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Dopo Trasparenze, Frammenti di memorie (1997), Le Radici (2000), Parole di ombre (2001), una nuova silloge: Il tempo dell’attesa (2005). Uno sviluppo in progresso a nostro avviso, e per il più maturo impatto esistenziale e per la pregnanza della parola poetica la quale s’avvale prevalentemente dell’endecasillabo, vario nel ritmo e per ciò stesso più armonioso.

Sappiamo bene che non ci si confà il dono della profezia, ma a conclusione della prefazione di Radici, Otma, Milano 2000, ci dicemmo certi che l’esperienza poetica di Bartoletti non poteva considerarsi conclusa, in ragione della scadenze  parallele a quelle del “Vecchio Jonatahan  per il poeta non ancora concluse e per sua  espressa dichiarazione parafrasata dalle parole di Whitman in “Appunti per ricominciare”, che chiosano le semplici verità de Il tempo dell’attesa, Società Editrice “Il Ponte Vecchio, Cesena 2005: “Il più minuto germoglio mostra che la morte non è, e che se mai essa fu, indusse alla vita, e non attese il termine per fermarla, e che cessò l’istante che apparve la vita

Ciò aiuta a non essere d’accordo con quella critica alquanto insistito sulla refrattarietà volontaristica nei confronti dell’esistenza da parte di Bartoletti, poeta nativo e acculturato ad un tempo, per la denuncia della difficoltà dell’esserci, in direzione della crepuscolare solvenza che è dell’italianità matura in cui prima di lui si riconosceva Ungaretti, ma anche, in conseguenza del pensiero debole e delle sue implicanze relativistiche, quando non psicotiche, del movimento decadente europeo e del simbolismo mallarmiano.

Una vasta area citazionistica di sostanza e di stile, quella di Bartoletti, consequenziale in lui in quanto ricercatore e uomo di scuola e all’indole d’appresso a quella pascoliana, non disgiunta da un certo vittimismo che, al contrario del grande romagnolo, prelude a uno sbocco a suo modo pugnace e di per sé positivo. Lungi da noi l’equiparare il senso maturo della perdita come un evento sterile. E’ proprio dalla sottrazione che vien fuori la coscienza eroica dell’essere, dissepolto nella consapevolezza dell’eterno divenire che non riesce a spiegare “l’eterno mistero della vita” che subisce alla fine  l’incontro fatale con la morte.

Il destino di Bartoletti non è quello del vate, ma di chi si interroga, più spesso a ritroso, su concrete certezze, certamente perdute, ma che invitano a resistere in un “tempo | che si frange dentro specchi vuoti”. 

Il tempo dell’attesa coincide con il viaggio a ritroso (A’ rebours) da non comparare alla mancanza di temperie, alla nolenza dell’eroe huysmaniano, al suo timore d’incontrare la banalità e la volgarità tribale, ma alla constatazione dei valori andati, delle terrestrità fatta di piccoli ed evanescenti assaggi, della fragilità dell’attimo, delle labili fantasime di cui è intrisa la vita individuale e collettiva, dello scintillante universo che celebra il funerale dei giorni, mentre beffarda aleggia “indifferenza | l’inutile risposta alla domanda | che ancora ci sostiene”.

Quella di Bartoletti è una guerra giornaliera che include ogni guerra e cruenza. Il suo è un analizzare astrattivo che evita per estremo pudore la scena macabra, vedi l’atrocità del 20 marzo 2003, 1° giorno di guerra, restituita nel filtro d’un flagrante solipsismo. Bartoletti impania la dolorosità universale nello spazio del suo hortus conclusus che agevola la malattia dell’essere conseguente all’esistere uguale, senza mutamento, una certa vittimalità compiacente che si crogiola in se stessa e non chiede pietà.  Il che non significa che il poeta escluda tout court il rimescolamento nella vita degli altri, anche se il dialogo non supera l’unità numerica. La parsimoniosità temperamentale vale e per l’esperienza amorosa (“Restare insieme vale pur qualcosa dirà in Promenade di un amore), e per la morte consumata in prima linea (Da una lettera a un soldato).

La mutevolezza intrigante del prima e del poi che si ripete in un mondo in cui tutto pare uguale, alla fine sperimenta una sua parziale catarsi. In questo viaggio che “s’insabbia tra le dune, si trascina tra rivoli | di ansie, o nel dolore | che muto ci circonda nel colore | della penitenza | e non lascia che profonde crepe”, la gioia subitanea e passeggera di chi dal virtuale Il Battello ebbro rimbaudiano scopre il mondo folgorato dalla luce solare che stempera “le sue pene…nel sole”. 

L’ultimo viaggio, poesia mutuata nella sua integrità da Radici (il titolo primario era Quando morirò) ci conferma che la transizione delle ore e la morte stessa non è poi del tutto distruttiva. Essa –come avemmo modo di sottolineare nel settembre del duemila – “diviene occasione (o miracolo?) di una resurrezione totale, fatta di silenzi parlanti, di “piccole gemme e… bacche di rovi” sbocciati, di canti di rane, di effluvi di salvia, di campi di grano, di baci del vento alla “terra | tra l’erba ove dorme un gatto randagio, di “canti d’uccelli su rami di quercia”, di lucciole e “canti di grilli”, di pioggia, di neve. La rinascita della natura in una fantomatica stagionalità iterata, ma non eternante, è riepilogata nel bimbo, la grande speranza di ogni credibile civiltà, e nella donna, particolarmente fertile quando congiunge le mani” (prefazione a Radici). Una parafrasi allargata del credo whitmaniano in definitiva che riesce a distanziare virtualmente il male del vivere, ma non a risolverlo

Non un narcisistico interrogarsi in un insistito silenzio tra perenne ombrosità e consunzione, quello del Bartoletti, – come si sarebbe tentati a concludere – ma piuttosto un’irruzione dell’io sulle micidiali negatività mondane di cui si ritrova ad assolvere  – quanto coscientemente non sappiamo – il ruolo che fu già del giudaico cireneo.

Recensione
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