa l’accettazione del soggetto, fa presente al Teatro che il soggetto non è
più crudo o immorale di tanti altri già accettati e che non c’è comunque più
tempo per cambiarlo. Verdi tiene troppo a questo dramma per rinunciarvi, e in
questi scambi epistolari si comprende benissimo quale era il metodo di lavoro
del compositore, che prima di scrivere meditava ed approfondiva il soggetto per
creare nella sua mente il cosiddetto “colore musicale”, trovato il quale, la
musica veniva da sola. In ottobre il libretto de “La maledizione” è terminato
ed è stata decisa anche la primadonna.
11
novembre 1850: l’Imperiale Reale Direzione Centrale d’Ordine Pubblico di Venezia
chiede l’invio del libretto, in quanto il nome e le vicissitudini di Hugo e del
suoi dramma hanno messo in sospetto i censori, nonostante la provata onestà di
Piave e Verdi. Il libretto, che riproduce fedelmente la trama di Hugo, viene
respinto: era impossibile portare sulla scena lirica i libertinaggi del Re di
Francia.
Piave
propone di rimodulare il libretto e scrive “Il Duca di Vendôme” con numerose
modifiche rispetto all’originale. Verdi accetta solo l’eliminazione della scena
che si trova all’inizio del secondo atto e che, riproducendo l’originale di
Hugo, viene bollata come della “massima sconcezza” ma su tutto il resto non
transige: la grandezza del soggetto originale è stata deturpata e la sua potenza
è ridotta a “cosa comunissima”. Verdi ritiene Piave responsabile di tutto
questo e lo liquida brutalmente.
Intanto
però esce il cartellone che annuncia una nuova opera verdiana, senza titolo; ci
sono gli artisti già scritturati, c’è la volontà di Piave di riallacciare i
rapporti col maestro, c’è il teatro che preme per avere l’opera. Verdi propone
lo “Stiffelio”, nuovo per Venezia e dato nell’estate 1850, ma il teatro rifiuta;
nel frattempo l’autorità di Polizia pare disposta ad accettare il libretto con
qualche lieve modifica. Il 27 dicembre Piave e il segretario generale del teatro
partono per Busseto per discuterne con Verdi e pochi giorni dopo viene stilato
un verbale con le seguenti modifiche:
- non la
corte di Francia ma un anonimo Ducato indipendente di Francia o d’Italia;
- cambiano
i nomi ma restano i caratteri originali del dramma di Hugo;
- si
sostituisce la scena della chiave con altra (diventerà l’aria “Parmi veder le
lacrime”);
- il re o
duca si recherà alla taverna da Maddalena attiratovi con l’inganno;
- Verdi
deciderà all’atto pratico la destinazione della scena del sacco;
- l’opera
non potrà andare in scena prima del 28 febbraio.
Il
segretario del teatro torna a Venezia mentre Piave rimane a Busseto a lavorare.
Il 10 gennaio 1851 il nuovo libretto, con il titolo “Rigoletto”, è terminato e
il giorno dopo viene presentato alle autorità di polizia veneziane; il 24 dello
stesso mese si sa che sarà approvato con la modifica di qualche nome e
finalmente, il 26 gennaio, il libretto rientra alla Presidenza del teatro.
Verdi completa la musica, il duetto finale, e termina il 5 febbraio. Il 19
febbraio Verdi è a Venezia per iniziare le prove e l’opera va finalmente in
scena l’11 marzo 1851, con deciso successo di pubblico e tredici repliche che la
consacrano fra i massimi e più popolari capolavori del teatro musicale di ogni
tempo.
Da
“Angelo, tyran de Padoue” a “La Gioconda”
V. Hugo
scrisse nel 1835 “Angelo, tyran de Padoue”, dramma teatrale in tre parti, che
ebbe un immediato e grande successo. Come Lucrèce, Hernani e Le Roi s’amuse,
anche questo dramma è ambientato nel XVI secolo, per la precisione a Padova
(sotto il governo della Serenissima) nell’anno 1549.
