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L'ambiente al centro del romanzo e il caffè milanese Jamaica che il titolo richiama, fondato nel 1911 non lungi dall'Accademia di Belle Arti di Brera. Grazie non solo alla propria posizione in Milano ma a certe iniziative culturali dei proprietari, diviene negli anni '60 del XX secolo, durante i quali la narrazione si svolge, il bar degli artisti, "un posto dove Parigi ha traslocato una parte di essa e del suo esprit", punto d'incontro della meneghina boheme e di più o meno famose figure intellettuali, tante delle quali sono citate o intervengono nell'opera.
Il romanzo si apre tuttavia lontano dal Jamaica e dai suoi artistici avventori, entro un appartamento e sulla figura d'un caratteristico personaggio: un micio, Felix detto Ribaldo o Ribaldone, che sta gnaulando un sempre più lungo "Mia000... mia0000... mia00000", presenza e fiato che sottolineano simpaticamente "una di quelle sere giuste" in cui "tutto concorreva ad armonizzare l'atmosfera distesa della città finalmente vuota" per le ferie, a causa della chiusura agostana della maggior parte delle fabbriche, degli esercizi commerciali e degli uffici, in quell' Italia del boom in cui la villeggiatura era pratica ormai dischiusasi anche a molti salariati. Il miagolio disperato, chiaramente bramante cibo — è sempre affamato sto gattone — introduce l'arrivo dello scapolo benestante e blasonato ingegner Soresiani, uno dei due protagonisti dell'opera — forse questo personaggio, per alcuni aspetti come ad esempio lo spasso che prova nel camuffarsi, e lontanamente ispirato a una persona assai cara all'autrice — che è di ritorno da un suo "giro di perlustrazione con l'annaffiatoio in mano", essendosi offerto a inizio mese, sia pur "misantropo", ma tutto considerato non poi tanto, di bagnare ogni sera le piante domestiche degli abitanti in vacanza del caseggiato e di custodire e nutrire sia FelixRibaldo, micione che appartiene, o viceversa, all'assente violinista Massimiliano Andreani Tolmezzi, sia l'innominato canarino della villeggiante canterina "signora Floriana", detto dalla padrona semplicemente, alla meneghina, "Usel" o "l'usel" — l'uccello. Gustosissime sono, fra molt'altro, le descrizioni della vita di condominio e le espressioni dei pensieri felini del furbissimo Felix-Ribaldo, un gatto padrone, potremmo dire, che sa sottomettere gli umani con fusa e leccate, tanto da far dire a un meravigliato Soresiani, forse con sotteso riferimento della scrittrice all'ancestrale conflitto felino-canino: "Ma questo gatto mi ama... porco cane!". L'altro protagonista della storia è un anonimo Salvatore Esposito che porta in arte l'altisonante e un po' buffo soprannome di "mago Thot" o meglio Thot Han Kummel, mago internazionale, gran veggente, paragnostico e via di seguito: uno sprovveduto personaggio sempre in attesa d'un raro cliente che si faccia sfilare "almeno 5000" lire — un 50 euro d'oggidì — e che è tentato continuamente, dal bisogno, di cambiare mestiere, di fare "insomma un lavoro normale". È aiutato all'occorrenza da una giovane amica, Laura, anche nello svolgimento d'incombenze pratiche quali il taglio, malfatto, dei propri capelli o il far la coda al posto suo a uno sportello per mettere un annuncio pubblicitario esaltante l'abilità divinatoria del misero chiaroveggente; quanto a Laura, è al momento solo una povera aspirante attrice auto candidatasi a far parte del Piccolo Teatro di Milano: sarà lei la chiave che aprirà la porta del Jamaica ai due protagonisti. In un giorno di sole l'ingegnere misantropo ma non tanto, travestito da turista alemanno, o almeno cosi il Soresiani pensa di sembrare ai rari passanti avendo indossato "occhiali neri, corti pantaloncini" su "gambe pelosette e biancastre, una camicia hawaiana [...]", i piedi infilati in "sandali autentici tedeschi", esce per le vie di Milano in cerca d'avventura, accompagnato grottescamente dal gatto Felix miagolante "in modo strano" forse perché infastidito essendo "trattenuto da un nastro rosa" a mo' di guinzaglio preparato lì per lì dal suo provvisorio servo-padrone. Il Soresiani conosce per via Laura che subito lo lusinga, credendolo un genuino straniero, per attirarlo dal mago qual bramato cliente ma, prima, per farsi pagare un cappuccino e una brioche: "Laura si disse: `Quello e il mio uomo... ha una aspetto da art Comic... e proprio quello che ci vuole..."; l'altro, divertito, recita con lei in un italian-teutonico da barzelletta, affermando cose come: "[...] io essere turista di Grande Germania [...] essere proprio tetesco [...] io essere Hans Braun, tetesco di Baviera". Finiscono al Jamaica con Ribaldone. Dopo un po' il divertentissimo gatto, sentendosi trascurato dal provvisorio possessore che con Laura s'era intanto pappato brioche e cappuccino, mentre i due "a lui non ne avevano dato neppure una briciola", decide, persa ormai ogni speranza, che "una graffiatina non faceva male" - "Ahi!"; anzi, che "forse una seconda era anche meglio" - "Ahi! Ahi!"; e