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Errabondaggio psichico di Danilo Mandolini
La ricerca
poetica dell’osimano Danilo Mandolini (Radici e rami, Edizioni L’obliquo,
Brescia 2007) è un dialogo dapprima con se stesso e poi con l’«altro». Ma chi è
| che cos’è questo altrove [(…) «Vorrei ospitarti nel mio altrove, (…)]
? Sembra sia una figura familiare cara, come il genitore; da qui il pretesto
delle lettere del padre alla madre per intraprendere (o supporre) un tentativo
dialogico, assente spesso in Mandolini nel complesso rapporto genitoriale.
Tuttavia, l’ermetismo comunicativo del Nostro non deve essere valutato come
mancanza o disfacimento del logos, o vuoto, ma pudore, intrinsecità di
sentimenti.
Il poeta non può
far nulla nel mondo mediatico d’oggi, dove tutti giostrano sullo schermo per
desiderio d’apparire. Mandolini, a questa società di fanfaroni e di vanagloria,
oppone «Gli occhi di cenere in un’onda dispersi | sono mani che si muovono nel
buio, | frasi che compongono uno spazio.». Il corpo parla opponendosi
alla lingua dei narcisisti che blatera dagli schermi televisivi (...). L’autore
presenta la parola mano, una presenza viva, direi onnipresente perché
sono le azioni della mano a manifestare il messaggio: e quando la mano è immota,
ecco comparire «il silenzio tutt’intorno». Il ciclo temporale è proposto nella
ripetizione avverbiale, un esempio «(…) di quando era bambino, | di quando sugli
alberi saliva | per rubare le uova degli uccelli, (…)». Ancora «Mi sveglio col
respiro in un frastuono. | Mi sveglio nel vociare nella pace.». E ancora (…)
«…parole randagie che sono dei nomi, | folle a seguire che sono derive| e nulla
che parli del dire che cade.». Proprio con questo «suo» linguaggio Mandolini ci
permette di penetrare la semiotica che fa di lui un poeta originale perché, i
lessemi, ci indicano che non siamo di fronte a riempimenti (o ricitazione) di
spazi narrativi, ma alla costruzione di un linguaggio proprio, indispensabile
per la personificazione di poeta. Lo riscontriamo nel ripetersi dei seguenti vv.
«Ora li sfioro col dito e con gli occhi | quei segni che sanno di noi che
giungiamo, | quei nomi tra i quali c’è anche mio padre | che vive appartato nel
soffio di sé.».
Il poeta appare
a volte rassegnato, la coltre del tempo si piega su di lui per confessare «E’
una pena lunga l’affanno degli anni | quella che solo si sente e nulla ci
spiega,..». Il pessimismo tocca l’apice; leggiamolo ne «Il seme dell’angoscia si
coltiva | tra gli individui come tra le cose». Tutto si compie in un nichilismo
nietzschiano, l’ermetismo d’apertura che sembrava introiezione momentanea
trabocca via via nella disperazione di un non-messaggio. Nei vv. del Commiato
ne abbiamo la certezza nella solitudine sdegnosa, non confortata dalla
speranza. «Stringo stretto e forte tra le braccia | il silenzio che voglio per
me solo.». Al poeta resta, appunto, il «silenzio». Il poeta, apparentemente, si
trova in un solipsismo di un dire-e-non dire. «La fatica del non dire si
racconta | con gli sguardi che si fermano nel vuoto.». Che cosa resta di questo
itinerario se non che «Porto il mio sentire verso il mare, | verso l’attimo che
vuoto si fa sera.» ?
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Recensione |
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