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Le cose del mondo

La poesia vive accanto al poeta, respira con lui, lo accompagna in ogni esperienza, conoscenza, accadimento della vita. Una presenza costante, quasi una parte di sé, a cui si può rivolgere per trovare forza e significati. Una sorta di compagna di viaggio che aiuta a decodificare la realtà, una possibile risposta ai tanti interrogativi che affollano la mente. Scrivere poesia comporta una sensibilità particolare, un terzo occhio che osserva il mondo esterno, strettamente collegato al mondo interno, attraverso una continua ricerca e una permanente riflessione su quanto accade. Paolo Ruffilli è da sempre intensamente consapevole della forza della poesia come arma di vita, tanto che il suo progetto poetico, che ha poi prodotto questa suggestiva opera “Le cose del mondo”, nasce molti anni fa: un cammino di parole che si dipanano nell’arco di oltre quarant’ anni. Parole che si sono stratificate, unite una accanto all’altra e lo hanno accompagnato nel suo desiderio e necessità di “… perlustrare il concreto mondo”, parole tenute strette, seguite passo dopo passo, lasciate crescere nel tempo, per poi offrirle oggi in tutta la loro maturità e completezza. Un percorso durato a lungo, certamente non concluso, forse in attesa fremente di continuare con una prospettiva ancora più vasta.

L’inizio è il viaggio perché “E’ il movimento a darci in dote la speranza / mettendo in relazione noi stessi con le cose…” ed è un viaggio esistenziale, onirico, ma anche reale. Un treno ci porta lontano, attraversa città, paesi, campagne, paesaggi marini e boschivi e dal finestrino possiamo cogliere flash di vita quotidiana “…il letto sfatto, un bagno e la cucina. / il gatto e un vaso, al pavimento. / (….) Ombre tra le ombre che fuggono di scena, / col treno che riprende il movimento.” È un viaggio solitario, una corsa all’inseguimento di sé stessi con lo sconforto di comprendere che spesso ci perderemo e certamente non riusciremo mai ad afferrare l’esistenza: “Scoprendo che la vita ci precede / nel mentre stesso che rimane indietro.” E forse questo viaggio, intrapreso con un “incerto andare”, prosegue “fino al suo finire” con la sensazione che “non dovrà arrivare da nessuna parte.”

Il viaggio continua e vengono incontro esperienze e nuove sfide, come quella difficilissima di essere padre. La sezione dedicata alla figlia è intensa e intrisa di tutta la complessità e lo smarrimento che si prova in una situazione che ci cambia la vita. Si svela un’autobiografia che non vuole celarsi e scopre la fragilità del faticoso percorso di genitore: “Come eroe, lo sai, mi sono / defilato: non ho la faccia per sostenere il ruolo, timido e / impacciato, incerto di ogni verità.” Il poeta non teme di esporsi e rivelare la sua emozione che ben si avverte nella bellissima poesia “Salvezza”, dove raccoglie amore, forza e determinazione per offrire alla figlia parole che si stampano sull’anima: “Non avere fretta, sii paziente, aspetta / e, proprio quando non ti importa / più di niente, lascia che ti attraversi / l’aria della vita. Quando ti sarai / riempita, ecco che ti sostiene: / si gonfiano le vele e ti rifà volare. E, più sei stata disperata, più ti riprende. / Tu non lo sai, ma ti sei già salvata.”

La notte bianca è una notte senza sonno, è quella degli antichi cavalieri medioevali che trascorrevano la notte vestiti di bianco in attesa dell’investitura, è la notte delle preghiere, la notte delle riflessioni che vagano ribelli tra il sonno e la veglia. Ruffilli non poteva trovare nome più significativo per il capitolo che raccoglie oggetti di pensiero sparsi e dove spazia in considerazioni sulla vita, il suo senso, la sua fine. Riprende e rivisita una precedente poesia “La gioia e il lutto” facendone un canto alla vita poiché la gioia e la felicità, che “si confonde/ con la dissolvenza stessa…” trovano spazio e pace anche dentro il lutto: “L’orma appassita eppure, / nel contempo, rifiorita di ogni cosa. / L’ombra e l’odore, / neppure più il colore, / il pensiero pensato della rosa.” E termina con una considerazione sul suo cammino, affermando non senza stupore: “Io partito debole e incerto sui bersagli / senza vera meta e senza una ragione, / capace invece contro la mia attesa / di trarre energia dal vuoto e dal dolore / (…) diventato con sorpresa (strana, mi dico, / la mia sorte) via via più forte per la vita / avanzando e avvicinandomi alla morte.”