Il nucleo
della vicenda, ossia la rivalità amorosa di due donne, è ispirato a Hugo dalla
sua situazione personale: Tisbe e Caterina rispecchiano le due donne che allora
occupavano la sua vita sentimentale, la moglie Adéle, allora amante del critico
letterario Sainte-Beuve, e l’attrice Juliette Drouet, che rinunciò ai suoi
numerosi e ricchi amanti per rispetto verso lo scrittore; il legame che Rodolfo
ha con le due rivali riflette l’amore ormai platonico di Hugo verso la moglie e
quello sensuale e fisico verso l’attrice. Se nella vita reale tale intreccio
amoroso era trattato con una certa indulgenza da entrambe le parti, nell’opera
il conflitto fra le due donne e la reciproca gelosia si esprime con accenti di
odio profondo che pone ancor più in rilievo il contrasto netto, che si
materializza nel momento in cui Tisbe salva Caterina per gratitudine verso colei
che sottrasse alla morte la madre e che, dopo averla cercata in tutti i suoi
pellegrinaggi di attrice nelle varie città d’Italia, la riconosce grazie al
crocifisso che le aveva donato la vecchia donna in segno di gratitudine.
La
rappresentazione del conflitto femminile è l’autentico asse portante del dramma,
giacché la figura del protagonista passa in realtà in secondo piano, così come
quella dell’altro personaggio maschile che appare esclusivamente in funzione del
ruolo che le due donne hanno in rapporto a lui. Quello che diventerà nell’opera
di Ponchielli uno degli scontri più famosi tra due donne innamorate dello stesso
uomo è già presente in Hugo, forse addirittura con maggiore potenza e violenza
verbale, non indebolita della magniloquenza fantasiosa di Boito. Tisbe, colei
che diverrà Gioconda, così si rivolge a Caterina:
“...non
valete più di noi, signore! Quello che noi diciamo apertamente a un uomo in
pieno giorno, voi lo balbettate vergognosamente la notte. Non cambiano che le
ore! Noi vi prendiamo i vostri mariti, voi ci prendete i nostri amanti. È una
lotta. Benissimo. Lottiamo! (...) no, perdio, voi non valete quanto noi. Noi
non inganniamo nessuno, noi! Voi ingannate il mondo, ingannate le vostre
famiglie, voi ingannate i vostri mariti...”
L’azione
del dramma, rispetto alla maggiore concisione e linearità di “Lucrèce Borgia”,
“Hernani” e “Le Roi s’amuse”, presenta un intreccio più complesso in cui però i
rapporti fra i personaggi non hanno le simmetrie, la profondità, le implicazioni
filosofiche e morali che si presentano negli altri, rimanendo più a livello di
narrazione drammatica e descrittivismo storico ed ambientale che di scavo
psicologico o di analisi interiore. Ma la complessa, intricata vicenda, ricca
di colpi di scena tipicamente teatrali, non poteva non raccogliere grande
successo all’epoca del “feulleiton” e dei romanzi storici e popolari alla Dumas
di cui la Francia letteraria era intasata in quegli anni.
Una trama
passionale e patetica che sembrava nata per ispirare il melodramma romantico
suscitò quasi subito l’interesse dei compositori. Già due anni dopo la sua prima
rappresentazione, “Angelo” ispirò la sua prima versione melodrammatica: su
libretto di G. Rossi, Mercadante compose “Il Giuramento” che, rappresentato nel
1837, rimane il suo capolavoro teatrale; in quell’occasione, il librettista
mantenne la struttura e l’intreccio della vicenda originaria, pur trasferendola
in epoca anteriore (XIV secolo) e in Sicilia. Mercadante fu sempre estremamente
apprezzato, sia come prolifico compositore teatrale (oltre sessanta melodrammi,
di varia matrice, dal Neoclassicismo di stampo rossiniano al pieno romanticismo
preverdiano) che come autore di musica strumentale, cameristica e sacra. Grandi
musicisti del suo tempo, da Liszt, che ne ascoltò un’opera a Venezia, allo
stesso Verdi, lo tennero in alta considerazione. Ragioni legate probabilmente al
cambio di gusto del pubblico avvenuto durante la sua lunga vita determinarono la
scomparsa dal repertorio dei suoi lavori, alla pari di quelli di altri validi
compositori (Pacini, ad esempio) che però non riuscirono a rinnovarsi e non
poterono contrastare l’inarrivabile termine di paragone offerto dalla produzione
verdiana. Così anche “Il Giuramento”, pur caratterizzato da indiscutibile valore
musicale, da una drammaticità che prelude a quella verdiana, attraverso la
ricerca di nuovi schemi teatrali e grande libertà formale, non è tuttora
rientrato stabilmente in repertorio, benché molti musicologi sostengano che, tra
gli autori cosiddetti minori dell’Ottocento, Mercadante è quello che potrà
riservare grandi sorprese, una volta che la sua produzione fosse studiata e
riconsiderata con la dovuta attenzione critica.
