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Prefazione a
Luci da oriente
di Alessio Vailati
i
dati del libro

Silvio Raffo
La nuova silloge di Alessio Vailati, di una misura
dinamicamente equilibrata e di una compostezza esemplare, ricostruisce con
pacata eleganza un itinerario esistenziale che ha la precisione di un mosaico e
la leggerezza di un arabesco. Il lettore appena avveduto ravvisa in questi versi
cristallini la presenza di tematiche fondamentali, quelle che la vera poesia non
trascura mai: domande appassionate a cui non seguono risposte del tutto sicure,
riflessioni della mente e dell’anima vibratili come corde di violino (gli
‘arpeggi’ di Cardarelli filtrati dall’ermetismo più limpido), mòniti premurosi
subito smorzati da una sorridente allusione e caute reticenze.
È un gusto per la
più sottile nervenkunst che pervade questo gentile intarsio di simboli e
metafore. Si ha l’impressione di un viaggio trough the perils of Life: il
percorso non è facile, è accidentato e infido, ma confortato dalla compagnia di
un’anima sorella. A tratti affiora il timore di perdere la bussola («invano
armeggi...», «quale / è la direzione, quale la funzione?») o, che è forse peggio,
di soggiacere alle insidie dell’alienazione e di una banalità che si avverte
imperante («essere alieni / persino al proprio agire... / di essere agiti ormai
dall’ordinario / ripetersi incessante delle cose / senza consapevolezza, senza
onore», nello «stillicidio / in un ritmo blando, l’ipnosi / che annebbia il
pensiero»), si avverte il disperato bisogno di «salvarsi dall’inconsistenza».
Sì, la traiettoria del viaggio è tutt’altro che lineare e rassicurante («Tu e io
siamo in un naufragio»), è preclusa «ogni possibilità di fuga», ma il privilegio
sublime di essere in due ad affrontarlo allevia lo strazio e la fatica. L’àncora
e l’ancòra dell’amore restano e resistono indenni. Insomma, il viaggio è nella
tempesta («Tutto è confuso e fuori è un fortunale») ma è condiviso «in un’unica
sorte», ed entrambi i naufraghi non si stancano di «andare al senso
profondo / delle cose, a snidare nel grave / torpore dei tempi un segnale...»).
Le
cadute sono in agguato, ma le epifanie numinose che a tratti balenano allo
sguardo (mai opaco, mai miope, mai spento) sono preziosi salvifici antidoti. La
bussola si perde e si ritrova. «Si va per via d’inerzia / a colmare in eterno una
mancanza». L’effimero, dolorosamente sentito, e l’eterno, appassionatamente
agognato, si alternano in una frenetica giga, nessun aiuto dal vacuo frastuono
circostante di una insensata glossolalia («da ogni parte si levano le voci / ed è
un tam-tam... / consuete e vane / parole...» «Ci vogliono tutti uguali»), ma
infine, proprio in virtù di una indefettibile fede nell’interieur, sull’obscuritas
prevale la luce: la quarta sezione, che dà il titolo alla raccolta, ne è pervasa
e irrorata come da un balsamo gentile.
Il respiro si fa più ampio e possente,
«le luci… disperdono il buio», «oscilla dal pieno al vuoto / l’espansione del
cosmo». Il tumulto si placa. La luce non è violenta né abbagliante: «basta
poco»: il ‘poco’ (stilema corazziniano) che così spesso costella questo squisito
canzoniere di grazia ancora una volta torna a occhieggiare timidamente («quel
poco di luce da oriente») ma «guardando più lontano» si scorge un «nuovo
chiaro». L’approdo, forse, alla terra promessa, un paese innocente, come l’anima
di questo straordinario poeta.
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Materiale |
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