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Tra ponte e selciato. Ventisei temi per mia madre
Di questi “ventisei temi” che
Marina Agostinacchio raggruppa in una sorta di poema del ricordo[1],
va detto sùbito che trovano uno specchio eccellente, meglio che una normale
‘illustrazione’, nelle interpretazioni cromatiche di Paola Munari, che al di là
di ogni doveroso elogio meriterebbero di esser valutati nella loro specifica
eleganza. Una eleganza che d’altronde caratterizza da sempre quanto esce dai
torchi del Centro della Grafica Internazionale di Venezia, editore di questo
libro.
Un libro che
ci giunge come il naturale completamento di un itinerario approdato nel 2002 ad
Elegia, un poemetto apparso sulla rivista di Nicola Crocetti, “Poesia”.
Personaggio, in quel caso, il padre, come oggi lo è la madre di Marina. Si nota
quindi il primato della dimensione verticale su quella orizzontale, e lo
ribadisce la dedica «ai nostri figli». Fratelli e sorelle, cugini e cognati,
semmai, aspetteranno. Qui è in causa il rapporto di dipendenza-discendenza, il
tragitto dalla radice al fiore, dal ceppo alla foglia. Nel frattempo – dal
2002 a oggi –, la lirica di Marina si è scaltrita e si è fatta più ambiziosa
annoverando fra i suoi incontri suggestivi la quartina, il fascino della
quartina seriale. Tenersi in equilibrio sopra uno schema siffatto non è né
semplice né facile; ma valeva la pena di cimentarvisi. Quartine inevitabilmente
di endecasillabi; strofe che non di rado registra una ‘sofferenza’ del verso; ma
dov’esso ‘raschia’ – e rischiare – la compensazione la porge il respiro
impetuoso del sentimento, e nella fattispecie vorrei chiamare “sentimento”,
sentimento spiegato, la memoria stessa che nutre e disseta dal primo all’ultimo
i ventisei “temi”. E poi, a regolare il traffico, intervengono le rime, le
assonanze, le consonanze che fin dalla pagina di apertura intrecciano un
discorso non riducibile al patema dell’orfanezza (assonanza «volto: corto)»;
paraconsonanza «milione: fontana»; rima «milione: prigione»; allitterazione
«sasso: sussulterà»; e ancora: «soli» a suscitare nel foglio seguente «fiori»,
«inflorescenza: essenze», «fontana: morgana»…). L’ingenuità, se mai aveva
battuto alla porta, ne è stata lasciata fuori.
È così
abbondante la cornucopia dei ricordi, e talmente impossibile rinunciare a
estrarne quel che strugge e insieme consola, che più di una volta essa finisce
per mantenere discretamente ‘opaco’ l’episodio che evoca e al cui centro è
statutariamente la figura della madre. Ed è inevitabile, forse, questa riserva
di ‘oscurità’, se si ripensa a quel che osservava di sé Montale, nel 1946; di sé
e della eccessiva sua compromissione e confidenza nella propria materia, al
punto da non accorgersi che al lettore mancavano sulla pagina informazioni più
precise e utili sull’ ‘aneddoto’ biografico- da cui era nata questa o quella
poesia. Ci resta comunque, nel libro di Marina, viva e chiara la cornice della
storia, con una mamma ancor giovane logorata via via e infine stroncata da quel
male che per antonomasia chiamiamo “incurabile”; a scriver di lei è una figlia
che ha traversato, ma anche sconfitto – la medicina fa grandi progressi – ,
quel medesimo male che dopo la madre le aveva tolto, di lì a qualche anno, anche
il padre.
I ventisei
temi costituiscono una corona fitta di grani, densi ciascuno di un avvenimento
che, quanto più si allontana da noi nel tempo esteriore, oggettivo, tanto più si
accende nei colori della passione. Toccante allora la ripresa del «Sono andati?
Fingevo di dormire…» dell’ultimo atto della Bohème, melodia e parole che
la madre prediligeva e che penosamente si adattano al finale dell’esistenza di
lei. Questo breve canzoniere, da cui è assente (e perché mai avrebbe dovuto
esservi?) qualsiasi traccia di rimorso, partiva enunciando un proposito, un
desiderio: «Poterla [lei, la madre] liberare di prigione». Percorse le ventisei
stazioni del ricordo, e proprio in virtù della forza del ricordo, Marina può
congedarsi scrivendo (a sua madre) «Ti ho liberata». Una battuta concisa, nella
quale non leggo nessun orgoglio ma soltanto la consapevolezza di aver saldato, o
cominciato a saldare, un debito.
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Recensione |
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