Negli anni
Settanta dell’Ottocento, Arrigo Boito, su commissione di Ricordi, partì dalla
trama del dramma per ricavarne un macchinoso e spettacolare libretto che
l’editore, nume tutelare della musica teatrale in Italia, affidò da musicare ad
un compositore non più giovanissimo ma che, dopo anni di gavetta e sofferenza,
aveva conosciuto le sue prime affermazioni, Amilcare Ponchielli. Questi perciò
non scelse volontariamente il soggetto della sua opera ma si trovò a comporre su
esplicita commissione della casa editrice e su un libretto già confezionato:
erano cambiati i tempi, cominciava il dominio dell’industria editoriale che
controllava indirettamente anche i cartelloni teatrali; i problemi con la
censura non esistevano più nella forma in cui si erano presentati prima
dell’Unità d’Italia e comunque questo dramma di Hugo era stato uno dei pochi a
passare indenne questo problema anche nella sua versione originale; inoltre,
Ponchielli, al di là delle capacità musicali e creative, non aveva il carattere
combattivo ed autoritario di un Verdi, per cui fu sempre disponibile ad
accettare quanto gli veniva richiesto.
La vita di
Amilcare Ponchielli non ha nessuna di quelle caratteristiche e quegli episodi
che fanno sempre parte della biografia dei grandi geni predestinati. Nato in un
paesino di campagna, dopo i primi studi musicali entrò al Conservatorio di
Milano, dove fu notato per il suo talento e dove si diplomò. Stabilitosi a
Cremona, si manteneva dando lezioni di pianoforte e suonando l’organo;
fortunatamente, un ricco commerciante lo aiutò con uno stipendio mensile
affinché potesse scrivere con tranquillità un’opera. Fu “I Promessi Sposi”, che
venne eseguita con il contributo di ammiratori e amici nel 1856. Nonostante il
grande successo locale, Ponchielli per alcuni anni fu costretto ad assolvere il
modesto incarico di direttore della banda, prima a Piacenza e poi di nuovo a
Cremona. In quegli anni scrisse alcune opere che non ebbero più di una
risonanza locale, se non addirittura esito negativo. Nel 1868 partecipò al
concorso per la cattedra di contrappunto e fuga al Conservatorio di Milano e
risultò il primo della terna dei vincitori. Ma la nomina ministeriale, su
pressioni forse di Ricordi e Boito, andò a Franco Faccio, e l’episodio fu
passato quasi totalmente sotto silenzio. Ma con l’esecuzione, l’anno dopo, de
“I Promessi sposi” di Petrella, ci si ricordò dell’opera dello sconosciuto
cremonese e la si volle porre a confronto con questa: fu l’occasione per
Ponchielli di realizzare una nuova versione della sua opera su libretto
ampiamente rimaneggiato. La rappresentazione data a Milano nel 1872 fu il primo
successo che proiettò il compositore fuori dalla sua realtà locale. Le critiche
entusiastiche spinsero l’editore Ricordi ad affidargli un’altra opera, che fu “I
Lituani” su libretto di Ghislanzoni, data alla Scala nel 1874, e successivamente
ad affidargli il libretto che Boito aveva creato ispirandosi all’ “Angelo” di
Hugo e che divenne “La Gioconda”. L’editore, come tutto il mondo musicale
italiano, era alla spasmodica ricerca dell’erede e continuatore di Verdi, ora
che il grande compositore sembrava aver chiuso, con “Aida” e la “Messa di
Requiem”, la sua attività artistica; di volta in volta furono acclamati in tale
ruolo Marchetti, Gomes, Gobatti, e finalmente Ponchielli, che più di tutti
meritò e mantenne questo titolo simbolico. “La Gioconda” tenne impegnato il suo
autore per altri tre anni, fino alla sua versione definitiva del 1879. L’anno
dopo Ponchielli ebbe finalmente la cattedra al Conservatorio di Milano ed ebbe
fra gli allievi Puccini, di cui comprese perfettamente il talento e che aiutò in
tutti i modi affinché potesse disporre di un libretto, comporre la sua prima
opera e rappresentarla (fu “Le Villi”) e Mascagni. Scrisse ancora due opere,
tra cui “Marion Delorme”, anch’essa su libretto tratto da V. Hugo ed elaborò una
nuova versione de “I Lituani”. Morì all’inizio del 1886 di broncopolmonite.
