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È un Marengo in forma strepitosa, un Marengo “maggiore”, quello che incontriamo ne Il tempo non ritorna, sesto romanzo di questo narratore lucido, disincantato ma – sempre e comunque – incantevolissimo. Opera breve e compiutissima che ha tutte le proprietà ed i respiri del romanzo destinato a rimanere, a fare scuola: la sapienza architettonica, il dono dei personaggi, la fiducia affettuosa nella realtà, la fedeltà minuziosa ai luoghi, la distensione, la discrezione con cui lievi, dosatissime, accensioni liriche screziano talora la prosa. Ed ancora, i lampi, un poco sveviani, di purissima – a tratti, amarissima – ironia, l’utilizzo, moderato e per il tanto incisivo, del parlato colloquiale, la vivezza dei dialoghi, lo stile alto, battuto, scorciato. Ma quel che più colpisce e più seduce è la capacità – e in questo Marengo è maestro – di miniaturizzare la narrazione: Il tempo non ritorna è un romanzo fatto di piccoli tocchi, di brevi cenni, di rapidissime note di colore, di scorci di conversazione. Una scena viene sostituita da un aggettivo, un’analisi psicologica da un gesto, un paesaggio da uno squarcio, uno sviluppo da un simbolo. Perché Bruno Marengo non è scrittore di frapponimenti, di indottrinamenti: propone, con autorevolezza rara e finitissima, la pienezza della Storia. La sua, la nostra. È la Torino di ieri, la Torino della Resistenza, della tensione morale, della ribellione e dell’impegno, a fare da sfondo, pittorico e sonoro, all’amore fra “il ragazzo dagli occhi vivaci” e la “ragazza con le fossette”, destinati a perdersi e a ritrovarsi, “uomo senza età” e “donna senza età”, nella Torino di oggi, assordante e scintillante nei suoi negozi, vetrine, bar ultramoderni, gazebo d’ogni sorta, insegne scritte in inglese. Una Torino diversa, mutata ma fedele alla sua anima storica e sociale; come diversi e mutati, dall’ineluttabile trasformante del tempo, sono i protagonisti, che non hanno nome né caratterizzazione anagrafica, ma pur sempre aderenti ai medesimi principi ed ideali, pur sempre incatenati ad un amore antico che, per rivivere, necessita di forme nuove. Questo, in definitiva, il nucleo portante di lavoro, chiave metaforica e di lettura dell’opera.

E basta poco per perpetuare l’incanto, per vivere oltre, oltre le perdite, oltre le sconfitte, oltre le cadute: poche parole sillabate adagio, un posto tranquillo, le note soffici del Valzer dei fiori. Così suggerisce la chiusa, venatamente melanconica e onnipervasa di autentico lirismo, chiusa che non stringe, che non chiude ma si allarga e si distende. Facendosi oltre, senza fine. Il tempo non ritorna, sarebbe sicuramente piaciuto a Gozzano – più volte citato e riportato in corso d’opera – per talune, felicissime, vicinanze; piace, e molto, a Bárberi Squarotti, e ben lo si evince dalla spaziante, partecipata prefazione. Piacerà, per certo, ai tanti, tantissimi lettori che, da tempo, seguono questo autore alto che della sua Liguria, d’oro e d’argento, ha anse e slarghi, ritrosie e pronunciamenti, asprezze e morbidezze.

Recensione
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