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C’è, nel folgorante libro di Paolo Ruffilli Un’altra
vita (Fazi Editore), un racconto, “Assente il corpo”, interamente scritto in
corsivo, senza che la ragione sia chiarita. Ma la ragione è facilissima da
individuare e va al di là della pura convenzione del reperto epistolare, della
lettera che la protagonista scrive al suo interlocutore. È che il racconto è in
effetti un poemetto in nuce, come il tipo di lettura, di andamento naturalmente
molto ritmato, chiarisce in particolare al conoscitore della poesia dell’autore.
Un niente basterebbe, lungo tutto il corso del racconto, per dargli anche
formalmente l’aspetto che gli appartiene in profondo, tra andamento sincopato e
clausole gnomiche, non di rado coincidenti con una struttura metrica già
compiuta (“non voglio chi mi vuole e voglio invece chi non vuole me”). Senza
dire, altro esempio fra i tanti, della asciutta constatazione finale: “Assente
il corpo” che vale come un messaggio di grande, potente propagazione.
Il libro in prosa di un lirico, dunque? No, al contrario,
il libro di un autentico narratore, ricco anche di valenze liriche ma innanzi
tutto interessato all’indagine dei movimenti più sfaccettati, sottili e
rarefatti, di “quello che diciamo anima”, per usare un verso di Vittorio Sereni.
Ed è l’amore al centro dell’attenzione, più che quello del presente, o
chimerico, o di istanti, o pericolante, quello carico del dolore del ricordo e
della speranzosa aspettativa del domani, in un clima di precarietà pressoché
perenne presentata come la condizione stessa del vivere. Non sempre
drammaticamente però, come si vede nel delizioso “No smoking”, storia di una
pacata lotta a due contro l’assedio delle proibizioni contemporanee e dove,
genialmente, l’invenzione dell’afa sulla città e dell’acquisita indifferenza per
l’evasione nei luoghi “incontaminati” prepara la scelta del buen retiro dove
nulla c’è che non sia intriso del grigio del fumo (“- Anima della mia anima
mescolata con la mia. - Baciarsi con le bocche piene di fumo”).
Ma, perlopiù, la lotta tra i due antagonisti in amore è
dramma, complessità, contraddizione. Lotta anche in se stessi. E quanti sono i
racconti che potrebbero evocare, grazie alla sapientissima, vibrante sensibilità
al paesaggio, gli intrichi dei quadri di Morlotti. Paesaggi cangianti, a
specchio dei conflitti, come in “Sotto la neve”, in cui l’appassionata di
pittura crede di individuare nell’arte del divisionista Signac, attraverso il
mutevole pulviscolo nevoso, il senso dell’eterno movimento della realtà. Ma
dove, anche, la purezza del bianco colato sul mondo ha la virtù di un riscatto
per l’uomo fino ad allora dissipatosi nell’umiliazione e nel vizio. Il tutto
detto, quel che più conta, senza dirlo. Cioè evitando la parola esplicita.
“Tutto è simbolo, tutto è analogia” recita l’epigrafe di Pessoa all’inizio del
libro.
Le situazioni sono varie, anche se la realtà messa in campo
solo raramente e di passata è quella della materialità pratica e quotidiana, e a
dominare è il gioco degli sguardi e dei pensieri, degli agguati a sorpresa
dell’attrazione. Si veda la stupenda conclusione di “Concerto per pianoforte”,
altro racconto ambientato a partire dalla neve e a compimento sulla soglia di
una camera di hotel: “E mentre si chiudevano alle spalle la porta della stanza,
sentivano entrambi che stavano sfuggendo ai doveri quotidiani della vita, per
vivere alla fine la loro vera storia che era rimasta in sospeso per trent’anni”.
Vero passaggio cinematografico, che può ricordare “Les amants” di Malle o
“L’année dernière à Marienbad” di Robbe-Grillet. Più in generale, l’intero libro
ha questa prospettiva, e sembra tutt’altro che assurdo che un regista capace
prenda in considerazione l’idea, stimolato dal taglio nervoso, a brevi
paragrafi, di tutta l’opera.
Si diceva della varietà delle situazioni. Ma anche dei
colpi di scena (e già il finale di “Concerto per pianoforte” lo è). Un esempio è
in “La locanda irlandese”, dove il cambiamento di carte in tavola della beghina
vale come un’altra conferma della insondabilità del cuore. Un altro nel già
citato “No smoking” o in “Il gelo dell’insonnia”. O, irresistibile, in “Dopo
l’orgoglio”, pietoso resoconto di una lenta risalita nella sfera della moralità,
attraverso un uomo finalmente amato, strozzata dallo sberleffo finale.
Difficile, in ogni caso, istituire una graduatoria di
gradimento tra questi venti racconti tutti densi di scoperte della psicologia
dei personaggi attuate per accumulo di notazioni fino allo scioglimento finale.
Potranno, al caso, valere le indicazioni fornite dallo stesso Ruffilli
attraverso le dediche (ogni racconto è dedicato in chiusura) ad autori ormai
classici, per la scoperta, attraverso l’omaggio, di un’atmosfera già familiare.
Ma può essere occasione di ulteriore indagine la constatazione che, in qualche
caso, qualcuno di questi grandi autori invade un altro territorio. Può essere il
caso di “Stazione termale”, dedicato a Čecov, ma dove proprio le righe finali
rimandano anche a “Senilità”; o di “L’inverno dell’amore” dove non è impossibile
ravvisare qualche eco di “I morti” di Joyce dietro la dedica, struggente perché
inaspettata, ad Anna Maria Ortese. Interessantissima poi la presa d’atto, in
“L’odore del sambuco”, della condivisione della fragilità del personaggio
femminile, così ferito dalla vita, da parte di quel Cesare Pavese a cui il
racconto è dedicato.
Questo, e molto altro, attende il lettore del sorprendente
e splendido libro della maturità narrativa di Paolo Ruffilli.
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Recensione |
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