° ° °
La
trasformazione del dramma di Hugo che Boito realizza per la scena lirica va
nella direzione della spettacolarità erede del Grand Opéra francese. A partire
dagli anni sessanta dell’Ottocento, nell’ambito di quella ricerca di nuove vie
per il melodramma italiano che aveva chiuso la fase cosiddetta “risorgimentale”,
al di là della personale evoluzione di Verdi, ormai nume tutelare del teatro
musicale italiano ma sempre più impegnato a scrivere per i teatri stranieri, si
inquadra anche la tendenza a riprodurre in chiave italiana le caratteristiche
che, nei quarant’anni precedenti, avevano fatto la fortuna del Grand-Opéra
francese. Accanto all’isolato ma significativo tentativo boitiano con il “Mefistofele”,
tutti i compositori del tempo, nella loro ricerca di nuove vie, affrontano
almeno un titolo che riproduce le strutture formali della grande opera francese
che aveva avuto in Meyerbeer il suo nume tutelare e che Rossini e Donizetti
avevano affrontato con grande successo; Verdi stesso, in quegli anni, dopo “Les
Vêpres siciliennes” del 1855, presentò il “Don Carlos” e “Aida”. Tali enormi
meccanismi teatrali riprendono dalla tradizione francese alcune caratteristiche
strutturali quali: il soggetto storico, disposizione in quattro o cinque atti,
gran numero di personaggi, numerose scene di massa con cori e balletti.
Pur
nell’evoluzione dei tempi, Gomes con “Il Guarany”, Marchetti con “Ruy Blas”, lo
stesso Ponchielli con “I Lituani” andarono in quella direzione, il cui massimo
risultato fu “La Gioconda”, probabilmente il miglior melodramma realizzato
all’epoca al di fuori delle opere verdiane, tanto che Ponchielli si trovò da
compositore quasi sconosciuto ad assumere in poco tempo il ruolo di erede
designato di Verdi.
Boito
parte dal testo di Hugo ma lo tratta quasi come un canovaccio, rielaborando
ambientazione e situazioni a scopo melodrammatico e imprimendo a tutto il
libretto il marchio della sua debordante personalità, al punto che mai viene
fatta esplicita menzione del dramma originario. Il compositore si trovò in più
circostanze non poco imbarazzato e, pur facendo le sue osservazioni e
rimostranze, non aveva l’autorità e la forza di affermare le proprie decisioni.
Il confronto fra il libretto originale e quello musicato rivela comunque il
tentativo operato dal musicista di snellire la struttura di alcune scene ed
anche interessanti modifiche nel segno di un maggiore approfondimento
psicologico di alcuni personaggi.
