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Eccoci a leggere la nuova opera di Liliana Ugolini che, attraverso personaggi e tematiche a Lei molto cari, ci conduce con la rarefazione del sogno e con la maestria della scrittura, su territori al limite tra terra e cielo, mentre la rappresentazione dell' opera stessa si svolge nel chiuso e denso spazio della scena teatrale che l'Ugolini pare prediligere per proiettarvi la propria scrittura poetica.
Ma tutta l'opera di Liliana è in fieri, poiché fedele alle stesse tematiche come avviene per i veri scrittori, di cui ogni volta ella ci porge una angolazione nuova da cui guardare l'eterno svolgersi della vita dal momento della creazione alla fine di un'Era. In termini più umani e più cari ai poeti: dalla vita alla morte. Per quel che riguarda i riferimenti musicali, da sempre sono presenti nelle opere della Ugolini, e lei li distribuisce appunto con naturalezza, come se attingesse a un bagaglio culturale di cui ci si è nutriti da sempre: qualcosa che trasmesso dalla famiglia ci accompagnerà per la bellezza e il sollievo del vivere. Per quanto concerne i riferimenti pittorici, questi sono nel suo sangue, nell'amore delle marionette costruite e dipinte di propria mano usando una tavolozza di colori sgargianti ma sempre nella tradizione. Non si dimentichi poi la produzione pittorica della sorella Giovanna, fantasiosa e vivacemente colorata, piena di clown e di figure misteriose che a volte mi pare di vedere tradotte in immagini poetiche da Liliana, in un bellissimo sodalizio e sorellanza di arti, e librate nell'universo in un mondo libero; a volte paiono sottratte alla ragione e abbandonate alla fantasia e perciò appartenenti al solo mondo dell'arte come un quadro di Chagall, pittore appunto qui citato, che nella disposizione degli oggetti sulla tela pare obbedire più alla legge del sogno o del volo che a quella di gravita. Ma proprio per questo ci dice qualcosa di nuovo. Al di là comunque degli strumenti cui ogni scrittore attinge per raccontarci il suo mondo, è sempre l'opera che parla, che entra nel teatro della vita umana per esserci. Mi pare in definitiva che quest'opera accampi la volontà di esprimere l'essenza della vita e forse per questo non si sofferma in particolare su qualche tematica pur cara alla Ugolini. Riesce nell' intento attraverso pennellate di parole più espressive di ogni spiegazione, attraverso cenni a temi consueti, passaggi da personaggi ad altri, personaggi inesistenti o diafani come ombre: in riferimento forse a quello che noi saremo o che eravamo; o anche in riferimento alla nostra dipendenza di uomini legati a fili che Altri dirigono; alla maschera che nasconde la nostra vera identità di uomini e di donne se pure abbiamo un'identità, poiché tutto è in perpetua mutazione e noi siamo noi e molti altri insieme, e quelli che verranno saranno noi e molti altri ancora. Mi pare dunque un'opera che cerca una semplificazione nella complessità del vivere, cerca l'essenza del vivere, come un quadro di Fontana che ha già superato tutto il reale, il classico della produzione precedente, per arrivare all'osso: la tavolozza bianca con il taglio: noi siamo di qua e di là, dentro la vita e sulla soglia della morte. E in questo senso l'opera di Liliana dice le cose come stanno, e stanno come un gioco da rappresentare in teatro attraverso "l'opera, perché solo l'opera sapeva di divino nella sua diversità". Dunque ciò che importa alla fine è l'opera, le parole che la "formano" e la rappresentazione della stessa come specchio del vivere. Poiché senza lo specchio non ci vedremmo. E l'opera, pur nei trasalimenti e nelle paure che procura all'uomo il mare in tempesta, come sinonimo della burrasca del vivere, ma anche come precipizio dei mortali verso sicura morte, cui si accenna quasi all'inizio: e nonostante le citazioni di tante altre "scenografie d'acque, di terra e di sabbia che si scambiavano i ruoli": l'opera, appunto, si accampa quasi come un divertimento, una clownerie, ricca di personaggi da circo e saltimbanchi. O forse il "di divertire" è un modo per alleviare il peso del racconto sulla vita, sulle vite? Non manca a Liliana il senso dell'umorismo né la saggia capacità di rendere più lieve con i suoi versi il peso del vivere. Come uno appunto che racconta "in scena" la vita, qualcosa che ci appartiene, ma ci appartiene solo in quanto racconto. Infatti il sipario calerà su questa Era, per aprirsi a un'altra Era che non sappiamo se sarà migliore di questa, come questa, o se se sarà l'Era dell'Eternità. Le scene dunque vengono raccontate come da uno che guarda da fuori; infatti il mimo che riferisce è muto, bianco come una nuvola, dinoccolato e stanco e con i buchi negli occhi. Il mimo è quello che "nell'apparente immenso dello sguardo abbraccia la