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Abitare
poeticamente la terra significa, per Friedrich Hölderlin, letto da Heiddegger,
«essere alla presenza degli Dei ed essere toccati dalla vicinanza dell’essenza
delle cose».
Verbo straordinario toccare: esprime nell’intimo quell’unione
di meraviglioso e familiare accarezzato dall’alta poesia di tutti i tempi:
basti pensare ad alcuni strepitosi, immortali incipit leopardiani, dove
egualmente un aggettivo generico o logorato dal parlato si accosta alla
espressione più alta dell’ineffabile: cara beltà, graziosa luna.
Toccare, abitare, con quel tanto di inaspettato che il poeta,
pur aeternus sa cogliere, riportandoci al centro delle questioni esistenziali
che più ci stanno a cuore.
Ed Emerico Giachery è un puer, come esprime in uno dei suo
vertici di interprete maieutico di poesia nel recente libro dal titolo
suggestivo ed esplicativo, appunto Abitare poeticamente la terra.
Se la vita è al fondo “poetica” nella sua luminosità di
incontri, di occasioni, di errori che immettono dentro una verità per sentieri
imprevisti, Giachery ne coglie la musica, il concerto e il ritmo, di voci
diverse, ognuno con la propria caratteristica, con la propria voce, che si
erge polifonica nell’inno alla vita, alla gioia. Non è dunque un libro per gli
addetti ai lavori, è un volume creativo, un romanzo di formazione, capace,
attraverso le esperienze della poesia, di parlare ad ogni uomo di temi come la
grazia, la bellezza, il dono dell’arte e della amicizia. Pur aspirando ad un
falansterio spirituale, lontano dal cicaleccio e dal rumore di certa modernità
(si legga l’elogio del silenzio e della leopardiana quieta, sempre nel sublime
tratto introduttivo), Abitare poeticamente la terra si fonda sulla descrizione
di una umanità profondamente aperta sia all’uomo colto, in grado di
comprendere tutti i passaggi di una cultura enorme e fermentante, sia all’uomo
semplice, egualmente in attesa di verità quotidiane per cui vale la pena
vivere o aver vissuto: l’uso del termine poesia del titolo rimanda ad un
significato molto più esteso di quello comune, un modo vivere consapevole del
dono ricevuto. E mi piace ricordare, in questo senso, con Giachery, Elio
Fiore, poeta scomparso di recente e su cui è calato il silenzio, troppo
presto. Di lui poeta si può discutere a lungo, ma è indubbia la poeticità
della sua vita esemplare: «ha saputo costruirsi, con una fede davvero
illimitata nella poesia, e con un candore di fondo», indispensabile per chi
voglia abitare poeticamente la terra, intrecciato in lui con una povertà quasi
francescana.
Da questa vita esemplare (con il monito che non tutti i poeti
l’hanno avuta, perché molto spesso l’afflato spirituale che li attraversa
entra in anima fredde, a volte rissose e invidiose), Giachery si muove per un
lungo viaggio, denso e affascinante come un romanzo, il cui motore silenzioso
sono le citazioni dagli universi più disparati, nella suggestiva fratellanza
che si offre come modello di vita, per una società nuova, intesa come invito
«a tener conto della possibile ricchezza di senso simbolico e spirituale di
tanti nostri atti di vita quotidiana».
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Recensione |
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