Boito (che
si firmò con l’anagramma Tobia Gorrio) impostò il libretto sul modello del “grand-opéra”,
concedendo grande spazio a scene corali e d’assieme ed a forti contrasti
drammatici, sacrificando però alla complicazione dell’intreccio - dovuta anche
alla presenza di un sesto personaggio che in Hugo è solo citato (La madre cieca)
ed allo sdoppiamento del protagonista Angelo in due personaggi, Alvise Badoero e
Barnaba, che acquista anche alcune caratteristiche di Omodei, spia del Consiglio
dei Dieci - l’evoluzione psicologica dei protagonisti che, a parte qualche
sussulto di tipo psicotico e nevrotico della protagonista (realizzato da
Ponchielli con un canto sostanzialmente “di sbalzo”, caratterizzato da ampie
arcate melodiche e grandi intervalli, tutti logicamente inseriti nel contesto
armonico ma difficoltosi per il continuo passaggio di registro che richiedono
all’interprete), rimangono statici, quasi pedine di un gioco del destino che li
pone in rilievo su un’enorme sfondo corale ma che non permette loro alcuna
libera e personale iniziativa.
La
modifica fondamentale, dalla quale dipendono tutte le altre, è il trasferimento
da Padova a Venezia del luogo della vicenda e lo spostamento in avanti di circa
un secolo della stessa. Per quanto Padova possa vantare importanti monumenti,
palazzi e chiese, e per quanto all’epoca fosse sotto il dominio della
Serenissima, l’ambientazione veneziana risulta teatralmente più spettacolare e,
se aggiunge al cupo dramma di Hugo, che non presentava scene di folla, un
elemento scenografico di sicuro impatto, potendovi inserire scene all’aperto con
danze, processioni, barcarole, gondolieri, la regata, un intero atto a bordo di
una nave e così via, tuttavia ne limita il truce e lugubre intimismo, il cui
spirito viene rievocato solo nella torbida, soffocante, mortifera atmosfera
lagunare del quarto atto. Tale ambientazione giovò non poco alla carriera
internazionale dell’opera ma soprattutto servì a portare in evidenza l’elemento
malefico che si incarna nel potere dello stato attraverso la sua autorità
costituita (Alvise) e attraverso i delatori (Barnaba). Boito, nel descrivere
questo aspetto terribile della realtà storica della Serenissima, si ispirò ad un
monologo del protagonista di Hugo che descrive l’autentica realtà della Venezia
del suo tempo.
“Del
resto, balli, feste, fiaccole, musiche, gondole, teatri, carnevale di cinque
mesi, ecco Venezia. Voi, Tisbe, mia bella attrice, voi non conoscete che questo
lato; (...) E sapete che cos’è Venezia, povera Tisbe? Venezia, ve lo dirò
subito, è l’inquisizione di stato, è il Consiglio dei Dieci. Oh! Il Consiglio
dei Dieci! Parliamone sottovoce, Tisbe, poiché c’è forse qualcosa che ci
ascolta. (...) Nulla che li riveli agli occhi, nulla che possa farvi dire:
costui ne fa parte! un segno misterioso sotto le loro giacche, al massimo. (...)
- bocche fatali che il popolo crede mute e che tuttavia parlano (...) poiché
esse dicono ad ogni passante: denunciate! Una volta denunciati, si è presi.
(...) A Venezia non si muore sul patibolo, si sparisce. All’improvviso in una
famiglia manca un uomo. Cos’è successo? I piombi, i pozzi, il Canal Orfano lo
sanno.”
Inoltre,
alcune vicende che in Hugo sono narrate, come il soccorso dato da Caterina alla
madre di Tisbe, vengono da Boito abilmente integrate nell’azione assieme a scene
desunte fedelmente dall’originale. Nel quarto atto invece, l’invenzione di Boito
regna sovrana: Gioconda ha salvato per la seconda volta Laura dalla morte,
dandole un sonnifero al posto del veleno ma Enzo, convinto che essa abbia
assassinato per gelosia la sua amata, sta per ucciderla. In Hugo il dramma qui
giunge al culmine e Rodolfo ammazza Tisbe prima che Caterina si ridesti; nel
libretto e nell’opera, Laura si risveglia appena in tempo per fermare Enzo e
quindi, con la fuga dei due amanti, si delinea un inaspettato lieto fine. Ma gli
imprevisti non mancano: Barnaba, i cui tratti caratteristici (anche musicali)
anticipano fortemente lo Jago verdiano, torna a reclamare da Gioconda il suo
diritto di possederla in cambio della salvezza di Enzo, ma la donna, in un
ulteriore colpo di scena, si uccide, lasciando a Barnaba solo il proprio corpo
senza vita.