galassia" ed è sovrastato di meraviglia per l'immenso universo in cui è proiettato e per la bellezza delle stelle. Ha gli occhi ciechi, come Omero, per vedere con gli occhi della mente, perché tanto lo sguardo non potrà mai abbracciare tanta meravigliosa infinità in tanto perdersi rimane un'unica certezza "il magma che si muove | delle nostre storie pietra o meteora". Rimane la vischiosità delle nostre storie di uomini, ben poca cosa di fronte all'infinito, ma sono le nostre, le uniche che ci tengono legati alla terra e le uniche che ci danno la coscienza del vivere. Ed ecco che il mimo si trasforma nella nostra Autrice. Ed ecco che in due godibili pennellate Liliana ci racconta proprio all'inizio la storia del farsi del cosmo. Ma il nostro spaesamento termina sulla soglia di casa "La casa dove bacio la soglia | mi riconosce amica di presenze | carte fra cartoline, pupi | di somiglianze, maschere vere | e non di gesso" "Bacio la soglia a casa" e molto più avanti "Non sarei chi sono | se quel giorno non fossi partita per restare" con esplicito riferimento al travaglio della conoscenza del vivere, ma con un piede sempre piantato "in casa" nelle cose in cui ci siamo identificati, che sono quelle che amiamo, che sono anche il teatro in cui si svolge la nostra vita, dopo le escursioni all'esterno che ci aiutano a capire. Sono anche lo spazio custodito come scena della nostra rappresentazione. Ad impreziosire il lavoro, da un punto di vista formale, vediamo che il testo si esprime in poesia e in prosa, una prosa altrettanto densa e poetica. Quasi a convalidare ciò che si diceva prima, e cioè che nell'ambito del vivere nessuna forma e nessun ruolo sono fissi: così anche nel linguaggio della rappresentazione, la prosa può tramutare in poesia e lasciare cadere gli steccati tra l'una e l'altra poiché esse stanno insieme sotto l'unica categoria del bello. Quello del mutamento delle cose è un concetto molto importante e spesso ribadito. Vi sono brani in prosa, che introducono la poesia, di grande efficacia. Si prenda per esempio la storia de "La parola e il silenzio" dove si narra che le parole dai primordi dell'umanità hanno popolato il mondo, ma con il passare del tempo sono sempre di più e di troppo, anche se sono leggere. Esse sono diventate in realtà una folla incontenibile non più in grado di essere trasportata dal cavallo del disegno. Questo era un cavallo normanno e i fili dei finimenti sottilissimi. E' un brano di bravura sia per la prosa in sé, ma anche per la citazione di questo disegno di cavallo, che attraversa i tempi ma che rimane fisso nel tempo grazie all'arte del disegno insieme al paggio che ha avuto pietà di lui. Il cavallo simbolo della velocità e dell'eleganza affonda e invecchia sotto le parole. Il saltimbanco invece uscirà dal quadro per continuare a dire del cavallo e del paggio. Si veda l'intreccio che intercorre tra l'autore, che deve dire parole per illustrare la storia del cavallo , irrigidito nel bel disegno, e l'arte stessa del disegno e della pittura, come si faceva notare precedentemente. Ma l'Ugolini sa bene che quale che sia manifestazione, tragica o bellissima, di fronte all'occhio adulto diventerà abitudine. L'uomo adulto si fa cieco per abitudine. Per questo la salvezza del vedere con meraviglia le cose del creato, ma anche l'intimità di ogni uomo, è riposta nello sguardo di un bimbo. Cioè nell'innocenza e nella capacità di guardare il mondo com'era all'origine. I bambini potranno giudicare gli adulti e i loro misfatti proprio perché in loro alberga un animo puro che può avvicinare la verità. Gli occhi del bambino sono gli stessi occhi che albergano nell'animo del poeta che a tratti e nell'attimo può carpire la verità. Il termine "attimo" richiamato pin volte in questo testo, a indicare la possibilità della conoscenza frammentata, fatta di attimi, un abbaglio di qualcosa e poi più nulla. E questa è la testimonianza che il poeta può dare del vivere. E che il bambino conserva in sé come dote naturale, finché è bambino. Riandiamo dunque al nostro Pascoli, alla bella teorizzazione del Fanciullino, mai superata e di antica derivazione greca, quando il fanciullino si incentrava nella figura del Puer, per esempio in Apollo, il "sacro Puer" simbolo del sole, cioè della capacità di conoscenza divina. Con qualche variante Pascoli, ma anche tanti poeti moderni tra cui Liliana Ugolini, ripone la vera conoscenza nella purezza dell'innocenza. Dunque auguro a quest'opera un felice iter, anche di rappresentazione, poiché nella sua levità e rarefazione, ma anche negli episodi ben narrati in prosa, nei richiami alla musica e ai colori, nella trama leggera ma intensa e verace, ben si presta come le altre opere della Ugolini ad essere portate in scena. |
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