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Un
teatro che si mette in scena da dietro le quinte, attraverso un’ambientazione
che prende forma dai camerini di un’altro spettacolo già in corso, ma anche
ponendo in evidenza, con un’assecondante lievità, taluni aspetti del nostro
esistere contemporaneo.
Scrittura che è parte di un processo osmotico tra
realtà e finzione, nondimeno è anche una vera e propria scrittura offerta
all’attore da parte dell’attrice, nonché perno dell’intera vicenda. Una
provocazione rappresentativa della compravendita quale modello vigente del
relazionarsi ma che, tuttavia, diviene anche paradossalmente paradigma di presa
di coscienza dalle circostanze. C’è una finzione scenica che resta intrappolata
dal reale nella consapevolezza della realtà-finzione circostante, mercificazione
uniformante ostentazione deprivata del sentire dell’io. Il tutto si svolge
tramite un copione da lei precostituito ed al quale lui, in quanto pagato, dovrà
teoricamente attenersi, in un appuntamento settimanale scandito dal giovedì.
Naturalmente le cose si complicano subito, tra orgogli timorosi di rimanere
impantanati nel gioco.
Un gioco che s’innesca, a tratti stravagante, fino a
modellare dettagli in simboli ed ortaggi in fiori fuori copione, per i
protagonisti un percorso con cui contaminare la tensione esistenziale attraverso
la recitazione. Il tutto viene gradualmente tinteggiato dell’arte allusiva
dell’erotismo, del tutto antitetica alla preponderante omologazione
dell’esplicitazione, pornografica a partire dalla mancanza di un autentico
oggetto del desiderio. Una sorta d’ipertesto emblematico del vivere e di tutte
le sue varianti è quanto s’insinua tra le righe pronto a fuoriuscire, ma
nondimeno è lo stesso testo che costituisce il solo punto di riferimento
risolutivo percorribile. Dulcamara e il suo codazzo di maschere della commedia
dell’arte dà consistenza a quanto detto, comparendo infine a mo’ di demiurgo. È
lui che media e dispensa l’elisir d’amore. Show-room con sex-machine
telecomandata dell’orgasmo “da copione” è quanto la co-protagonista non sceglie
scritturando l’attore sì con un suo copione, ma nella segreta speranza che sia
anche in grado di tradirlo dalla finzione. D’altronde il reale è parte di una
degenerata ipocrisia, tanto che infine non si stenta a chiedere “asilo alla
finzione”, “lontano da malsane verità”. Trionfa infine l’amore, ma nel
quotidiano folgorato con un’ultima battuta, che meglio rende il qui ed ora in
una dimensione che trascende.
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Recensione |
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