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In effetti, il rigore che contrassegna l’impegno creativo trova in queste poesie una sua immagine ben delimitata e dinamica, specie là dove l’urgenza di chiarire a sé ed ai lettori la cifra dominante di una realtà manipolata e scheggiata, riesce a cogliere in piena autonomia degli strumenti retorici una sua valenza di scavo perentorio di margini sociali. La chiarezza, che deriva da una alta tensione della ragione, trascina la compagine dei particolari, delle situazioni non tanto evocate in dissolvenze di maniera quanto portate in superficie da un’osservazione caustica, senza infingimenti, per passaggi oggettivi e coordinate scandite sulla linea di rimandi al serrato integrarsi del vissuto. Ne consegue l’incontro, senza fughe o riscatti esemplari, con la quotidianità, a volte dimessa, marginale, a volte sfumata nelle ansie e nei conflitti più acuti, quasi cronaca, quasi exempla di esperienze tra miele e fiele. Le convergenze ideali, tra ironia e sperimentazione, sono parole volumi strumenti o funzioni di una conoscenza nei limiti del linguaggio, nell’ampiezza dei propositi metrici: le radici aggreganti comunque ben oltre i limiti del dilatarsi o disperdersi dei segni, portano a dare risalto e spessore all’intreccio delle idee del mondo, del variegato formarsi delle cose, nell’evolversi della vita. E se tradizione e innovazione si subliminano nella formula di un equilibrio instabile o di una trasgressione puramente di stimolo, la scarnificazione del fragile diaframma che separa presente e passato, l’artificio poetico e la mistura dell’essere perso tra un farsi dio e cercarsi da dio, segna di un nuovo furore, forse comunque malinconico, la ricerca di una vibrazione alchemica, la capacità noetica dell’imperio poetico: « Il dio che si riconobbe per fiere e per vendemmie | si aggirava già alticcio dopo la prima spremitura. | Legittimo il dubbio che non fosse quello giusto. || Sarà stato per la sindrome del camaleonte | in ossessione di identità, | per quella voglia di trasformismo, | di travestire anche le mani giunte | per nasconderle al freddo. | O per un digiuno disperante di acqua dolce, | impazzito il fiume per il riverbero, | sfatto nel letto per la troppa luce».
Nella prima sezione, dal titolo «Problematicità della certezza» (Obsolescenza del Diario Filosofico), ritorna il dubbio della possibilità delle trasformazioni, l’ansia di dare alternità al soggetto ambulante, tra dati biografici e pura interpretazione metafisica: la poesia individua gli eventi che forniscono, al di là delle strutture convenzionali, il continuo sistema di palpabili combinazioni di riferimento: «La curva della coscienza |: processo circolare perso | in segmento di contingenza». In «Ciglia alte verso i monti della luna» (Punzonature & Autocertificazioni), lo scatto di una ricerca verbovisuale s’accanisce nel richiamo per certi tratti scarnificante della realtà, partendo dalla dissoluzione di ogni illusione, verso puri sondaggi ottici, per allargare lo spazio della propria decifrabilità, del ruolo storico, del paradosso, dell’esperienza celebrata o vessata nei dettami degli equilibri, della convenienza, sino alla violenza contratta del codice simbolico e della caduta verticale d’ogni teoria, d’ogni utopia, nella pluralità dei frutti delle conseguenze: «Nelle solite more | il tempo, sempre, per l’annotazione. | Verte sull’impedenza, sulla grinza, || sul flusso di coscienza | che ancora si aggruma, | sul grumo di coscienza | che non trova il flusso». Le sezioni «Le serpi si atteggiano in nicchie al sole» (Improbabile Sudario) e «Fra gli orti senza un netto di confine» (Erpicanti Erranti) sviluppano in termini di concretezza e di assoluta testimonianza storica le contraddizioni del vivere sociale, con forza e arida capacità di sintesi, con rabbia talvolta ricondotta ad una sottile disamina delle ragioni della miseria e della lotta, senza moralismi semplificanti o canti di maniera. La disciplina del ritmo dona consistenza e compattezza ai sentimenti del cuore, agli elementi del respiro calato nel mare senza fondo del benessere tecnologico: «Pietre sul crinale e il giorno recalcitra; | il rotolare è un suono sordo e inchioda | tonfi alla carne. Sfugge a numeri arabi | la durata delle stelle, e nessuna | firma nel firmamento se ferito | comprimi narici, sganasci e hai sete; | e se un occhio orfano apre al vento il velo | come guadagno unico di giornata». In «La linea o punti di fuocoacqua» (Le Ragionevoli Aspirazioni) e in «Cade il frutto nutrendo le radici» (Dell’Incessante Ciclo), infine, si svela l’impegno generale, la conclusione del lungo viaggio nei vicoli più nascosti della vita, per strade sovente tanto larghe e facili quanto ingannevoli e pericolose, per giungere, oltre lo steccato di un pessimismo di superficie, ad un messaggio di coraggio, di responsabile confronto con l’estremo che ci prende o ci sfugge, per dare un ruolo, nuovo od antico alla poesia, anche nei tempi scomposti dell’oggi: «Ancora non sarà vana stagione | schienare il cono d’ombra della luna, | nel luogo della nostra conoscenza, | su questa terra pratica di scogli; | sperare la scintillante speranza | senz’attesa di un alfabetico ordine | e indulgenze di avverbi clandestini; | o matare la scimmia scimmiottata, | tensione d’interferenza specifica, | rivestimento accidentale d’albero. | Ancora non sarà vana stagione». |
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