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[...] Di tutte le cose che soddisfano i suoi bisogni,
l’uomo attribuisce il maggior valore
a quelle che meno gli sono indispensabili. [...]

Se è vero che l’arte, come scrisse Vasilij Kandinskij in Dove va l’arte nuova (1911), è sempre figlia del suo tempo e madre dei nostri sentimenti, l’ultimo romanzo di Giancarlo Micheli, La grazia sufficiente, è vivo sembiante della sua e nostra sensibilità.

L’associazione arte-opera letteraria si è presentata in tutta la sua immediatezza e spontaneità durante la lettura del testo, stilisticamente caratterizzato da un naturalismo e da un astrattismo lirico non lontani da quello del già citato Vasilij Kandinskij, il cui simbolismo romantico riecheggia in tutto il libro, peraltro non immune da una certa qual vena surrealista.

La potenza evocativa di un linguaggio colto ed essenziale, dà luogo ad ambientazioni e personaggi dai cromatismi puri al limite del sovrasensibile, che affiorano da una dimensione spazio-temporale immaginifica, realizzandosi sul piano visivo come delle vere e proprie sequenze cinematografiche, delle cui tecniche il Micheli mostra di essere profondo conoscitore. Cito, per tutte, i flash back di una delle scene iniziali del prologo, nella quale il capitano olandese Baruch Dekker, uno dei due personaggi principali – l’altro è il giapponese Taisho –, fa naufragio, con il suo galeone, il Tweede Liefde, di fronte al Golfo di Nagasaki, luogo in cui è ambientato il romanzo.

Le vicende narrate si dipanano sul piano della contemporaneità di due serie di eventi, seguendo un processo metastorico in cui l’oida individuale si integra con quella universale, secondo i canoni dell’epos tragico e del mythos. Le vicende dei due personaggi principali si riflettono, accomunate dall’ambientazione geografica, ma a distanza di tre secoli le une dalle altre. L’usciere di seconda classe  Taisho vive infatti in tarda epoca moderna (prima metà dello scorso secolo), mentre l’esistenza del capitano Baruch Dekker si svolge durante la prima metà del XVII sec. Due “Odissee” parallele, che culminano nella catarsi, attraverso le derive della vita, il cui simbolo è proprio il naufragio, che porta Baruch Dekker ad approdare sulle coste del Giappone, all’inizio di una nuova avventura alla ricerca della felicità, e conduce Taisho ad una vera e propria rinascita simbolica alla vita dopo che, tornato dal fronte cinese, privato di ogni affetto e alieno da ogni senso di appartenenza, perdutosi così nel mare dell’esistenza, tenterà di annegarsi nelle acque del porto.

Il “viaggio”  alla ricerca della propria individualità e del suo realizzarsi nel contesto sociale, attraverso un processo di recupero dell’identità culturale, sia sul piano della soggettività che su quello della memoria collettiva, porterà i due protagonisti del romanzo a ridiscutere i principii cardine della propria esistenza, per averne di volta in volta una riconferma o per ampliarne la portata, mettendo allo scoperto fragilità e sensi d’inadeguatezza: e  penso al lungo dialogo con lo spirito della madre, morta durante la lunga assenza di Taisho, al quale, arruolatosi dapprima nell’Esercito Imperiale di Hirohito, impegnato poi sul fronte cinese, era infine toccato anche il compito di ergersi a baluardo in difesa dell’Oriente contro la minaccia delle spinte colonialiste occidentali.

Lo spirito guida della madre, custode della cultura ultramillenaria del popolo, rappresentante della classe contadina a cui lo Stato aveva confiscato terre ed esigue risorse per costruire ferrovie e complessi industriali, prospetterà a Taisho la visione equanime di una realtà ben diversa da quella che i funzionari e gli ufficiali dell’esercito imperiale propugnavano. Ricordo, a proposito, il capitolo dove si parla della coscrizione di leva volontaria, in cui il tenente colonnello Ishiwara Kanji cita il Rescritto Imperiale sull’Educazione, che incitò i giapponesi ad offrirsi coraggiosamente allo Stato a salvaguardia del trono imperiale. Ed era stata, ancora una volta, la madre a rimproverare a Taisho di non amare abbastanza la  propria terra, inconsapevole com’era dell’importanza che essa riveste nel processo di radicamento e sviluppo di una personalità equilibrata, che si realizza solo attraverso il Soul Making, il farsi della propria spiritualità nel mondo, per esprimermi con la famosa parafrasi usata dal poeta inglese J. Keats in una lettera al fratello George nel 1819.

Ma tutti questi aspetti, che riguardano l’affermarsi della sacralità dell’archetipo umano, e cioè la notevole variante del mistero dell’essere, dall’aspetto visibile ed invisibile, che è superficie di inesauribile profondità, si delineano al meglio nella figura del capitano Dekker. Egli va per tutta la vita alla ricerca di ciò che l’amico van Nejenroode definisce La grazia sufficiente, inconsapevole anche Baruch di tale sua ricerca, alla stessa stregua di Taisho o di qualsiasi altro uomo. Egli la riconobbe una volta nella sua amata Netsuki, nella cui stessa etimologia onomastica si cela un’arcana valenza gnoseologica, che riunisce in sé le dottrine filosofiche più svariate: dalle forme più arcaiche come quella della Madre Terra e Dio Cielo, o di tipo astrale legate al megalitismo, all’orfismo e ai misteri di Eleusi, dallo Zoroastrismo al Taoismo, al Confucianesimo, al Buddismo, all’Induismo, al Cristianesimo. Essa è la Luce della Sapienza, che amorevolmente guida e sostiene gli esseri umani durante la loro esistenza. E anche Taisho la scorgerà in sogno.

Nel bel dialogo fra Baruch e van Nejenroode, che si svolge mentre essi mitigano con il gioco del biliardo le angosce della cattività sull’isola di Dejima cui li hanno relegati i decreti dello shogun, Micheli esplica così uno dei principii fondanti sia la cultura Occidentale che quella Orientale, creando quel trait d’union tra le stesse tanto ricercato e voluto; ne  riporto un significativo stralcio:

“La nostra sorte – disse – non è molto dissimile da quella di queste biglie: ci spostiamo da destra a sinistra, da occidente a oriente, ma non siamo noi ad usare la stecca. Non ci è dato di oltrepassare i limiti che sono imposti alle nostre vite”.

È da qui, insomma, sembra dire lo scrittore, che bisognerà ripartire per continuare la nostra straordinaria avventura di uomini e donne sul pianeta azzurro, limite e parte del più vasto universo che ci circonda.

All’entrata del Delphinion gli antichi greci apposero una lapide che ammoniva chi si recava a rendere omaggio alla divinità, Apollo appunto:  Gnothi Seautòn, conosci i tuoi limiti e conoscerai te stesso, così come lo stesso maestro Aguri, usciere di prima classe, dice rivolgendosi a Taisho: “Ciò che sai riconosci di saperlo, ciò che non sai riconosci di non saperlo. In ciò consiste tutta la sapienza”.

Questa La grazia sufficiente, alla cui chiamata si può resistere ma solo se la si è già trovata, Enchiridion di luce.

Che la forza della saggezza e della perseveranza in essa sia con noi “[...] nel reprimere la rabbia e l’insofferenza, affinché si possa convivere in relativa tranquillità” (idem), all’insegna dei valori della non violenza, benevolenza e amore fraterno.

Recensione
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