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Dante Alighieri e l'essilio che m'é dato

Con l’auspicio che le sue pagine “possano essere di qualche ausilio alla conoscenza di Dante, al suo messaggio universale, in ogni tempo, di grande attualità”, Antonietta Benagiano, scrittrice a tutto tondo, narratrice, poetessa e sagace interprete ci offre un’ennesima perla esegetica con il saggio: “Dante Alighieri l’essilio che m’è dato”. Per l’autrice l’esperienza devastante dell’esilio nel poeta, privato della libertà, vittima di un’ingiustizia, è testimonianza di eroismo etico-morale: eroismo, che non è solo quello degli Spartani alle Termopili, eroe non è solo chi sacrifica la vita per un ideale, eroe è anche chi vive nel dolore per un ideale. Dante sopporta l’ingiusto esilio fino alla fine, fedele ai suoi valori irrinunciabili: rettitudine ed onestà. Di fronte ad una sentenza, frutto di collusione politica, che lo condanna a star lontano da Firenze, tetragono nel suo dolore, Dante non cede ad accomodamenti, patteggiamenti, o finti pentimenti per colpe inesistenti.

Il verso: “l'essilio che m'è dato onor mi tegno” nella canzone “Tre donne al cor mi son venute”, dedicata alla Giustizia, è significativo dello stato d’animo dell’exul immeritus: dolore e amarezza. La Benagiano puntualmente ricostruisce dall’inizio l’esilio di Dante, dal viaggio di ritorno a Firenze, dall’ambasceria dell’ottobre 1301, presso Bonifacio VIII per convincerlo a desistere dalle mire sulla città.

Ingenuità di una coscienza integra, considerando sia la personalità del Pontefice, sia la profonda scissione tra Bianchi e Neri, al punto che un vicolo a Firenze separava i palazzi dei Cerchi e dei Donati, capi delle opposte fazioni. Informato della condanna a suo carico, consapevole dell’inganno, Dante non ritorna al suo “ovile”.

I Neri, già il 1 novembre 1301, in trattativa con il finto paciere papale Carlo di Valois, hanno ceduto la Signoria e la Guardia della città, nonostante le perplessità dei Bianchi, ancora al potere. Dante non si presenta in tribunale entro i tre giorni stabiliti per il pagamento di cinquemila fiorini e viene condannato in contumacia con la confisca dei beni e l’interdizione dai pubblici uffici, condannato al rogo “igne comburatur sic quod moriatur”. All’accusa infamante e infondata di baratteria è aggiunta quella di avere, durante la sua carica di Priore, favorito la parte “bianca” dei guelfi, a danno dei “Neri”. La condanna ingiusta provoca nel poeta un profondo dolore, ma, sottolinea la Benagiano, produce “il più grande poema dell’Umanità”. E nei canti ventunesimo, ventiduesimo e in più parte del canto ventitreesimo, il poeta giunto con Virgilio alla quinta bolgia dell’ottavo cerchio, “la bolgia a sé stanti”, titola Antonietta, riversa tutta la sofferenza per il suo dramma. Il nero simbolo di dolore, di negatività di pesantezza, di oscurità è dominante.

Nera è la pece che ribolle, neri i dannati in essi immersi, neri i diavoli e le loro ali.

“Nella bolgia dei barattieri, maestri nell’arte dell’inganno, rispetto ad essi gli stessi diavoli valgono meno”, scrive la Benagiano che definisce la cupa scenografia “da Premio Oscar”, “un unicum all’interno del Poema”.

Protagonista la pece nera e vischiosa, simbolo della baratteria ovvero del massimo del degrado.

Dante, ingiustamente accusato di baratteria, la considera infima negatività, superiore all’astuzia dei diavoli. Egli, poeta altissimo, universalizza il suo stato d’animo, il suo sentire. Supera il suo tempo, per divenire attuale in ogni tempo: così per i barattieri, i concussori del nostro tempo, così per la Giustizia, che continua ad infliggere condanne agli innocenti.

Quando nel maggio 1315, dopo circa tre lustri, viene proposto a Dante di tornare, dietro pagamento di una somma e un periodo di penitenza, prima che il podestà gli revochi l’esilio, il poeta rifiuta, umiliato da un rientro, che annulla la giustizia. È nell’epistola XII all’amico fiorentino che Dante sdegnosamente rifiuta il ritorno: “non est haec via redeundi ad patriam”. Irato e sorpreso che, oltre alla manifesta innocenza non si tenga in conto “sudor et labor continuatus in studio”. Non solo, nell’epistola affiora anche la sintonia con Seneca, a lui vicino non solo per le sentenze di natura morale, diffuse nel Medio Evo, anche per la comune esperienza dell’esilio. Egli abbraccia l’universalismo di Seneca, al di là del piccolo angolo della terra di nascita, sulla base del pensiero di Pacuvio e di Cicerone: “Patria est ubicumque est bene” (può essere considerata patria ovunque si stia bene). La concezione della Terra come patria si allarga ad ogni essere vivente. Acutamente la Benagiano evidenzia come la nostra contemporaneità vada oltre “con la cittadinanza come mondialità, riallacciandosi ad Edgar Morin, allo scritto “Terra patria” (prima ed. 1994) di Anne Brigitte Kern, a “L’uomo planetario” (1989) di Balducci. Pensatori, che esprimono la necessità di essere cittadini del mondo, inglobando culture, società, tradizioni, nella consapevolezza della crisi della globalizzazione.

In Dante la condivisione dell’universalismo di Seneca non lo esime, alla luce dell’ingiustizia subita, dallo stigmatizzare il decadimento morale e politico della società, la necessità della giustizia ed è proprio il viaggio ultra-terreno nel “sacrato poema” a segnare la distanza tra il filosofo, tutto volto al terreno, alla ratio e alla consolazione della filosofia e il poeta cristiano, che tende all’Assoluto. Non a caso Roberto Pasanisi titola la prefazione “L’attimo che scorre nell’eterno”, valore aggiunto ad un testo esemplare, che conferma la concessione esistenziale ed estetica di Antonietta Benagiano, la profonda cultura di un’impareggiabile interprete della crisi e del malessere del mondo tecnologico e globalizzato.

Recensione
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