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Lo scrittore padovano Nicola Artuso ci riserva una nuova sorpresa. Dopo
Il passo perfetto cronaca romanzata del suo pellegrinaggio sul cammino di
Santiago di Compostela, dopo le mostre di oggetti in legno tanto improbabili
quanto poetici e concettuali (la sedia che prega, il tavolo che cammina…) tesi
alla ricerca del bello attraverso forme e significati diversi da quelli usuali,
ora pubblica un nuovo romanzo. Che già dal titolo pone degli interrogativi, del
resto, la sua ricerca d’artista si basa sugli enigmi e sulla mancanza di
certezze, quella che i buddisti chiamano l’impermanenza.
Il nuovo romanzo s’intitola
Madhar, scritto proprio nel modo in cui un veneto pronuncerebbe la parola Mother
–
madre – in inglese, ma dentro si trova anche la parola Mad – matto. Insomma già
nel titolo si riscontrano gli accenni a cripticità, a segreti da scoprire, come
quelli racchiusi nei testi delle canzoni del Pink Floyd che hanno intrigato
generazioni di giovani. Siamo alla fine degli anni Settanta – primi anni
Ottanta, i protagonisti sono tre ragazzi padovani che vivono nel quartiere in
cui sorge l’Ospedale psichiatrico e si esaltano con la musica e le sostanze
chimiche: fanno le stesse esperienze psichedeliche, frequentano la stessa
scuola, gli stessi ambienti e le stesse persone, ma la loro psiche recepisce
situazioni e fenomeni in modo completamente diverso, avviandosi verso il disagio
e la malattia mentale. Dopo lo scioglimento del gruppo dei Pink e la perdita
degli idoli impersonati da Syd Barrett e Roger Waters, Savio sarà sempre più
soggetto a depressioni e disturbi bipolari, passerà da momenti di euforia e
lucidità ad altri di pessimismo nero, finché non verrà etichettato come malato
mentale e non verrà ospitato in una struttura pubblica. Anche Lauro darà segni
di squilibrio, userà le preghiere e la superstizione religiosa come anestetico
per le sue delusioni. Mentre Davide, l’io narrante, capisce che l’interesse per
le droghe lo bloccherebbe per sempre e decide di smetterla con le canne e con
gli acidi. Resta a osservare la realtà, accompagna l’evoluzione della malattia
dei suoi amici e intanto rielabora il passato, lo ricolloca nella memoria, per
uscire dalla sfiga e dai deliri di una generazione di sbandati. In tal modo si
salverà la vita e al contempo allevierà le sofferenze altrui, prendendosi cura
dei suoi amici. Fino ai giorni nostri, in un percorso di ricerca spirituale e
psicologica spesso veicolato da aneddoti divertenti, resi da un linguaggio
colorito, pieno di intercalari veneti e dialoghi tipici che scimmiottano gli
slang necessari per essere accettati dentro a un certo giro di adepti.
Poiché parla di esperienze che ha fatto, di cose che ha vissuto, Nicola Artuso
definisce come Faction, non come Fiction le storie che racconta. Il suo è il
romanzo di una generazione che ha visto tanti giovani sballati, di un’epoca
new-age imbevuta di miti, di simboli e credulonerie, di eccessi di ego e di fede
nel caso, di esaltazioni e leggende metropolitane. All’epoca della legge
Basaglia, con i matti dentro e fuori dai manicomi, quando l’uso dell’eroina e
delle droghe ha contribuito a trasformare in tossici dei potenziali malati
mentali. Ma è anche un romanzo che dà delle speranze, mostra come l’attaccamento
al luogo in cui si è nati, l’amicizia, l’amore e la compassione possono portare
se non alla guarigione quantomeno alla sopportazione dei giorni della vita, per
vivere a lungo, come Nea, uno dei personaggi più riusciti del romanzo, la nonna
centenaria che distribuisce a chi la visita numeri del lotto fortunati e perle
di saggezza utili per conseguire ricchezze.
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Recensione |
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