Colui che è in viaggio è certo che si imbatterà sempre in qualcosa durante il tragitto, ma soprattutto, anche se a volte è inconsapevole, è sempre attorniato da cose di ogni tipo. Gli oggetti che ci circondano e fanno da palcoscenico alla nostra rappresentazione, non sempre destano attenzione, li guardiamo distratti, come se la loro presenza non interferisse in nessun modo con noi. Li tocchiamo, li guardiamo, li usiamo, ma poco li pensiamo. Questa parte del libro, che prende il nome dal titolo dell’opera, è dedicata a descrizioni anche minuziose di oggetti di uso comune. Qui i versi, di contenuto apparentemente considerabile poco “poetico”, raggiungono momenti lirici che lasciano spiazzati e confusi per la magistrale abilità con cui si manifestano. Le cose si usurano, probabilmente ci sopravvivranno. Cose su cui ogni giorno posiamo sguardi distratti, cose che ci stanno accanto mute, ma concrete nella loro forma, colore, consistenza, come la matita che ci passiamo sbadatamente tra le dita: “Il piccolo cilindro smozzicato, pendolo / appuntito calato nel pozzo della sera.” o il bicchiere che noncuranti teniamo in mano: “Fragile, freddo, cupo, colmo, trasparente: / fonte di pace e di ristoro, schermo e / diga al niente, tramite fermo intanto / al liquido scorrere del mondo.” Questa descrizione attenta delle “cose del mondo” sembra quasi una minuziosa ricerca di sé, un’ossessione che si srotola lungo tutta la vita e che, portata davanti a uno specchio, trova: “L’immagine diversa dall’immaginato. / E, nel gioco tra differenza e identità, / svelata il poco di verità, nella scoperta / che il mondo noto non è l’unica realtà.” Ci osserviamo, a volte, sorpresi allo specchio, cerchiamo di riconoscerci e guardiamo attenti il nostro corpo, perché siamo corpo e così sicuramente appariamo. L’anima si sa è nascosta, indefinita, come i pensieri, ma il corpo è concreto: lo vediamo, lo sentiamo, lo tocchiamo, lo annusiamo. Siamo soliti a considerarlo nella sua interezza, così ci pensiamo. Invece Ruffilli, quasi come una magia, afferra il corpo e, con un passaggio veloce e rapido, lo spezzetta, lo seziona e ne fa una mappatura in versi, appunto un “Atlante anatomico”. Il lettore spaesato si cerca tra i versi, quasi a volersi ricomporre, ma poi si lascia affascinare dalla follia dei pezzi staccati che si raccontano, rigorosamente in ordine alfabetico: ascelle, bocca, capelli, caviglia, cervello, collo, cosce, cuore, denti, ginocchia, gomito, labbra, lingua, mani, naso, occhi, ombelico, orecchi, pelle, pene, piedi, schiena, sedere, seno, spalle, testicoli, ventre, vulva. Tra le righe si coglie bene la dimensione erotica delle descrizioni, l’eterno desiderio di una sfida a duello tra maschile e femminile, perché, si sa, parlare di corpo significa parlare di carne, e quindi di eros: “…e con il nome nel suo stesso pronunciarlo / che il desiderio riesce a concretarsi / spinto con foga sulla pelle a invaderne / e permearne ogni rilievo e anfratto / con le parole che aprono la carne / amplificando la vista e il gusto / l’udito, l’odorato, il tatto.”

Alla fine la vera protagonista è la parola, “lingua di fuoco” che “rompe il silenzio”, a cui è dedicata l’ultima parte del testo, dove il poeta quasi corre sulle tracce di Rudolf Steiner che affermava: “Nel linguaggio non giace solo la parola. Nella parola sta tutto l'uomo come corpo, anima e spirito. La parola è solo un sintomo dell'uomo più ampio." La parola vibra nella bocca e fa vibrare tutto il corpo, completamente coinvolto nel mistero del linguaggio, che affonda le sue radici nella notte dei tempi: “Ha filamenti lunghi la parola, / radiche chiare e barbe nere /che pescano nell’utero del tempo / tra le melme di quel limo viscerale / che ha dato soffio e corpo musicale alle cose ancora sconosciute…” Perché la parola è la musica della vita che ci penetra, arriva in profondità del nostro essere e con una potenza immane evoca le cose del mondo, rappresenta sentimenti ed emozioni per consegnarci significati e appartenenza.

Recensione
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