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Prefazione a
La mia guerra
di Girolamo Buccellato

Alberto Raimondi

Il tempo, si sa, tende a sfumare i ricordi e quello che di Girolamo Buccellato mi è rimasto nella memoria rimanda all’aspetto di un signore serio e distinto, ma anche molto cordiale e affabile, di una simpatia e di una capacità comunicativa assolutamente connaturali, conosciuto a casa mia molti anni fa, in occasione di una sua venuta a Lodi per rivedere mio padre.

Erano molto amici, non solo per avere condiviso nell’ultimo conflitto mondiale responsabilità di comando alla 5° Compagnia-2° Battaglione-130° Reggimento della Divisione Perugia, ma anche per avere affrontato insieme tutte le fasi di una guerra che li aveva visti attori in vari e multiformi scenari: dalla Dalmazia, al Montenegro, all’Albania, fino alla drammatica realtà dei campi di concentramento e di lavori forzati tra le desolate lande polacche e tedesche, duramente sperimentati tra sofferenze e difficoltà di ogni genere prima di veder recuperata la libertà con l’agognato ritorno alla Patria e agli affetti familiari mai dimenticati.

So che mio padre gli aveva restituito la visita nella sua Sicilia, viaggiando tutto solo e vincendo così un’attitudine alla sedentarietà col tempo diventata per lui quasi insuperabile, a dimostrazione di quanto forte fosse il richiamo verso quel rapporto di fraterna amicizia, nata in tempo di guerra, che reciprocamente li legava.

La guerra, appunto. Quel poco che allora ne sapevo l’avevo appreso in minima parte dai libri di storia e da qualche documentario televisivo, mentre le mie conoscenze perlopiù derivavano da alcuni accenni di mio padre alla sua trascorsa esperienza militare: mi ero fatto così un’idea piuttosto vaga dell’occupazione delle nostre truppe sui territori dell’area balcanica, dei cosiddetti “ribelli” che vi si opponevano, delle lunghe veglie di guardia a presidio degli obbiettivi militari da difendere, delle situazioni di pericolo nei rari combattimenti o soprattutto di rischio per le condizioni ambientali divenute sfavorevoli dopo l’armistizio. E poi ricorrevano spesso alcuni nomi mitici, dei quali fino ad allora ignoravo persino l’esistenza sulla carta geografica, che emergevano dai racconti paterni come da una specie di nebbia fantastica: Spalato, Martinovic, Tepeleni, Wietzendorf.

Se poi mia madre a volte, un po’ per celia e un po’ per una sorta di scherzosa provocazione, avanzava qualche dubbio circa le reali sofferenze sostenute da mio padre nel periodo trascorso in Germania dopo la liberazione e prima del suo ritorno a casa, ciò finiva per confondere ancor più la mia comprensione di quel periodo, che neppure una discreta documentazione fotografica al riguardo, già allora per me disponibile, era in grado di illuminare più di tanto.

Nel marzo del 2009, dopo la morte di mia madre (mio padre già ci aveva lasciati improvvisamente nel 1979, per un’emorragia cerebrale), in una delle rare sortite presso la casa dei miei genitori per sistemare alcuni oggetti di famiglia, abbastanza casualmente trovai nella cassetta della posta, da tempo ormai quasi inutilizzata, una lettera di Girolamo Buccellato. La sorpresa di avere tra le mani dopo tanti anni uno scritto di un grande amico di mio padre era per me pari all’emozione che si prova nel risentire una voce cara e nota, capace di ridestare sentimenti vivi, anche se sopiti dal tempo. Dalla lettera scoprii che Buccellato aveva scritto un libro intitolato “La mia guerra” destinato come ricordo per parenti e amici, del quale avrebbe avuto il piacere di inviarmi una copia.

Proprio in quei giorni stavo raccogliendo e riordinando alcuni “ricordi” militari di mio padre, rappresentati da documenti, attestati, lettere, fotografie e altro ancora, verificando tuttavia che la mia ricostruzione dei fatti continuava ad essere piuttosto incerta e lacunosa. Per questo la notizia dell’esistenza di un libro su quel periodo bellico, scritto da una persona in grado di dare notizie certe e di prima mano, mi riempiva di gioia e di aspettativa. Stetti qualche giorno in trepida attesa, fino a che, un sabato mattina, con la posta mi fu recapitato il libro: da quel momento non ho fatto altro che tenermelo vicino per leggere febbrilmente un capitolo dopo l’altro fino ad arrivare, prima di sera, all’ultima pagina! Quello scritto, sempre così puntuale, circostanziato e di una sorprendente lucidità, me l’ero dunque “bevuto” d’un fiato, anche se in seguito mi ripromettevo di riprenderlo con calma e di “centellinarlo”, pagina per pagina, come meritava; ma soprattutto le notizie frammentarie in mio possesso, così disarticolate da rendere difficile la comprensione del quadro complessivo degli eventi, avevano trovato ad una ad una la loro giusta collocazione, come sparsi tasselli che una mano esperta avesse finalmente disposto con ordine, consentendo di ricostruire il mosaico.