Ponchielli,
abbiamo visto, cercò di venire a capo di questo complicato libretto,
modificandone alcuni versi per meglio adattarli alla musica; utilizzando due
fondamentali temi musicali che si rincorrono per tutta l’opera, dal preludio
all’ultima scena, uno cupo e sordo nella sua ostinata figurazione ritmica e che
si lega al personaggio di Barnaba, uno assai melodico (uno dei temi forti
dell’opera) che rappresenta l’idea del rosario; ispirandosi probabilmente al
trattamento musicale che Boito aveva fatto di Mefistofele per il personaggio di
Barnaba; mettendo fondo a tutte le sue risorse di acclamato compositore di
musica per balletto; ritraendo la psicosi di Gioconda attraverso un canto la cui
linea melodica a grandi intervalli tende sempre ad aggrovigliarsi su sé stessa.
La
lunghezza e complessità del libretto è dovuta alla grande quantità di numeri
musicali, ora singoli ora uniti, che lo caratterizza e che presentano una
straordinaria varietà: cinque arie solistiche, due arie solistiche con
intervento corale, duetti, terzetti, cori, un concertato, danze. Tale varietà
origina una certa frammentarietà, che Ponchielli riesce a tenere insieme grazie
al ricorso costante ai due temi principali, ad una scrittura vocale specifica
per Gioconda e ad una costante ispirazione melodica che difficilmente cade nel
banale e che si fonda su una ferrata scienza della composizione. Non mancano di
conseguenza episodi, anche numerosi, in cui la scrittura musicale ed il senso
drammatico del brano toccano vertici assai alti, soprattutto riguardo il
personaggio di Barnaba; ad esempio, l’episodio della sommossa da lui fomentata
nel primo atto è il chiaro modello (tempo di sei/ottavi e tonalità iniziale di
si minore) cui fa riferimento Verdi nel brindisi del primo atto di Otello,
situazione drammaturgicamente assai simile (del resto Barnaba è il modello
musicale e vocale di Jago). Giustamente apprezzati e famosi sono i balletti ed
anche la scrittura corale, sia fugata che libera, presenta i segni di un’attenta
cura d’impronta scolastica ma talora ravvivata da sprazzi che rivelano un
autentico talento. Senza mai indulgere al facile effetto musicale, nell’insieme
Ponchielli riesce ad elaborare un’opera che offre una notevole quantità di
invenzione, di varia qualità, il cui principale difetto consiste nella lunghezza
eccessiva, talora originata anche da continue ripetizioni dello stesso testo: il
terzetto dell’ultimo atto è significativo al riguardo tanto che, pur abbreviato
da due tagli tradizionali, rimane comunque sempre eccessivamente lungo in una
situazione in cui è invece richiesta rapidità d’azione. Tuttavia, a compensare
questa prolissità musicale, della quale il compositore non aveva che una parte
di responsabilità, vi è la ricchezza di spunti melodici di grande interesse, dal
carattere originale, riconducibili ad una tendenza che voleva superare la
melodia ritmicamente regolare, senza perdere però la possibilità di diventare
popolare, per la sua linearità e incisività, e cercando di stare al passo con
l’evoluzione del linguaggio musicale di quegli anni. In sostanza, pur essendo
stato Ponchielli il maestro, fra gli altri, di Puccini e di Mascagni, le sue
opere, e “La Gioconda” in particolare, non sono tanto un ponte tra Verdi e il
Verismo quanto fra il Verdi degli anni Sessanta e Settanta e quello di “Otello”.
Quest’opera rimane perciò come un grande esempio di quel teatro musicale che
cercava di percorrere vie sempre più nuove ma senza staccarsi dalla tradizione
italiana del canto melodico né dalla spettacolarità delle grandi scene
d’assieme; e proprio per tale motivo il capolavoro di Ponchielli, dopo
ripensamenti e rimaneggiamenti che portarono a quattro versioni, l’ultima delle
quali è quella normalmente eseguita in teatro, si è affermata subito come una
delle opere più popolari del repertorio italiano.
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