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Il libretto,
piccolo e rosso, gratta con felici risultati il barile, e convince e per la
confezione e per l’inquietudine sghignazzante della bella proposta. Divagazioni
in termini di bozzolo, un poco di coscienza poetica ed un poco di buona prosa
alternativa sperimentano tendenze d’artista. Rivus Niger, specola
particolarmente utile di un’arte ben salda dentro anti-nuovo intreccio, offre al
lettore la misura di una storia, purissima memoria, ritorno in libertà al mondo,
momento sacro delle antitesi cresciute nel teatro sfaldato monco delle
contraddizioni lacerate, delle vicende triturate senza pietà impietosa, ferite
aperte al nulla della carne viva. Logorrea, giova invece la parte della crisi,
la sottomissione/ribellione alle griglie strozzate del consumo, della parola che
dilania in rapida impressione i moduli verticali della scansione brutale:
ragioni ed immagini si forzano nel movimento alterno del ritmo disperso tra
riflusso e meditativo andante del tempo.
E così
l’intreccio delle brevi prose del libretto continuano, quasi circolare retorico
moto d’ogni complicità col ventre riposante del presente, lo scavo nel reale, il
giudizio delle frustrazioni che genera la società del garbo e del benessere: il
libretto si fa analisi profonda di una materia sociale, si muove nell’impegno di
una denuncia sistematica delle ambiguità che la follia moderna insinua
nell’uomo.
I
parametri della poesia e della vita si collocano allora nella verità della
parola, nel radicale ormeggio al punto estremo dell’orizzonte, nel travaglio
quotidiano lungo la traccia che stampa l’esasperata felicità
dell’intellettualismo fine secolo e la precisa trama dell’impegno: “... Il vizio
originario è nell’accettazione passiva, dopo il seme. Per questo la gestione
della vita vale poco un progetto. Per questo vestirsi pesante di speranza. Anche
quando fa caldo, e fa male il petto”.
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Recensione |
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