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Camera oscura
Reperto del
dolore
La bella citazione da Roland Barthes che Ruffilli ha posto a epigrafe di
questo libro può indurre (e, per quanto mi riguarda, mi ha fuggevolmente
indotto) a un curioso errore "ottico". Per qualche istante, ho supposto che il
titolo del libro di Ruffilli derivasse, per rovesciamento, da quello del libro
di Barthes da cui la citazione è tratta: Camera oscura, cioè, al posto di La
camera chiara.
Naturalmente, la ragione non ha tardato a correggere l'errore:
non era affatto così: è il titolo di Barthes a ribaltare qualcosa, precisamente
un'espressione corrente, mentre quella di Ruffilli la raddrizza e la reintegra,
quell'espressione, nella norma semantica (anche se, beninteso, non senza un suo
alone di ambiguità, di sensi ulteriori).
Rimane, dunque, la citazione in quanto tale, la portata reale della frase di
Barthes che Ruffilli ha ritagliato e idealmente incorniciata quale monito a se
stesso e ai lettori. E, in essa, salta subito all'occhio la gravità e la
pregnanza di questo avvertimento: "Per voi, non sarebbe altro che una foto
indifferente (…) per voi, in essa, non ci sarebbe nessuna ferita."
Il riferimento è tanto esplicito quanto illuminante, sottilmente illuminante. La
camera oscura è, infatti, la paziente, minuziosa ricostruzione di un romanzo
famigliare a partire dai "segni", dai "dati" (sono parole che trovo nel testo)
costituiti da un insieme - forse uno o più album - di vecchie fotografie. Non
importa, qui, dire di quale romanzo si tratti; già l'espressione "romanzo
famigliare" allude, lo si voglia o no, a un groviglio di pietas e crudeltà,
sprofondamento e distacco, che è comunque, appunto, un intrico, un "intreccio",
a prescindere dai modi, dai nodi materiali della vicenda. Quel che importa, mi
sembra, è invece suggerire quale sia l'ampiezza dello spettro, del campo
espressivo dentro il quale, e attraverso il quale, l'indagine si fa partitura,
la ricostruzione poema; un'indagine che si misura proprio, a mio avviso, dalla
divaricazione fra la "ferita" cui Barthes (e Ruffilli tramite Barthes) si
riferisce per negare l'estensibilità ad altri che al soggetto, alla prima
persona, e la scelta di neutralità, di oggettività, di secchezza che appare, a
prima vista, come la tonalità dominante del testo di Ruffilli. Voglio dire che
la traiettoria del gesto espressivo compreso in queste pagine - e di cui,
simmetricamente, queste pagine sono la dilatazione, il "corpo" - va dal
riconoscimento, dall'accertamento della ferita, qualunque essa sia (e prima
ancora dalla sua ricerca, anzi dalla ricerca del corpo che l'ha inferta), alla
sua cicatrizzazione simbolica, al rito del suo disseccamento nella pratica del
linguaggio.
Ma in una poesia, si sa, il tempo non esiste , o meglio non esiste la "freccia"
del tempo, la sua irreversibilità, cosi come non esiste nei sogni; ed ecco,
allora, che la traiettoria appena descritta può essere vista (anzi, è senz'altro
vista nella realtà della lettura) anche nel senso opposto, cioè secondo la
direzione che porta dalla cicatrizzazione della ferita alla scoperta della
ferita, dalla normalizzazione del dolore al suo avvento. (In ogni testo poetico,
del resto, l'invenzione della croce è al tempo stesso il punto d'arrivo e il
punto di partenza di ogni possibile metafora della passione.)
Un discreto conoscitore della poesia italiana di questo secolo non tarderà a
riconoscere nei versi di Ruffilli la continuità di una nobile tradizione, fatta
di povertà raffinata, di musica contratta, sino al limite estremo
dell'udibilità, che ha il suo riferimento più alto nella poesia di Giorgio
Caproni; e penserà, allora, a certe tangenze anche tematiche fra il romanzo
famigliare presente nella Camera oscura e l'indimenticabile romanzo di Annina
nel Seme del piangere. Ma altrettanto facile, e certo doveroso, sarà avvertire
come Ruffilli operi sulla sua materia verbale e sentimentale con una sorta di
tenacia e impassibilità "scientifica" che non è di Carponi e rispetto alla quale
la fissità propria dell'immagine fotografica costituisce, insieme, un "movente"
e un correlativo formale.
Più di queste divagazioni araldiche, tuttavia, conta l'in sé del lavoro di
Ruffilli, la sua interna e ossessiva coerenza. Credo che Ruffilli abbia molte
ragioni, e certamente tutti i diritti, di rivendicare come centro della sua
ricerca, per citare un suo frammento, "il dato, ma non/memoria o nostalgia". Il
dato, il segno, certamente - resi, nella pronuncia, quasi minerali, come reperti
fossili di un'altra era, l'era antichissima o futura del dolore.
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Recensione |
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