Rilessi dunque il libro con più attenzione per verificarne ancor più le caratteristiche di rigorosa coerenza e di verità storica, raccontata da un testimone diretto che, oltre ad essere assai affidabile, aveva anche il dono di saper presentare al lettore la propria vicenda con uno stile semplice, chiaro, scorrevole e molto aderente alla materia trattata.

Durante la rilettura mi ero anche dotato di una matita e di una vecchia carta geografica dell’Europa, dove, man mano che scorrevo le pagine, tracciavo tutti gli spostamenti dei protagonisti di quella singolare “odissea” a partire dall’imbarco a Bari nel 1941, fino al sospirato rientro in Italia nel 1945: una ricognizione per me finalmente attendibile, col valore aggiunto delle numerose fotografie di mio padre che ora potevo collocare in uno spazio e in un tempo precisi e che mi facevano da commento visivo alla narrazione.

Un’infermiera polacca mia conoscente, poi, mi aveva dato anche qualche notizia aggiuntiva circa le località dove erano situati i campi di concentramento polacchi menzionati dall’Autore e su quanto di essi ancora oggi rimane nella memoria collettiva della sua gente.

Insomma, dopo la seconda lettura ero ancor più convinto che si trattasse di un libro davvero molto valido, completo ed istruttivo, che negli auspici doveva essere destinato ad andare oltre la stretta cerchia dei parenti e degli amici, per raggiungere gli scaffali di tante biblioteche pubbliche e private e per diventare a pieno titolo oggetto di documentazione e di studio anche per tanti giovani che forse non sempre conoscono bene le vicende che vi sono trattate.

Ma, in fondo, cos’è che rende tanto speciale questo resoconto bellico, così ben strutturato e di agevole lettura, “opera prima” di un ultranovantenne, composta durante un inverno trascorso in solitudine?

Si sa che la lettura di un libro di guerra ci rimanda quasi inevitabilmente al ricordo di testi di autori classici studiati sui banchi di scuola, Cesare e Senofonte in primis: qui però il lettore non troverà, se non marginalmente, le audaci strategie o il fragore delle battaglie tipici dei testi cesariani; vi troverà piuttosto la generosa dedizione, l’impegno quotidiano, la solidarietà cameratesca, il tenace sacrificio, l’amicizia autentica, o, in una parola, quella tanto naturale umanità che riesce a sopravvivere anche in quella drammatica “anabasi” attraverso un’ Europa ferita e dilaniata. Per rendercene conto basterebbe leggere quel piccolo capolavoro che è il breve discorso (“l’orazion picciola”) tenuto dall’Autore ai suoi soldati a Tepeleni (Albania), dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943: “Miei cari soldati, avete tutte le ragioni per esultare alla notizia che la guerra è finita.

Pensiamo però quanti sacrifici, quanto sangue, quante sofferenze ci sono costati. Pensiamo alla nostra Patria e, in particolare, ai morti e ai tanti feriti. Guardate laggiù (indicai una vallata), proprio laggiù sono morti tanti nostri fratelli” Qui ognuno può vedere che non c’è ombra di retorica, ma solo una commossa, solidale, umanissima pietà, che è un po’ il tratto distintivo di tutto il libro.

Quel senso del dovere e di umana solidarietà sopra ricordati, sono ravvisabili anche nella non comune esperienza dell’Autore quale insegnante di lingua e cultura italiana presso le classi ginnasiali delle Scuole di Cettigne, oltre che quale collaboratore per rubriche “italiane” presso la locale stazione radio-emittente montenegrina (vedi cap. “Io docente”). I particolari della singolare missione, svolta con l’impegno e la competenza abituali, sono affidati a stralci di lettere inviate alla futura moglie Aida e risultano documenti di notevole importanza per dare un’idea concreta, dedotta dalla viva realtà, delle preoccupazioni pedagogiche, divulgative e propagandistiche che ancora animavano un regime alla ricerca di quel consenso e benevolenza che sembravano peraltro una così naturale prerogativa del modo di agire del “signor tinenti Puccellati”.

Due parole, infine, sullo stile. Se il massimo scopo, come dichiarato, è la verità storica, lo stile non può essere che asciutto, aderente alla realtà, privo o quasi, di enfasi o di artifici retorici. L’ambiente naturale, il sole, il cielo ne determinano qua e là l’”umore”. Così si passa dalla solarità mediterranea del periodo trascorso tra Guidaloca e Salemi, quasi tutto pervaso da una sorta d’inconsapevole ebbrezza, via via fino alla dura realtà dei campi di concentramento, dove il cielo è sempre coperto, simile ad una cappa di piombo, cupo come la disperazione. Nel cuore, anche nei momenti di maggiore pericolo, resiste l’immagine del paese natio, quasi fosse un’incancellabile sinopia: “Il fortino era situato su un’altura che dominava la cittadina. Per dare un’idea della sua dislocazione, è come se questo si trovasse al Belvedere che si trova sulla strada che va a Trapani e che domina tutta Castellammare, i Cerri e il mare e Tepeleni fosse giù al posto di Castellammare...”

Un libro dunque , questo La mia guerra di Girolamo Buccellato, concepito da tempo, meditato a lungo e scritto di getto, senza troppi pentimenti o ripensamenti, come spesso accade alle opere ben riuscite.

Un libro che degnamente riassume una vita.

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