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Femminili impronte
Scrivere d’amore non è facile. Bisogna avere la mente sgombra dai luoghi comuni
che il genere abusato ha disseminato nei meandri della nostra memoria:
“Il verbo amare / è il più coniugato, / ma nei tempi e nei modi / è il più
bistrattato” si legge, appunto, in una poesia di
Femminili
impronte
(Biblioteca dei Leoni) di Fabio Barbon.
Occorre
disporre di quel passo sciolto che permette alla scrittura di scombinare il
senso comune e i significati correnti della “lingua del cuore”.
Proprio ciò che
consente a Barbon di comporre un suo percorso inedito dell’amore. Amore che non
cessa di essere angelico mentre diventa cannibalesco, dal chiuso delle stanze
alla luce del cielo, immerso nel “respiro del mondo” come si legge nel verso di
una poesia. È un percorso insieme nobile, di ampio orizzonte e di elevata
intonazione, e nello stesso tempo giustamente un percorso terreno: il soffio
aereo dell’impulso al bene e il peso della realtà materiale e carnale (il
“paesaggio corporeo”, come lo chiama l’autore). “In questo mio
muovermi nel mondo, innumerevoli impronte temporali hanno accompagnato il mio
sentire la donna nell’arco della vita vivendola nei suoi ruoli sociali: nonna,
madre, moglie, figlia” scrive l’autore nella premessa.
Insomma, è l’esperienza di una vita e di un cammino di ricerca e di
approfondimento nel dentro che più dentro non si può, dietro a una penna che
scava l’interiorità e al passo coinvolgente di un’azione che procede per quadri,
come un polittico le cui formelle nel raccontare ogni singolo episodio
compongono intanto, rivelandolo con sorpresa, l’insieme della storia umana e
sentimentale del suo autore. In queste poesie ogni stimolo esterno si fa
sentimento (“sulla soglia della notte / i
miei pensieri si fanno più deboli, / si spogliano dei vestiti del giorno / e
sentono la tua intimità” dice l’autore)
e quel
sentimento guida la poesia che, con intensa emotività, intreccia l’amore ai
problemi esistenziali proiettando tutto nel mondo esterno, dove però i
sentimenti si fanno intimi e sacri come in un santuario privato, nel quale
l’amore si compie in un rito di rigenerazione:
“Mi apro a te
/ come ventaglio di desideri / che le tue mani / fanno danzare nell’aria. / Mi
sento carezza nel buio, / intimità di gesti, / srotolati, distesi dalle tue dita
/ come profumate lenzuola”.
A dominare è l’immaginazione piena di metafore e di simboli, di colori e di
armonie. Con uno stile personale e un linguaggio vivido di grande libertà
espressiva, privo di inibizioni e di intellettualismo, Barbon riesce a praticare
una sua “grammatica del cuore” senza remore e senza reticenze, nutrita di
esperienza più che di saggezza come deve essere appunto nell’amore. Con una
bravura che definirei istintiva (si veda il passaggio che recita:
“L’amore non mi prende / per il suo verso, / è quasi sempre / capoverso o
controverso, / ed il mio cuore è riverso / nel ricordo avverso...”),
Fabio Barbon riesce a muoversi in mezzo ai trabocchetti dell’eterna vicenda
amorosa, riconsegnandone al lettore un attraversamento “altro”, perfino
sorprendente e, in ogni caso, inaspettato. Gli riesce in ogni pagina, nel giro
breve di qualche verso, di qualche strofa, nella forma della poesia che tutto
evoca e tutto disperde:
“Se amo-re / amo la cosa in sé / o l’atto d’amore fa re. / Questa parola da sola
/ ora mi consola / ma nel ritaglio di foglio / son io spoglio”. E,
così facendo, riesce intanto a rivelare per intermittenza il percorso
accidentato che gioie e desideri, salvezza e perdizione, disegnano nella grande
avventura dell’amore, dentro a quell’altra grande avventura che è la vita.
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Recensione |
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