finalmente ne ha cibo a sazietà. Intervengono intanto nella narrazione figure come l'autore di testi di commedie musicali Serafino Gelini, "Fino" per la sua convivente Valeria, innamorata di lui e, forse proprio per questo, con lui fieramente critica, e come Palmina, la portinaia del palazzo di Thot, una di quelle donne factotum e corazzieri dei condomini di una volta, ancora relativamente numerose negli anni '60 e oggigiorno razza scomparsa: una custode di spirito materno che prepara al poveretto pranzetti in cambio di sedute magiche e che involontariamente fa sì ch'egli si scopra genuino medium — o forse di molto psicologo? — . Il mago e adesso medium Thot e l'ingegner Soresiani con Laura e Ribaldone convergono al Jamaica fra pittori, scultori e così via, soprattutto di quelli non famosi che, non avendo danee, non possono spendere per una vacanza al mare o ai monti, e vi stazionano con in mano bicchieri d'aperitivo e panini deliziosi al latte imbottiti con salame Milano o altre golosità. Fra varie vicende conoscono, fra altri, un lontano discendente del grande Alessandro, Piero Manzoni divenuto famoso anche presso il pubblico più vasto per certa sua merda d'artista, sterco sigillato in barattolini da 30 grammi ciascuno — ma secondo il pittore astratto Agostino Bonalumi, suo amico, ci sarebbe gesso all'interno delle scatole. Una curiosità per inciso: sapevo che il 23 maggio 2007 nella casa Sotheby's di Londra la lattina numero 18 era stata battuta per 124.000 euro, cifra che consideravo astronomica, ma c'informa la Minotti Cerini che in un'asta di alcuni anni prima, addirittura, un altro barattolino aveva raggiunto la "cifra incredibile di quasi un miliardo" di lire; ciascuno dei 90 contenitori è comunque già offerto in vendita dall'autore in vita, un tanto al grammo, al prezzo dell'oro. Il Manzoni appare umoristicamente nel romanzo con "tra le mani un barattolo: certamente qualcosa di mangereccio", suppongono gli altri; e una di quelle lattine verrà aperta miseramente da ingenui; la figura del Manzoni ritorna, verso la fine, quando ormai "stava per davvero male, e le notizie lo davano in continuo peggioramento e gli amici gli mandavano tanti pacchettini per tenerlo su e andavano a visitarlo trovandolo sempre più pallido ed emaciato": egli morirà per infarto, appena trentenne, nel 1963. In breve, l'atmosfera poetico-culturale straordinaria che si respira al Jamaica e tanti accadimenti, tutti gustosamente narrati, portano felicemente a un drastico rinnovamento nella personalità dei protagonisti Thot e Soresiani. Il bar Jamaica m'è apparso, oltre che il concreto luogo storico-sociale rievocato dalla Minotti Cerini, anche simbolo della giovinezza sognatrice della generazione borghese colta nata durante l'ultima guerra, metafora cioè del tempo, che fu anche il mio, delle affascinanti speranze in "un futuro, senza divisioni di sorta", come la scrittrice mette in risalto, in cui tutte le classi sociali sarebbero giunte a unirsi "in un sodalizio di amicizia" grazie all'arte e alla poesia, in quell'Italia detta del boom che stava cominciando a conoscere un benessere esteso, forse neppur sognato prima dai più anche se relativamente modesto secondo i canoni spendaccioni e vacui di oggigiorno, che non paiono ancor abbattuti dalla crisi tremenda provocata dall'economia globale: uno sviluppo che bruscamente fu interrotto, per un decennio e mezzo, dal cosiddetto `68 con le sue richieste senza confini da parte di maree di sedicenti contestatori, figli in parte della borghesia benestante e in parte di proletari; ma nel romanzo Belè, l'unico frequentatore del Jamaica rivoluzionario nonché povero, tipo adorante la figura del Che e indossante sistematicamente una maglietta con l'immagine di quel guerrigliero, grazie a una vincita al Lotto diventa un riccone con "un portafoglio pieno di banconote" e il sorriso dell'autrice ci fa intendere che tanto rivoluzionario, ormai, egli non sarà più: il sorriso sa abbattere i deliri fanatici e le spocchie vacue, e ne occorrerebbe tanto nella nostra società seriosa e, prima, ce ne sarebbe voluto anche di più in quella degli anni '70 e primi '80 in cui molta parte della cultura s'era fatta organica, cioè serva di un'ideologia collettivistica, negazione stessa della libertà artistica e letteraria: il contrario dello spirito del Jamaica di pochissimi anni prima. Come le altre opere dell'autrice il romanzo è scritto assai bene, è brillante, ricco di humour. Lo vedrei anche sceneggiato per un film-commedia. Molte foto d'epoca corredano il volume. Un'appendice, a cura di Micaela Mainini, coerede dei fondatori del Jamaica e tra gli attuali suoi gestori, ne ripercorre tratti di storia, svelando l'origine del nome del bar e rivelando, fra l'altro, che il suo abituale frequentatore Benito Mussolini se l'era filata a Roma nel 1922 a farvi il Presidente del Consiglio senza preoccuparsi di saldare, prima, il conto accumulato per i suoi cappuccini quotidiani. |
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